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2.4.2008  Da il "Il manifesto"

"In 20mila sfilano contro la multinazionale: stipendio inferiore a un paio di scarpe
La replica dell'azienda Usa: "È un salario superiore alla media del Paese"

Vietnam, la marcia degli operai
"Noi, sfruttati dalla Nike"

È il più grande sciopero nella storia del Vietnam riunificato sotto le bandiere del comunismo. E colpisce una marca-simbolo della globalizzazione: 20.000 operai e soprattutto giovani operaie hanno paralizzato uno dei più grossi stabilimenti della Nike. È un nuovo duro colpo per l'immagine della Nike, che è già stata il bersaglio di campagne delle associazioni umanitarie e dei consumatori americani per gli scandali del lavoro minorile e per lo sfruttamento sistematico della manodopera nei paesi più poveri.

I lavoratori della fabbrica di Ching Luh, nella provincia meridionale di Long An, da ieri sono scesi in lotta per ottenere aumenti salariali. La loro paga attuale non raggiunge i 40 euro mensili: meno del prezzo medio di un solo paio di scarpe sportive in un ipermercato occidentale. E anche se questo è un salario "superiore alla media degli operai vietnamiti", come si è affrettata a precisare la multinazionale, le buste paga hanno visto il loro potere d'acquisto taglieggiato da un'inflazione galoppante, soprattutto per il genere alimentare più essenziale, il riso.

Nguyen Van Thua, il leader del sindacato provinciale, ha dichiarato ieri che "gli operai non riescono più a sopravvivere con questo salario, il costo della vita li impoverisce giorno dopo giorno". L'improvviso sciopero ha bloccato una delle fabbriche più importanti, in un paese-chiave per la delocalizzazione produttiva della Nike. La multinazionale americana, numero uno mondiale nell'abbigliamento sportivo per teenagers e negli "sneakers" (scarpe da jogging, tennis e basket), fa confezionare in Vietnam 75 milioni di calzature all'anno. La fabbrica di Ching Luh è la più grossa tra i dieci centri di produzione situati nello Stato comunista.

 


Ma secondo una politica seguita sistematicamente dal colosso americano, lo stabilimento non è posseduto dalla Nike che perciò può dissociarsi dalle responsabilità del management. I proprietari in questo caso sono imprenditori taiwanesi, legati da un contratto di fornitura in esclusiva per la Nike.

"Riconosciamo che l'impatto dell'inflazione è duro per il popolo vietnamita - ha commentato dagli Stati Uniti il portavoce della Nike Chris Helzer - e speriamo che il problema sia risolto rapidamente e in modo consensuale". Il rappresentante della multinazionale, celebre per i contratti di sponsorizzazione miliardari con le più celebri star dello sport mondiale, ha aggiunto che "tutti i fornitori della Nike sono tenuti a rispettare i nostri standard elevati riguardo alle condizioni di lavoro, nel rispetto delle leggi locali".

È questa strategia che in passato ha attirato le ire delle associazioni umanitarie. Dietro le campagne di boicottaggio che hanno colpito la Nike c'è l'accusa alla multinazionale Usa di nascondersi dietro i terzisti e di invocare il rispetto delle leggi locali, in paesi dove la tutela dei lavoratori è debole o inesistente.

Sotto la pressione delle associazioni di consumatori americani e di ong umanitarie, la Nike è stata una delle prime multinazionali a varare un codice etico e a pubblicare un "rapporto di responsabilità sociale" insieme con il proprio bilancio annuo. Si è impegnata cioè a garantire la massima trasparenza sulle condizioni di lavoro in vigore presso i propri subfornitori, concentrati nei paesi asiatici a basso costo della manodopera: oltre al Vietnam la Nike ha 130 fabbriche in Cina e altre decine in India, Malesia, Indonesia.

Ma il "rapporto di responsabilità sociale" non ha impedito che scoppiasse uno scandalo recente in uno dei suoi stabilimenti in Pakistan, dove molti bambini erano coinvolti nella produzione di palloni da calcio cuciti a mano. Nel caso del Vietnam la tensione salariale è resa acuta dal folle rincaro dei generi di prima necessità.

L'inflazione che dilaga in tutta l'Asia colpisce duramente l'ultimo dei "dragoni", il Vietnam del miracolo economico che negli ultimi anni ha messo a segno una crescita del Pil dell'8% annuo. Il boom vietnamita ricalca fedelmente la ricetta cinese: è uno sviluppo trainato dalle esportazioni, in un paese che ha sposato l'economia di mercato pur mantenendo un regime autoritario e il potere assoluto del partito comunista. Via via che i livelli salariali sono aumentati nei due giganti vicini, Cina e India, il Vietnam è diventato la nuova frontiera della delocalizzazioni per le multinazionali occidentali in cerca di forza lavoro a buon mercato. Il salario medio vietnamita e inferiore alla metà di quello della provincia più industrializzata della Cina, il Guangdong. Ora anche gli operai vietnamiti si ribellano.

Nell'ultimo mese i prezzi dei generi alimentari sono rincarati del 25%, un colpo duro per le buste paga degli operai della Nike. Il principale imputato per questo choc inflazionistico è il riso.

di FEDERICO RAMPINI

Il manifesto 2 aprile 2008

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