21 luglio 2007
Perchè no agli inceneritori-termovalorizzatori
Giorgio Nebbia
Lo smaltimento dei rifiuti in Italia è stato disciplinato, per alcuni anni, dal cosiddetto decreto “Ronchi” (decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22), con varie successive modificazioni, che avrebbe dovuto recepire la normativa comunitaria. Poiché il complesso di legge era troppo disturbante per i poteri che girano intorno ai rifiuti e agli inceneritori, il decreto Ronchi è stato abrogato con il triste ”Testo unico” di leggi ambientali (decreto legislativo 152/06) approvato dal governo Berlusconi poco prima del suo licenziamento nel 2006. Le norme sui rifiuti sono state modificate e divergono ancora di più dalle norme europee e d’altra parte anche a livello comunitario si cerca di modificare le norme esistenti per renderle più accettabili dalle imprese. A tutto danno dei cittadini e della salute e dell’ambiente. E anche dell’economia e dell’industria perché una razionale e innovativa azione nel campo dei rifiuti stimolerebbe invenzioni, nuovi processi produttivi e la produzione di nuove merci.
Da oltre un anno stiamo vivendo in una grande confusione legislativa. La normativa comunitaria in vigore (ancora) attualmente indica chiaramente che il problema dei rifiuti solidi deve essere risolto con i seguenti principali interventi che sono non solo di politica ambientale, ma anche di politica economica, industriale e merceologica.
La prima cosa da fare è diminuire la quantità dei rifiuti. La seconda è recuperare "materia" dai rifiuti; in terzo luogo, quello che non può essere riciclato può essere bruciato generando e vendendo calore o elettricità. Infine quello che non si può smaltire altrimenti può essere messo in adatte discariche --- adatte per ciascun tipo di rifiuto solido.
La normativa comunitaria precisa anche una gerarchia di importanza fra le azioni per il trattamento dei rifiuti: al primo posto la progettazione di merci, macchinari e prodotti con bassa formazione di rifiuti, duraturi, e che, dopo l’uso, possano essere smaltiti con limitata formazione di rifiuti; che siano facilmente riciclabili. Addirittura la legge prevede incentivi per l’acquisto e consumo di merci e prodotti ottenuti dal riciclo dei materiali presenti nei rifiuti, e l’obbligo, per la pubblica amministrazione, di acquistare carta riciclata o altri prodotti ottenuti dal riciclo, obbligo che peraltro esiste da molti anni, praticamente sempre evaso.
Gli obiettivi prioritari delle norme comunitarie --- riprogettazione delle merci e dei manufatti perché producano meno rifiuti, reimpiego, raccolta differenziata di materiali riciclabili, recupero di materi --- offrono una grande occasione per una importante svolta tecnico-scientifica ed industriale, per una vera e propria terza rivoluzione industriale.Tanto più che la massa di materiali da trattare --- qualcosa che, in Italia, si aggira intorno a 100 milioni di tonnellate all’anno, quasi 40 milioni di t/anno di soli rifiuti solidi urbani --- è così grande da offrire le condizioni per una mobilitazione della ricerca industriale, applicata, universitaria, per la nascita di nuove imprese, per la creazione di duraturi posti di lavoro.
L’importante svolta imposta, almeno a parole, dalla normativa comunitaria comporta il superamento di difficoltà tecniche, scelte politiche e commerciali in un mercato internazionale in cui molti paesi hanno intrapreso da tempo la strada che in Italia comincia adesso. Molti processi industriali dovranno subire radicali cambiamenti, all’inizio costosi, anche se in breve tempo redditizi; dovrà cambiare la stessa organizzazione delle città, una vera rivoluzione merceologica ed ecologica del massimo interesse per la modernizzazione dell’Italia e la sua trasformazione in paese europeo.
Per sfuggire alla sfida imposta dalle norme comunitarie, recepite a suo tempo dal “decreto Ronchi” del 1997, i potenti interessi economici del trattamento dei rifiuti e soprattutto degli inceneritori sono riusciti, specialmente con il testo unico del governo Berlusconi, del 2006, addirittura a rovesciare l’ordine di priorità dei trattamenti, in modo che fossero privilegiati gli inceneritori. Numerosi soggetti economici furbescamente hanno adottato dei sistemi di separazione grossolana di parte dei materiali non combustibili presenti nei rifiuti solidi urbani, dai materiali combustibili, soprattutto carta e plastica e una parte della materia organica. In questo modo sostengono di praticare una raccolta differenziata, un recupero, ma in realtà tutta la massa dei materiali combustibili viene poi inviata ad inceneritori dotati di sistemi per il recupero di energia e successiva produzione di elettricità, impianti chiamati eufemisticamente termocombustori, termovalorizzatori, o nomi simili che, comunque, inceneritori sempre sono. O addirittura finisce nelle discariche.
Questa operazione si svolge con numerose varianti: la raccolta di una frazione “umida” non combustibile, destinata a discarica o ad una controversa operazione di “compostaggio”; la raccolta, presentata come “differenziata”, “multimateriale”, per mettere insieme la maggior parte dei rifiuti dotati di un potere calorifico, combustibili, destinati all’incenerimento; il trattamento di questi rifiuti combustibili con formazione di un materiale chiamato “CDR”, combustibile, cioè, derivato dai rifiuti, da avviare ai cosiddetti “termovalorizzatori” o da cedere ad altri impianti industriali come centrali termoelettriche, cementifici, altri processi di combustione; adozione di varianti degli inceneritori, come gli impianti a letto fluido, a pirolisi, a gassificazione, a plasma, con trattamenti meccanico-biologici, tutti con la promessa di più o meno efficaci sistemi di abbattimento degli agenti inquinanti.
Un qualche frazionamento, in genere, c’è sempre prima della combustione, tanto che molte imprese e amministrazioni possono vantarsi di praticare un’elevata percentuale di ”raccolta separata” dei rifiuti, senza spiegare che poi, generalmente, la frazione “raccolta separatamente” non viene riciclata ma “bruciata”!
Comunque sia, gli inceneritori-"termovalorizzatori" bruciano solo una parte del materiale, perché una parte, che arriva al 25 %, è costituito da residui incombusti, o “ceneri”, sostanze inorganiche la cui composizione chimica viene modificata nel corso della combustione, che sono in parte solubili nelle acque delle piogge o del sottosuolo, e il cui smaltimento finale richiede delle speciali discariche, molto più sicure di quelle ordinarie in cui vengono “sepolti” i rifiuti tali e quali. La scelta di costruire inceneritori comporta quindi, inevitabilmente, la necessità di costruire anche discariche, sia pure di minori dimensioni, ma che richiedono accurati controlli per evitare gli effetti ambientali negativi, questa volta sulle acque superficiali e sotterranee.
Il successo degli inceneritori-“termovalorizzatori” è stato possibile grazie ad un trucco normativo infilato nelle norme che si propongono di assicurare un contributo pubblico all’elettricità ottenuta con centrali che utilizzano, anziché carbone e prodotti petroliferi e gas, fonti di energia “rinnovabili”. L’idea di base era consumare di meno fonti energetiche fossili che immettono nell’atmosfera anidride carbonica e altri “gas serra”, responsabili delle modificazioni climatiche e di incoraggiare innovazioni e impianti in grado di produrre elettricità con fonti come il Sole, il vento, i piccoli salti di acqua, la geotermia e simili. Ma anche con centrali termoelettriche, a condizione che brucino combustibili “rinnovabili”, come scarti di produzioni agricole, residui forestali, eccetera, “biomassa”; l’anidride carbonica che così si genera, nella combustione, è la stessa che i vegetali della “biomassa” hanno “portato via” dall’atmosfera durante la fotosintesi che li ha formati, poco prima che vengano bruciati. In questo modo non si avrebbe aumento della concentrazione dell’anidride carbonica atmosferica e quindi non si contribuirebbe ai mutamenti climatici; il ciclo sarebbe chiuso. Per evitare di essere inquinati o danneggiati dai mutamenti climatici può anche essere giusto che i consumatori di elettricità siano costretti a pagare di più l’elettricità. Su chi ricada poi maggiormente questa imposta e come, è un altro discorso.
Tutto è cominciato nell’aprile 1992 quando il Comitato Interministeriale Prezzi emanò la delibera numero 6, CIP 6, con cui, fra l’altro, veniva incentivata la produzione di elettricità da fonti rinnovabili (Sole, vento, idroelettrica, biomasse vegetali) con l’attribuzione di un contributo statale che doveva coprire la differenza fra il costo di produzione di questa elettricità e quello dell’elettricità prodotta da combustibili fossili tradizionali; qualcuno riuscì ad ottenere che lo stesso contributo venisse dato alle centrali che bruciavano dei residui industriali inquinanti che erano stati denominati “fonti energetiche assimilate a quelle rinnovabili”, pur non avendo niente a che fare con le fonti rinnovabili. Il maggiore costo era pagato dai cittadini con un sovrapprezzo nella bolletta elettrica, con la scusa che si evitavano gli inquinamenti dovuti allo smaltimento di scomodissimi rifiuti industriali. Però col passare degli anni ci si è accorti che, in realtà, la pratica degli incentivi alle fonti “assimilate” si era trasformata in una fonte di grandi profitti per alcuni produttori di elettricità a spese dei cittadini e anche dell’ambiente perché la combustione di fonti “assimilate” non era affatto priva di inquinamenti atmosferici.
Nel frattempo è cresciuta l’attenzione ambientale, la consapevolezza che il petrolio e il gas naturale sono scarsi, costosi e contribuiscono alle modificazioni climatiche sempre più evidenti, e ci si è resi conto che la soluzione, nell’interesse generale, andava cercata nelle vere fonti energetiche rinnovabili. Nel 1999 il “decreto Bersani” eliminò il privilegio dei contributi statali alle fonti “assimilate” e lo limitò a chi produce elettricità dal Sole o dal vento o dal moto delle acque o dal calore geotermico; l’obiettivo era di incoraggiare la produzione di elettricità non inquinante, come è appunto quella da fonti rinnovabili, e il perfezionamento di tecnologie che in futuro avrebbero dovuto offrire elettricità pulita a prezzi più bassi.
A chi produce elettricità da fonti rinnovabili vengono assegnati dei “certificati verdi” che danno diritto a rimborsi, pagati al solito dai cittadini attraverso un rincaro del prezzo dell’elettricità, una addizionale indicata nelle bollette come “componente A”. Il decreto stabiliva che sono rinnovabili l’energia del Sole, del vento, idrica, ma faceva rientrare fra le fonti rinnovabili anche ”la trasformazione in energia elettrica dei prodotti vegetali e dei rifiuti organici e inorganici”. Poiché, peraltro, tutti i rifiuti urbani contengono materiali “organici e inorganici” il contributo statale venne preteso da chi costruiva e gestiva inceneritori di rifiuti, ribattezzati come “termovalorizzatori”, che diventavano così dei profittevoli inceneritori di rifiuti solidi. Da qui la moltiplicazione dei termovalorizzatori che tengono in moto una catena di profitti privati perché le amministrazioni locali pagano per liberarsi dei rifiuti e i gestori degli inceneritori guadagnano perchè una parte dell’elettricità prodotta è pagata da chi l’acquista.
Sembrano tutti contenti: i comuni che si liberano degli ingombranti rifiuti dandoli agli inceneritori, i fabbricanti di inceneritori, i venditori di elettricità prodotta dai rifiuti che godono di un lauto contributo pubblico. Dal punto di vista ambientale l’incenerimento dei “rifiuti organici e inorganici”, promossi per legge fonti energetiche rinnovabili, comporta inquinamento dell’aria, anche con sostanze tossiche, e emissione di gas responsabili dell’effetto serra, cioè proprio quello che la legge e il contributo finanziario dei cittadini avrebbero dovuto evitare, nonché formazione di grandi quantità di ceneri. Nella frazione di “rifiuti organici e inorganici” ammessi al contributo pubblico sono compresi imballaggi, plastica, tessuti, stracci, gomme, eccetera, tutti materiali combustibili, non rinnovabili e tutti fonte, durante la combustione, di gas che alterano il clima.
Con queste leggi, insomma, i cittadini pagano per essere inquinati !
A questo punto qualcuno fa rilevare che i “rifiuti organici e inorganici” non sono affatto “fonti energetiche rinnovabili” termine che, secondo la legge europea, si applica soltanto alla “parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani”. Di tutti i molti materiali che finiscono nei rifiuti urbani si possono considerare rinnovabili, quindi, praticamente soltanto i residui di cibo e di verdura, che sono umidi e hanno un basso potere calorifico e bruciano male e producono poca elettricità; non sono biodegradabili la plastica, le fibre e altri materiali sintetici, che sono l’unica frazione con elevato potere calorifico. Finalmente i commi 1117 e 1120 dell’emendamento che costituisce la legge finanziaria 2007 hanno chiarito che gli inceneritori godranno degli incentivi statali soltanto per l’elettricità prodotta bruciando la frazione biodegradabile (circa il 25-30 % del totale) dei rifiuti e non per l’elettricità prodotta bruciando il resto dei rifiuti e neanche bruciando il CDR, il combustibile derivato dai rifiuti. In queste condizioni finisce la convenienza economica degli inceneritori.
Sembrerebbe finalmente la attesa rivoluzione fiscale e merceologica che toglierebbe ogni vantaggio agli inceneritori togliendo, almeno in parte, ai cittadini una ingiusta imposta indiretta che è costata agli italiani, negli anni passati, circa due miliardi di euro all’anno, pagati sotto forma di aumenti del prezzo dell’elettricità, finiti nelle tasche di chi gestisce gli inceneritori. Poiché, d’ora innanzi chi vorrà incenerire --- “termovalorizzare” --- i rifiuti prenderà (dovrebbe prendere) il sovrapprezzo soltanto per la frazione biodegradabile dei rifiuti urbani, dovranno essere sviluppati dei metodi di analisi chimica e merceologica dei rifiuti per stabilire quanta é la frazione “biodegradabile” su cui calcolare il contributo statale, per evitare furbizie e frodi.
Infine dalle nuove norme della legge finanziaria dovrebbe venire una decisa spinta alla raccolta differenziata e al riciclo dei molti materiali “non biodegradabili”, fra cui quelli, come la plastica, che negli inceneritori “bruciavano bene” ma la cui combustione non potrà più (non dovrebbe più potere) godere del contributo pubblico. Diminuirebbe così anche l’inquinamento atmosferico provocato dagli inceneritori e quello dovuto allo smaltimento delle ceneri (circa il 20-30 % della massa trattata) che restano alla fine della combustione.
Ho usato il condizionale perché i potenti interessi che ruotano intorno agli inceneritori hanno ottenuto che le nuove norme non valgano per gli inceneritori esistenti, per quelli già in costruzione o per quelli già autorizzati. I tentativi finora fatti in Parlamento (luglio 2007) per limitare l’ingiusto vantaggio agli inceneritori almeno soltanto agli inceneritori in funzione e in costruzione e non a quelli autorizzati, sono caduti nel vuoto per comune intervento di destra e sinistra. Ancora per un bel po’ di anni, quindi, dovremo continuare a pagare l’ingiusto sovrapprezzo sull’elettricità, per la maggior gloria dei profitti degli inceneritori. In Parlamento soltanto i nostri compagni di Rifondazione comunista hanno votato perché l’iniqua tassa a favore degli inceneritori non sia estesa agli inceneritori finora soltanto autorizzati. Ecco un motivo di lotta perché l’unico sistema per evitare futuri inceneritori è quella di impedirgli di godere di sovvenzioni pubbliche, senza le quali non avranno più convenienza a produrre elettricità bruciando i rifiuti e saranno costretti ad abbandonare l’impresa.
Gli inceneritori-"termovalorizzatori", oltre ad assicurare profitti ai loro proprietari, assicurano anche inquinamento all’atmosfera, al suolo, alle acque e danni alla salute dei cittadini e ai raccolti; l’entità di tale inquinamento dipende dalla qualità “merceologica” della frazione trattata o del “combustibile derivato dai rifiuti” che viene bruciato. La miscela di materie incenerite è imprevedibile e mutevole nel tempo, a seconda delle stagioni, varia da città a città, varia a seconda del processo di separazione, il che rende continuamente variabile e imprevedibile la composizione dei gas che escono dal camino e inefficace qualsiasi operazione di abbattimento dell’inquinamento atmosferico. Da questo punto di vista un "termovalorizzatore" è ben diverso da una centrale termoelettrica che invece è progettata per bruciare un combustibile di composizione relativamente costante e il cui inquinamento, se si vuole, può essere analizzato, tenuto sotto controllo e in parte ridotto.
Va ricordato, inoltre, che durante la combustione della miscela di rifiuti contenenti carta, materiali lignocellulosici, materie plastiche anche clorurate come il cloruro di polivinile, si liberano nell’atmosfera metalli tossici, si formano sostanze acide e anche diossine e dibenzofurani clorurati; queste ultime due classi di sostanze sono tossiche e cancerogene e non sono sufficientemente filtrate neanche dai più sofisticati mezzi di abbattimento.
Se si considera che un inceneritore-"termovalorizzatore" ha un costo di molte diecine di milioni di euro, si capisce facilmente come grandi imprese industriali che fabbricano e vendono inceneritori guardino all’Italia come a un potenziale mercato per diecine di impianti che vengono offerti, e talvolta entusiasticamente accettati, da numerose amministrazioni locali che traggono anche loro profitto dall’operazione complessiva. Un premio per chi si rende responsabile della perdita di salute dei cittadini ! Addirittura viene proposta di usare come inceneritori vecchie o nuove centrali termoelettriche o forni per il cemento.
Ma non basta: i contributi agli inceneritori previsti dalla legge attraggono parte dei materiali, quelli dotati di elevato potere calorifico carta e cartoni, materie plastiche, scarti di legna, residui di gomma, tessuti, eccetera, cioè proprio quelle che si presterebbero ad essere riciclate e riutilizzate come materiali. Insomma: "o si brucia o si ricicla"
Solo a titolo di esempio, degli oltre 12 milioni di tonnellate di carta e cartoni “consumati” ogni anno in Italia, soltanto circa 6 milioni di tonnellate sono riciclati e circa 6 milioni di tonnellate sfuggono a qualsiasi recupero e finiscono nelle discariche e negli inceneritori, compresi i “termovalorizzatori”.
Bruciare i materiali non biodegradabili, ma riciclabili, va contro lo spirito e la lettera della legge, contro le operazioni che potrebbero assicurare occupazione e innovazione tecnico-scientifica, anche esportabile in altri paesi, come tecniche di raccolta separata, frazionamento e arricchimento delle frazioni riciclabili dei rifiuti (soprattutto carta e plastica), tecniche di riciclo e di commercializzazione delle merci riciclate. Viene così anche vanificato il generoso impegno e sforzo di tante associazioni di volontariato e ambientaliste, di cooperative, di scuole e famiglie che si sono impegnate e si impegnano per la raccolta separata delle varie frazioni dei rifiuti.
Fortunatamente, rispetto alla fretta di tante amministrazioni locali ed enti in favore degli inceneritori, sta nascendo un vasto movimento di protesta popolare. Nascono comitati di base spontanei costituito da cittadini che vogliono sapere in che cosa consistono gli inceneritori che dovranno piovere sul loro territorio, che si interrogano sulla sicurezza ambientale di questa scelta: questi gruppi cercano informazioni, stanno imparando ad esaminare criticamente i documenti che molti loro amministratori approvano così in fretta.
Soprattutto questi gruppi di cittadini riconoscono la incompatibilità e intrinseca contrapposizione fra riciclo e “termovalorizzazione”. Anche oggi, come ai tempi della lotta popolare contro le centrali nucleari, migliaia di famiglie, di operai, di contadini, di impiegati, vogliono impedire che pubblico denaro venga dissipato per la costruzione di inceneritori che soffocano e vanificano delle reali prospettive di lavoro, quali le operazioni di riciclo e riutilizzo dei materiali usati.
Tanto più che le soluzioni tecnico-scientifiche per la rigorosa applicazione della lettera e dello spirito delle norme comunitarie sono disponibili nel mondo, dove migliaia di studiosi e tecnici e imprese lavorano nel campo della produzione di manufatti riciclabili e con minori rifiuti, della caratterizzazione dei rifiuti, della messa a punto di processi per il riutilizzo e riciclo dei rifiuti, per la vendita dei materiali riciclati o recuperati.
Invece di costruire "termovalorizzatori" occorre migliorare e perfezionare i sistemi di raccolta differenziata delle varie materie riciclabili, anche attraverso informazioni dei consumatori, propaganda nelle scuole, eccetera. Occorre perfezionare i processi di produzione di merci, macchinari, imballaggi, in modo che ne sia più facile il riciclo alla fine della loro vita utile; occorre potenziare i laboratori e i servizi di analisi dei rifiuti e di tutte le operazioni di trattamento e riciclo.
Occorre incoraggiare l’uso e l'acquisto, specialmente da parte della pubblica amministrazione, di materie ottenute dal riciclo dei rifiuti --- carta e plastica riciclata, copertoni rigenerati, pannelli di legno, tessuti rigenerati, eccetera --- provenienti dalla raccolta interna, operazione che negli Stati Uniti viene praticata, per legge, da ormai trent'anni, che sarà imposta sempre più anche in Europa.
Il "no" ai termovalorizzatori ha il fine di evitare alla popolazione ulteriori inquinamenti e danni alla salute, ma anche di assicurare innovazione e nuove occasioni di occupazione nel trattamento e riciclo dei rifiuti.
Per raggiungere questo obiettivo vorrei proporre una specie di “piano quinquennale” di lotta politica e civile che, partendo dal “no” agli inceneritori, si proponga di sostenere una vera politica per lo smaltimento dei rifiuti in Italia. L’esperienza mostra che le proposte di moltiplicare le discariche o di diffondere inceneritori, con qualunque nome contrabbandati, sono insostenibili. E’ sempre più difficile trovare spazio --- cave abbandonate, valli isolate --- in cui creare nuove discariche: è sempre più evidente che le discariche di rifiuti sono masse di materiale “vivente” in continua trasformazione per anni, che liberano, in tale trasformazione, gas, liquami, sostanze nocive, durature fonti di inquinamento. E’ sempre più difficile trovare consensi per la costruzione di nuovi inceneritori.
La salvezza può essere cercata soltanto nella separazione delle varie componenti dei rifiuti e nella loro ritrasformazione in cose utili. Gli ostacoli al riciclo si possono riconoscere nel carattere dei rifiuti. I rifiuti sono sostanzialmente merci usate: residui della vita domestica, macchinari usati, automobili e elettrodomestici abbandonati, residui di processi industriali, residui delle attività agricole e agro-industriali, materiali di risulta delle demolizioni degli edifici, eccetera. Ciascuna “merce” o “oggetto” contiene dei materiali --- carta, vetro, plastica, metalli, gomma, materie organiche, eccetera --- che, in via di principio, si dovrebbero poter recuperare. Purtroppo ciascun processo che trasforma una materia prima in una merce comporta una contaminazione del materiale originale, della materia prima.
Prendiamo il caso dei giornali, costituiti da carta addizionata (contaminata) con inchiostro: è del resto l’inchiostro che porta con se l’informazione, la notizia, il “servizio” che la merce-giornale rende all’acquirente. Se potessimo separare ogni particella di inchiostro da ogni fibra di carta, potremmo ricuperare (e riutilizzare) il 100 % delle fibre della carta e delle particelle di inchiostro. Non solo ciò è impossibile, ma i produttori di ogni merce si affannano a modificare, a fini commerciali, le materie prime originali quanto più possibile con sostanze contaminanti, il che rende ancora più difficile il loro riutilizzo. Per esempio la carta è addizionata con sostanze di carica, collanti, materie plastiche, coloranti, inchiostri vari, punti metallici, gomme, eccetera, tutti da eliminare per ottenere carta nuova, la cui massa è inevitabilmente inferiore a quella della carta usata immessa nel processo di recupero. La differenza è costituita da fanghi di cartiera, di composizione in genere sconosciuta, che vanno poi a finire in qualche inceneritore.
Lo stesso vale per il vetro: se si trattasse del materiale di cui parlano i libri di merceologia --- il prodotto di fusione di calcare, soda, sabbia, feldspato --- per rifusione non sarebbe difficile ottenere altro vetro. Ma il vetro, per soddisfare presunte domande dei consumatori, è addizionato con altri sali, con altri agenti, con coloranti, eccetera, variabili da fabbricante a fabbricante, il che rende sempre più difficile il riciclo: dal riciclo del vetro colorato si ottiene vetro colorato più scuro, di più scadente qualità e accettabilità merceologica. Il vetro dei tubi fluorescenti e dei video televisivi è contaminato da agenti tossici ed è difficilmente lavabile e recuperabile, eccetera.
Lo stesso vale per le materie plastiche: se i manufatti che arrivano al consumatore contenessero soltanto o polietilene o PET o perfino PVC, il loro riciclo, pur difficile, sarebbe possibile; ma negli oggetti commerciali di plastica i polimeri di base sono addizionati con plastificanti, coloranti, additivi, eccetera, che ne rendono difficile, talvolta praticamente impossibile, il recupero. Da qui il successo delle campagne di vendita degli inceneritori, presentati come “unica” soluzione alle difficoltà di riciclo.
Il primo punto della presente proposta di piano quinquennale per il riciclo presuppone una mobilitazione per conoscere i caratteri, i materiali e gli additivi presenti nei rifiuti delle attuali merci (carta, alimenti, tessuti, indumenti, imballaggi, vetro, materiali da costruzione, fili elettrici, eccetera), e degli attuali macchinari (frigoriferi, termosifoni, autoveicoli, televisori, computer, eccetera).
Si tratta di una impresa difficile perché bisognerebbe prima sapere come sono fatti e che cosa contengono le merci e i macchinari, e le imprese non solo non sono disposte, in via di principio, a “svelare” i loro “segreti” industriali --- e figuriamoci di quali “segreti” si tratta ! --- ma spesso i fabbricanti stessi non sanno quello che usano.
Una importante linea di lotta politica dovrebbe essere diretta a imporre ai governanti di raccogliere e rendere disponibili informazioni sulla composizione delle merci in circolazione. In assenza di un intervento pubblico il successo dell’impresa dipende dalla collaborazione di quella parte delle strutture di ricerca universitarie e pubbliche che è disposta a lavorare nell’interesse dei cittadini, dalla collaborazione delle organizzazioni dei lavoratori, dalla circolazione di conoscenze disponibili in altri paesi, dalla creazione, insomma, di un archivio sulla composizione delle merci e dei materiali in circolazione e dei relativi rifiuti, un “dizionario di merceologia dei rifiuti”, da predisporre anche con il contributo di laboratori pubblici in grado di analizzare le merci in circolazione, i “rifiuti” generati dai vari processi di produzione e di “consumo”, e di dare suggerimenti su come migliorare la raccolta separata.
Un sottoprodotto di questa parte del piano quinquennale sarebbe rappresentato dall’aumento delle informazioni utili per migliorare la sicurezza e le condizioni di lavoro dei lavoratori nell’ambito dei processi produttivi, la sicurezza dei consumatori nei confronti dei prodotti commerciali con cui vengono a contatto. L’indagine, infine offrirebbe elementi conoscitivi per un controllo sulle sempre più frequenti dichiarazioni di “virtù ecologica”, sulle “ecoetichette”, eccetera, basate su informazioni “riservate” fornite dai fabbricanti e della cui veridicità i consumatori non hanno alcuna possibilità di verifica.
Ai fini della produzione di nuove merci dalle merci usate, l’auspicata migliore conoscenza delle merci e dei rispettivi rifiuti è essenziale per migliorare la raccolta separata dei rifiuti da usare come materie “seconde” di nuovi processi produttivi. Si tratta del secondo punto del piano: l’elaborazione di una serie di indicazioni --- una specie di pedagogia popolare --- per spiegare che la raccolta separata dei rifiuti è opportuna, ecologicamente virtuosa, e utile all’economia e all’occupazione, ma che può essere efficace soltanto adottando varie precauzioni.
Bisogna, per esempio, spiegare come la raccolta separata va fatta, quali oggetti non devono essere messi nella campana del vetro o della carta o della plastica. Bisogna spiegare che i rifiuti raccolti separatamente sono destinati ad essere materie prime, o “seconde”, per altri cicli produttivi, i quali hanno le loro esigenze tecniche (e anche commerciali), che hanno bisogno di essere alimentati con materie omogenee: che basta una piccola quantità di sostanze estranee per rendere inutilizzabile una partita di carta o di vetro o di plastica. Per inciso questa pedagogia farebbe anche crescere una cultura industriale, così scarsa in questo paese. E’ per questa mancanza di cultura e di informazione industriale che molte pur generose iniziative e imprese di raccolta separata e offerta delle merci da riciclare vanno incontro all’insuccesso.
Molte fabbriche ormai operano producendo merci dai rottami e rifiuti (l’impiego di rottami di ferro è stata anzi la prima impresa di successo già nell’Ottocento e ha contribuito a fondamentali innovazioni nella tecnica siderurgica). L’insuccesso di molte iniziative di riciclo sta nel fatto che i materiali ricavati da una raccolta separata rudimentale e non informata e organizzata non vengono accettati dalle industrie del riciclo perché sono troppo contaminati o di qualità scadente o generano altre scorie e rifiuti inquinanti nel corso del riciclo stesso.
Il secondo punto del piano presuppone quindi un concreto aiuto, educativo e informativo, prima ancora che monetario, agli sforzi di raccolta separata in modo che il materiale raccolto sia corrispondente alle necessità di materie “seconde” richieste dalle industrie di riciclo. Per molte di tali materie “seconde” esistono ormai degli standards ben precisi, ma molte organizzazioni di raccolta separata non sono in grado di fare analisi o di controllare la composizione delle merci raccolte separatamente che offrono in vendita. Occorre pertanto migliorare i rapporti, anche culturali e di informazione, della catena consumatori---raccoglitori---riciclatori.
Il terzo punto del piano dovrebbe prevedere un aumento delle conoscenze delle tecniche di riciclo, cioè di produzione di nuove merci dalle materie “seconde”. Si tratta di una grande sfida di innovazione tecnico-scientifica e imprenditoriale, l’unica, allo stato attuale, in grado di imprimere una svolta alla produzione industriale e di contribuire all’aumento dell’occupazione, considerando che, come ho già ricordato prima, la massa dei rifiuti in Italia è uguale alla massa di petrolio greggio (cento milioni di tonnellate all’anno) che entra, che viene trasformato e distribuito nel sistema industriale.
Se può essere di qualche incoraggiamento, vale la pena di ricordare che molte delle tecniche attuali sono nate da una domanda di smaltimento dei rifiuti, una volta che si è visto che produrre acciaio nuovo dal rottame, o alluminio dal rottame, o vetro dal vetro usato, eccetera consente anche di risparmiare energia e di diminuire i costi aziendali.
Per realizzare questo terzo punto è necessario esplorare a fondo la tecnologia attuale ed eventualmente anche processi abbandonati e oggi applicabili a materie seconde: ancora una volta si tratta di diffondere, anche nelle scuole, anche nei partiti, una cultura industriale e merceologica, senza la quale la cosiddetta “educazione ecologica” o “ambientale”, finisce per essere costituita da un elenco di buone intenzioni.
Un quarto punto, infine, dovrebbe essere affrontato dalle autorità europee e nazionali e consiste nello stabilire degli standards di qualità delle merci riciclate. Proprio perché costituiti da materiali che sono già passati attraverso una o più operazioni di produzione, di trasformazione e di “consumo”, spesso i rifiuti destinati al riciclo si “portano dietro” contaminanti, anche in piccola quantità, che possono finire nelle merci riciclate e diventare fonti di nocività e di danno per la salute dei consumatori. L’introduzione di standards di qualità per le merci in vista del riciclo e per le merci riciclate rappresenta un salto, rispetto al concetto di qualità attualmente diffuso, in quanto considera anche gli effetti sociali e ambientali, oltre che quelli monetari, dei prodotti.
Gli standards di qualità per le merci e per i manufatti, necessari per una società se non sostenibile, almeno meno insostenibile, dovrebbero essere basati sui principi della maggiore durata, della più lunga vita utile, e della possibilità di riutilizzo e di riciclo. L’identificazione, la diffusione e l’accettazione di tali norme di qualità sono importanti e difficili: i fabbricanti --- cioè coloro che, almeno in parte, potrebbero suggerire come modificare i propri cicli produttivi --- sono i primi ad essere vincolati al “credo” della produzione di merci sempre meno durature, a vita breve, sono loro che alimentano mode effimere, oggetti usa-e-getta, che credono che il successo nel mercato stia nel continuo cambiamento dei prodotti, senza alcuna preoccupazione per quello che succederà alla fine della loro vita utile.
Addirittura coloro che già operano utilizzando merci usate, come gli imprenditori pratesi del cardato, il tessuto di lana fatto con lana usata, hanno un falso pudore di essere “quelli degli stracci”, invece di vantarsi di avere, magari inconsapevolmente, adottato e perfezionato una tecnica di riciclo in grado di dare prodotti di buona o ottima qualità. Eppure sia gli imprenditori, sia i lavoratori dovrebbero rendersi conto che siamo di fronte ad una terza rivoluzione industriale e che solo l’uso più razionale delle materie e dell’energia consentirà la sopravvivenza degli affari e del lavoro.
I governanti, che dovrebbero organizzare ricerche e programmi verso la tanto conclamata ”sostenibilità”, sono i primi ad accelerare la insostenibilità: un esempio brillante è offerto dal nostro governo che impiega pubblico denaro per incentivare la filosofia della “rottamazione”, cioè della distruzione e del ricambio di molti macchinari --- automobili, motociclette, televisori, telefoni cellulari, frigoriferi, eccetera --- nell’illusione che comprare oggetti nuovi fa aumentare l’occupazione e fa crescere l’economia, senza considerare che l’operazione fa, in realtà, crescere la massa di rottami e rifiuti che nessuno sa dove mettere e che contaminano l’ambiente e la salute.
Senza contare che le leggi italiane sui rifiuti, sopravvissute all’ondata liberista e consumistica, stabiliscono che almeno le pubbliche amministrazioni dovrebbero acquistare merci ottenute dal riciclo, con nuovi capitolati di acquisto, con adeguati controlli da fare per evitare frodi.
Non c’è tempo abbastanza: se fosse ragionevole l’orizzonte di cinque anni suggerito per il “piano” qui indicato, dovremmo fare i conti con una massa di rifiuti aumentata di un altro mezzo miliardo di tonnellate: cemento, ferro, plastica, imballaggi, carta, scarti alimentari, conciari, agricoli e industriali, eccetera. E se i governi, come sembra, non hanno nessuna voglia di attuare quel cambiamento pur richiesto dalla legge, occorre far crescere un “movimento di liberazione” dai rifiuti. Potrà questo partire da Montale e da Agliana e diventare un’onda di contestazione che si estende a tutta l’Italia ? compariranno nei marciapiedi piastrelle di plastica riciclata e le divise dei vigili urbani saranno un giorno di fibre riciclate ?
Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
21.7.2007
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA