Testo di volantino distribuito dall'OCI al Social Forum Europeo di Firenze
Sappiamo tutti, noi che siamo presenti qui a Firenze per manifestare contro la globalizzazione capitalistica, quanti e quali effetti devastanti essa stia avendo sugli esseri umani e sulla natura.
Diamo questo per scontato, e ragioniamo un po su come opporci ad essa, a partire dai due "temi" che sono al centro di queste giornate: la guerra allIraq e i "diritti sociali" in Europa.
In questa iniziativa siamo tutti contro una nuova aggressione allIraq, e contro lasse Bush-Blair-Berlusconi. Cosa buona, ma non sufficiente, perché il popolo iracheno è già oggi, e da più di 10 anni, "bombardato" da un "pacifico" embargo voluto dallOnu che si è rivelato "una vera e propria arma di distruzione di massa" (la definizione, perfetta, è degli attivisti di Answer). E dunque, come alcuni "uomini di buona volontà" quali Benjamin, Strada, Clark almeno in parte riconoscono, non basta essere contro la nuova guerra, bisogna denunciare anche la "pace" in atto, voluta e mantenuta in piedi anche dallEuropa, che fa altrettanto, e più, schifo, che è altrettanto, e più, criminale della guerra che lha generata.
Cè un solo modo per
fermare la politica "estera" ed "interna" del governo Berlusconi: Lottare contro la "guerra infinita" e lavorare per lo sviluppo di un movimento di lotta contro di essa e la globalizzazione capitalistica vuol dire, per gli sfruttati e i giovani che vivono in Italia fare i conti con la mano con cui il capitalismo internazionale attua le sue politiche qui in Italia: il governo Berlusconi-Bossi-Fini. Verso il quale, dopo lo sciopero del 18 ottobre non va ripetuto lerrore compiuto nel 1994, quando, dopo la grande manifestazione di novembre, abbiamo moderato la lotta anziché intensificarla, affidando, con i risultati che si sono visti, la difesa degli interessi dei lavoratori alle elezioni e alla politica concertativa di Prodi-DAlema-Bertinotti prima, di DAlema poi. Cè un solo modo per mettere un alt alla politica portata avanti dal governo italiano, sia sul piano internazione che su quello interno: continuare, estendere la lotta, puntare a far convergere le mobilitazioni in corso dietro lobiettivo di far cadere Berlusconi con gli scioperi ad oltranza e con le lotte di piazza. E davanti a un nuovo eventuale esecutivo (magari dunità nazionale...) farsi trovare questa volta organizzati a difendere con la lotta, in modo intransigente, gli interessi proletari. Organizzati, ad esempio, per presidiare lart. 18 nellunico modo possibile: battendoci sui luoghi di lavoro (non sui tavoli referendari) per estendere le tutele a chi oggi, giovani e immigrati innanzitutto, non ne usufruisce e per rispedire al mittente il pacchetto Maroni sul mercato del lavoro e la legge Bossi-Fini sugli immigrati. Abbiamo la forza per farlo! Gettiamola sul piatto a partire dal prossimo sciopero dei metalmeccanici, e organizziamola non nei tanti partiti della sinistra sottomessi al capitale, ma collegandoci con i lavoratori degli altri paesi europei e con le masse oppresse del Sud del mondo. Leghiamo la lotta contro la politica "interna" del governo Berlusconi a quella contro la sua politica "estera". Battiamoci contro le nuove guerre in preparazione, contro la "pace" che le incuba e per il ritiro dei contingenti militari doccupazione italiani sparsi nei Balcani, in Afghanistan e nel resto del mondo, cani da guardia contro la ribellione delle masse lavoratrici dei continenti di colore. |
Quanto poi alla nuova guerra, sentiamo dire da più parti: "lItalia resti fuori dalla guerra". E con ciò spesso si intende: teniamo fuori dalla guerra il nostro paese, perché (ha scritto, per esempio, Liberazione) "il vostro petrolio non vale le nostre vite". Ovvero: siamo contro questa guerra perché non ne vogliamo pagare di persona il prezzo (salvo a non voler neppure pagare il petrolio a prezzi meno stracciati di quelli attuali , o ci sbagliamo?). Sennonché nessun disimpegno del genere è possibile. Perché la guerra ci sarà comunque, e la sua preparazione è, con tutta evidenza, già cominciata: il governo Berlusconi e una bella fetta dellUlivo non hanno forse deciso di spedire in Afghanistan 1.000 soldati in sostituzione di altrettanti militari statunitensi da impegnare in Iraq? Insomma non si può restare fuori dalla guerra perché la guerra allIraq, ci piaccia o meno, cè già, ed in essa, in un modo o nellaltro, è coinvolto tutto lOccidente, non solo gli Stati Uniti. Perché a tutto lOccidente, non solo agli Stati Uniti serve una gran quantità di petrolio a costo zero, perché tutto lOccidente ha bisogno di terrorizzare le popolazioni arabo-musulmane (e terzomondiali), perché a tutti i governi occidentali giova la guerra per cercare di frenare e deviare il risveglio delle lotte degli sfruttati.
Ma, ci chiediamo, si può essere davvero contro il binomio "pace"-guerra che martirizza il popolo iracheno senza schierarsi con esso, dalla sua parte? dalla sua parte non solo in quanto vittima, ma in quanto popolo che resiste, si batte e si prepara a rispondere (come può) a questa nuova guerra di rapina. O dovremmo invece chiedergli di alzare le mani davanti ai macellai del Pentagono, di Wall Street e della City? E se la nuova aggressione allIraq è parte integrante della "guerra infinita" che lintero Occidente capitalista ha scatenato contro le masse di colore super-sfruttate che si rifiutano di piegarsi ai suoi ordini, allora il nostro sostegno incondizionato ad esse deve allargarsi dal popolo iracheno allindomita Intifadah palestinese, alla resistenza degli afghani, dei colombiani, dei nepalesi, etc.
Nel movimento no global non mancano certo le spinte in questo senso. Non possiamo illuderci, però, che a sbarrare il cammino a questa nuova aggressione possano servire appelli e petizioni a poteri presuntamente "pacifisti", o possa bastare una sorta di referendum informale su chi è contrario alla guerra, e neppure una sola (o anche più) grandi manifestazioni. Quel che occorre è ingaggiare una lotta permanente e a fondo contro il nostro nemico n. 1, sia esso dichiaratamente bellicista o pseudo-pacifista, che è qui, in casa "nostra" ed è il "nostro" governo, il "nostro" capitalismo assetato di profitti, è il Fmi, è lEuropa di Bruxelles (e di un certo qual Prodi ). Quel che occorre è dare piena solidarietà (al momento, invece, assai scarsa) ai lavoratori immigrati, avamposto qui dei popoli di colore, su cui si abbattono quotidianamente una velenosa guerra di propaganda e una quantità di misure discriminatorie e razziste, collegarci con tutti i movimenti che con più coerenza (pensiamo agli Stati Uniti e allInghilterra) si oppongono alla guerra, per formare insieme alle grandi masse del Terzo e del Quarto Mondo un solo ed unico fronte comune contro limperialismo.
Questa mobilitazione contro la "guerra infinita" agli sfruttati del "Sud" del mondo non è altra cosa dalla mobilitazione, che qui a Firenze si intende rilanciare, per migliorare le condizioni di lavoro e di vita del proletariato del "Nord" del mondo. La guerra "esterna", infatti, è tuttuno con la guerra interna che le forze capitalistiche stanno conducendo qui contro i salari, i "diritti" e lorganizzazione stessa dei lavoratori.
È certamente positivo che questi "due" temi vengano in più settori del movimento accostati e collegati. Ma bisogna dirsi con chiarezza che una lotta contro il neo-liberismo, se non vuole ridursi alla misera richiesta di un liberismo un po più diluito (alla Blair o alla Rutelli-Fassino), se vuol essere una lotta coerente non solo contro gli effetti ma anche contro i principi neo-liberisti, che sono poi i criteri di fondo di tutte le politiche "sociali" del capitalismo, deve mettere in discussione la prospettiva politica che ha subordinato finora i lavoratori agli interessi delle aziende e delleconomia nazionale.
Dagli Stati Uniti Dieci ragioni per cui le donne dovrebbero opporsi alla "guerra contro il terrorismo"
The Women of color Resource Center Berkeley -California (www.coloredgirls.org) |
Prendiamo il caso Fiat. Negli scorsi decenni la Fiat ha usato le disuguaglianze di sviluppo tra Nord e Sud Italia, tra Italia e America Latina, tra Italia e Polonia, per organizzare una sistematica concorrenza al ribasso tra i vari stabilimenti, la quale ha progressivamente affondato salari e livelli di occupazione, mentre il padrone inaspriva i ritmi di lavoro, la precarietà dei rapporti di lavoro e il controllo sugli operai. La sola via di uscita da questa spirale distruttiva per i lavoratori non sta in "piani industriali" che accrescano la competitività della Fiat rispetto alle imprese concorrenti, sta, al contrario, nel respingere la concorrenza tra proletari, nel rifiutare i vincoli soffocanti delle compatibilità aziendali e nazionali, e nel mettere al loro posto, come un "vincolo" non trattabile, le "compatibilità operaie", battendosi per imporre ai padroni la parificazione verso lalto dei salari e dei diritti dei lavoratori.
Allo stesso modo, potremo fermare ed invertire la infinita corsa alla precarizzazione e allisolamento delle nuove leve del lavoro -chè amara esperienza quotidiana di milioni di giovani in ogni settore delleconomia- solo respingendo una logica capitalistica secondo cui maggior "flessibilità" è uguale a maggior occupazione, e maggior occupazione è uguale a maggior benessere per chi vive del proprio lavoro. Una logica che anche la "sinistra" politica e sindacale ha fatto sua, proprio mentre la realtà effettiva del "turbo-capitalismo" mostrava invece in modo inequivoco che maggior flessibilità è uguale a maggior precarietà, più intenso sfruttamento, minore forza contrattuale, inasprita concorrenza dei più precari nei confronti dei lavoratori più "stabili", ulteriore allargamento della precarizzazione, e così via fino alla assoluta necessità, messa in luce dal grande sciopero allUPS e dalle prime lotte alla McDonalds e nelle imprese della net economy, di mettere un deciso alt a questo degrado delle condizioni di lavoro e di esistenza di tanti giovani.
Anche su questo piano, come per la lotta contro la guerra, una reazione efficace richiede, da qualsiasi punto si parta, di puntare alla costruzione di un solo fronte internazionale di lotta. Diciamo internazionale, e non meramente europeo, perché respingiamo alla radice il "sogno", al fondo impossibile e poi pericolosissimo ai fini dellunità internazionale dei lavoratori, di una Europa "sociale", "dei diritti", di una sorta di capitalismo europeo "dal volto umano", di un altro capitalismo "possibile" disponibile a recepire le istanze del mondo del lavoro, a braccetto del quale fare concorrenza agli Stati Uniti ed avere "equi rapporti di scambio" sul mercato mondiale, sul tipo di quelli che lEuropa "sociale" di un Delors, così cara a Cofferati, ha intrattenuto con i popoli jugoslavi, a suon di secessioni, guerre "etniche" impulsate, bombe intelligenti, petrolchimici fatti saltare per aria, 40.000 lavoratori Zastava (e quantaltri) gettati sul lastrico, dosi intensive di uranio impoverito sparso per le future generazioni e via dicendo.
Per spezzare linfinita corsa al ribasso delle proprie condizioni e dei propri diritti, per la costruzione di unorganizzazione e di un fronte di lotta internazionale, i lavoratori italiani (e così quelli delle altre nazioni europee) sono chiamati a rompere con limpostazione riformistica (un riformismo sempre più vuoto di concreti risultati riformatori) che pretende di conciliare i contrapposti poli del capitale e del proletariato. A sanare la frattura che il mercato cerca di riprodurre di continuo tra "vecchie" e nuove leve del lavoro, tra "stabili" e precari. A raccogliere con convinzione la domanda che proviene dai settori avanzati del movimento proletario est-europeo che ci chiedono, da Timisoara a Varsavia, dalla Macedonia alla Serbia alla Cechia, e dal Medio Oriente, dallAsia, dallAmerica Latina, di sostenerli nel loro sforzo di nuova sindacalizzazione. A stabilire dei collegamenti sempre più stretti con i lavoratori di tutto il mondo per opporre unitariamente le aspettative e le necessità del proletariato al meccanismo stritolatore del mercato.
Da ogni lato si ritorna sempre al punto-chiave. Gli effetti devastanti della globalizzazione capitalistica in corso, dalla fame alla demolizione dello "stato sociale", dallinasprimento della oppressione della donna alla distruzione e al saccheggio della biodiversità, dalla catena di guerre neo-coloniali allincessante metastasi delle patologie sociali più orrende sono i più diversi, ma la loro origine è unitaria: è nel mercato e nel capitalismo mondiale. E altrettanto unitaria alla scala mondiale deve essere la nostra risposta di lotta. È proprio questo, da Seattle in poi, il grande merito del movimento no global: aver messo a confronto spezzoni di varia umanità sofferente in lotta contro questo o quelleffetto del capitalismo, e avere, con ciò, posto sulle sue basi materiali il problema di chiarificare le coordinate politiche e organizzative necessarie per unificare i "mille movimenti" di opposizione in un movimento e in un progetto unitari. Il punto è: quale programma unitario di lotta, e per quale obiettivo?
Cè chi propone la Tobin Tax da attuare mano nella mano con le socialdemocrazie guerrafondaie e taglia-welfare. Chi un piano à la Delors per quellEuropa "sociale" di cui abbiamo visto un assaggio negli anni Novanta e che ha spianato la strada (nelle politiche e soprattutto nella disorganizzazione della forza collettiva dei lavoratori) alla "svolta" a destra in atto nelle politiche statali europee.
Noi comunisti internazionalisti guardiamo da tuttaltra parte. Siamo, sia ben chiaro!, con ogni singola lotta, per spingerla allunità con le altre "singole" lotte; ma come ieri, nella disapprovazione generale, osavamo dire: "Non è possibile alcuna Onu dei popoli diversa, alternativa rispetto a quella ufficiale", così oggi osiamo dire: non è possibile alcun capitalismo "sociale", "veramente democratico", diverso e alternativo rispetto a quello esistente, che stiamo qui contestando. Lunico capitalismo possibile è questo! Lo ha ricordato da ultimo DAlema a Cofferati: se si accetta il rispetto delle compatibilità capitalistiche, non cè via di scampo nelle conseguenze da ingoiare quanto ai "diritti del lavoro", la cui erosione può, al più, esser limata a patto che si mantenga e incrudisca il saccheggio dellEst e del Sud, e gli stessi proletari se ne facciano artefici.
Ciò che le mille lotte in corso contro gli effetti del capitalismo globale evocano è la necessità di battersi per un altro sistema sociale, fondato su basi antitetiche a quelle del mercato, del profitto e del salario. Come si può, infatti, dare soluzione anche ad uno solo dei "misfatti del capitalismo" denunciati dal movimento no-global senza che lumanità lavoratrice, che ne è stata finora espropriata, riconquisti lintero frutto dellattività produttiva umana e lo impieghi secondo un piano mondiale per liberare tutti e ciascuno dai vincoli della "necessità"?
Questa riappropriazione collettiva, internazionale, della "ricchezza" sociale non potrà certo prescindere dalle differenze oggi esistenti, né prevaricare sui "caratteri propri" di qualsiasi "comunità", in quanto comunità che si ribella partendo da sé al dominio del capitalismo globalizzato. Si darà, invece, a partire proprio dalla valorizzazione e liberazione delle singole realtà storico-culturali. Per unautentica liberazione e socializzazione umana, però, essa dovrà puntare a inventariare, controllare e dirigere nel loro insieme le forze del lavoro mondialmente socializzato (dal capitalismo stesso), e potrà farlo solo distruggendo lattuale divisione sociale e internazionale del lavoro, e non attraverso unimpossibile trasformazione che la renda più "equa".
Lesigenza di pervenire a ununità dindirizzo nel movimento no-global richiama unaltra esigenza: quella di costituire unorganizzazione in grado di dirigere e sostenere intorno a questo asse lunificazione dei "mille movimenti" in una comune battaglia contro il capitalismo internazionale. Anche nei documenti preparatori del Social Forum Europeo si parla di questo, di un soggetto politico, di una rete che funga da centro di coordinamento europeo, ma si mette in guardia dalla trasformazione di un simile soggetto in partito politico. Anzi il SFE fa di più: chiude le porte in modo formale alla partecipazione dei "soggetti propriamente partitici", lasciando però ben aperte le finestre, perlomeno, a determinati soggetti partitici; come è successo a Porto Alegre, dove si sono esclusi dagli inviti ufficiali il "partito" delle Madres de Plaza de Mayo e quello di Fidel Castro, salvo poi ammettere fior di ministri, parlamentari, sindaci e sottopancia socialdemocratici, e dunque i loro stessi partiti, con le giustificazioni più speciose.
Per parte nostra, ben lontani da simile ipocrisia, diciamo ai manifestanti di Firenze: che lo vogliate o meno, tutto quello che state e stiamo facendo porta avanti un processo di "socializzazione" delle singole esperienze -quandanche umanitarie-, delle singole lotte, creando tra esse, quanto meno, un rapporto federativo, di reciproca informazione, di coordinamento. Ma più la lotta si intensificherà e si estenderà, più risulterà chiaro che il problema che abbiamo di fronte, al fondo, è uno, pur nei differenti aspetti fenomenici; che il nemico è uno; che lobiettivo finale è uno, per cui un movimento reale che cresce deve procedere nel senso della unificazione delle forze, e questunificazione può darsi solo intorno alla prospettiva comune del socialismo e a unorganizzazione di partito che la incarni, la faccia vivere nelle lotte presenti e la porti avanti sulla base della crescente auto-organizzazione delle masse lavoratrici.
Non è un sogno nostro. È quello che chiedono (ed a cui offrono la linfa vitale) la resistenza degli sfruttati in atto nel Sud del mondo contro la dominazione dellOccidente e liniziale risveglio delle lotte dei lavoratori e della gioventù in corso nelle cittadelle occidentali. È ciò di cui questa ripresa parallela (e in parte intrecciata) delle lotte nel Sud e nel Nord, seppur ancora largamente disorganizzata, ha bisogno per superare le attuali divisioni e trasformare la nuova guerra allIraq e la nuova razione di sacrifici e repressione scaricata in Occidente in un boomerang contro i grandi poteri imperialisti.