A Parigi brucia il mito dell'integrazione

 

Da venti anni in Europa occidentale è in corso un processo immigratorio che non ha precedenti storici. Investe tutti i paesi, non solo quelli dell’Europa settentrionale. Attualmente gli immigrati sono dai 20 ai 30 milioni di persone. Il processo è destinato a continuare. Al ritmo, al momento, di un milione di nuovi arrivi all’anno.

Sta qui la radice di quello che è successo in Europa occidentale negli ultimi mesi, avvisaglia dell’apertura di una faglia di classe destinata a terremotare il quadro sociale e politico europeo.

Da un lato, c’è un’economia capitalistica affamata di manodopera ricattabile, iper-flessibile, un’economia che non può più consentire che il proletariato europeo mantenga i "diritti" conquistati nel corso del novecento e che però ancora non trova, nei governi e nel padronato, la determinazione a procedere ad una drastica ridefinizione dei rapporti di classe. Dall’altro lato, c’è un Sud del mondo (sempre più esteso verso Est) sospinto verso i gironi dell’inferno, dal quale milioni di proletari, contadini poveri e anche gente dei ceti medi sono costretti a partire alla ricerca di un lavoro, di un futuro. Per i capitalisti europei si tratta di una manna. Purché i lavoratori immigrati siano posti in una condizione di ricatto e di inferiorizzazione, e, grazie a ciò, diventino una riserva di manodopera coloniale all’interno dell’Europa, con la quale realizzare una delocalizzazione senza delocalizzazione e con la cui concorrenza al ribasso piegare anche gli stessi lavoratori autoctoni. La macchina di controllo repressiva e razzista che gli stati dell’Europa hanno messo a punto negli ultimi anni serve a garantire questa inferiorizzazione.

Tutto andrebbe avanti "tranquillamente" se i milioni di proletari giunti in Europa e quelli che inarrestabilmente li stanno seguendo fossero solo vittime o poveri disperati. Essi, però, hanno alle loro spalle un moto rivoluzionario gigantesco, la rivoluzione anti-coloniale, che ha sedimentato in loro un esplosivo carico di aspettative di liberazione sociale e nazionale. Un carico che, anziché essere stato azzerato dalla ri-colonizzazione portata avanti negli ultimi decenni dall’imperialismo (Usa ed europeo), ha trovato nel "ritorno" dei colonizzatori nuovo alimento. Che si esprime nelle mille forme di resistenza in corso nell’America Latina, in Africa e in Asia. Nella volontà della gioventù di questi continenti di cercare in Europa, nella terra dei colonizzatori, per sé e per i rispettivi popoli, quel riscatto sociale e nazionale che l’Europa e l’Occidente negano nei paesi d’origine. E che si esprime anche nei tentativi organizzati in Europa dalle popolazioni immigrate per difendersi dalla condizione di supersfruttamento e di discriminazione subìta nella fortezza-Europa e per denunciare il colonialismo di ritorno nei loro paesi: l’associazionismo, la rivolta delle periferie francesi, gli attentati di Londra, la crescita in Italia del numero di iscritti immigrati al sindacato (arrivati al 45% tra i lavoratori immigrati regolari e al 20% del totale degli iscritti in alcune organizzazioni dell’Italia settentrionale), le isolate ma tenaci iniziative di piccoli nuclei di immigrati a Parigi e a Roma contro la condizione di apartheid che subiscono e contro la politica dell’imperialismo in Asia, in Africa e in America Latina (diamo notizia di alcune di esse nelle pagine che seguono)...

Queste iniziative di auto-organizzazione degli immigrati in Europa sono ancora ad un stato primordiale. I governi europei, però, sono molto preoccupati per il contesto economico e sociale generale in cui esse stanno crescendo, per la possibilità che contagino la massa dei lavoratori immigrati e che un pericoloso abbraccio scocchi con il proletariato autoctono, anch’esso sempre meno integrato nelle "delizie" della società occidentale, anch’esso investito dagli effetti della mondializzazione del mercato del lavoro che spinge in Europa milioni di proletari e semi-proletari dal Sud e dall’Est del mondo. Non è un caso che i grandi organi di informazione, come al solito liberamente in sintonia con i grandi centri del potere capitalistico, abbiano fatto di tutto per presentare la rivolta proletaria delle periferie francesi come il gesto di giovani disperati, la cui vita di "sfaccendati" non avrebbe niente a che fare con la vita della massa degli immigrati e della massa dei giovani francesi.

È invece vero il contrario. Perché i giovanissimi incendiari di Francia, come risulta dalle storie di vita dei tremila arrestati, sono –nella loro gran parte- nient’altro che proletari precari, "i cui genitori quarantenni o poco più non hanno neanche essi mai lavorato oppure lo hanno fatto solo saltuariamente" e per i quali "per trovare un salario regolare in famiglia bisogna risalire al nonno maghrebino venuto qui negli anni ’60 e i primi anni ’70, quando De Gaulle e Pompidou chiedevano braccia per l’industrializzazione del paese" (l’Unità, 5 novembre). Perché non sono solo loro, i giovani immigrati o i figli di immigrati, a subire questo destino lavorativo nel cuore dell’Europa e a "percepire –come ha detto lo storico Max Gallo– un’assenza di futuro" (l’Unità, 8 novembre): accade anche a tanti giovani proletari francesi. Perché non sono solo loro, i figli degli immigrati di terza generazione, ad essere umiliati, insultati e cacciati da una scuola che, al di là delle intenzioni dei singoli insegnanti, punta solo all’addestramento di forza lavoro piegata alla disciplina comportamentale, all’esecuzione di operazioni manuali "a prova di stupido" e alla passività cerebrale richieste dalle imprese capitalistiche: accade anche a tanti giovani bianchi, francesi e tedeschi e italiani...

Alla luce di questo quadro diventa difficile sostenere la cecità degli incendi dei banlieusars. Certo, non si può e non si deve negare che siano state bruciate anche macchine di semplici lavoratori e che qualche volta si sia colpito a casaccio. Tuttavia un’attenta analisi dei bersagli incendiati dai giovani proletari di Francia li fa emergere molto meno ciechi di quanto abbia cercato di farli apparire la stampa, anche quella di sinistra: i commissariati di polizia, le scuole, i centri commerciali... Insomma, le terminazioni del sistema sociale che li usa, li getta e li riusa a seconda delle esigenze di valorizzazione capitalistica, un sistema che sa offrire solo l’"integrazione" che abbiamo sotto gli occhi, quella che vuole l’immigrato bestia da soma da sfruttare fino all’osso e poi relegare nelle squallide e degradate periferie urbane, quella che con le leggi e misure razziste mira a tenerlo sotto costante ricatto e a rendere permanentemente precaria la sua condizione facendone un individuo di serie "C" quand’anche munito di documenti o addirittura di cittadinanza. Lo storico Le Goff (La Repubblica, 7 novembre) lo ha ammesso onestamente: "L’ostilità dei giovani è rivolta anzitutto contro la polizia, poi contro il governo, infine contro l’insieme della società".

Vuol dire questo che i giovani di Francia hanno espresso un progetto politico organizzato?

Hanno intanto espresso il loro odio, indicato il loro "nemico", ed è un primo passo. Hanno espresso in modo istintivo che con questo "nemico" non ci può essere dialogo ma solo scontro. Nello stesso tempo, altro elemento fondamentale, hanno espresso "solidarietà attiva ai fratelli che si oppongono in Oriente al neocolonialismo occidentale" (ancora dall’intervista citata di M. Gallo). Considerato l’azzeramento o quasi del movimento operaio ufficiale, è anche attraverso questi scoppi di violenza proletaria che la giovane generazione sfruttata comincia il percorso per il suo riconoscimento come classe sfruttata internazionale. "Prima viene l’azione", dice un vecchio proverbio. Anche "cieca". Ma, è chiaro come il sole, questa azione richiama la necessità di un’organizzazione e un programma adeguati, che dovranno venire "di seguito". E verranno se i lavoratori francesi, italiani sapranno ascoltare il messaggio che i giovani immigrati o i figli degli immigrati hanno rivolto anche a loro. Se sapranno unire in un’organizzazione comune le lotte di difesa immediata che i lavoratori occupati stanno portando avanti (in Francia ad esempio contro le privatizzazioni e i licenziamenti) con la rabbia dei giovani precari, francesi o immigrati e figli di immigrati.

E i lavoratori autoctoni, in Francia e nel resto d’Europa, come stanno reagendo davanti a questa rivolta? Dai dati di un sondaggio ufficiale risulta che il 40% dei francesi non è d’accordo con il governo di Parigi. Non è una piccola percentuale, considerando la situazione attuale dello scontro di classe in Occidente e la risposta che ha dato il governo francese. Evidentemente c’è una parte della nostra gente, non solo di colore, che comprende le ragioni dell’odio dei banlieusars, e se le comprende, è perché almeno in parte le condivide. È vero che, per ora, il coprifuoco riguarda solo gli immigrati, così come è solo su di loro che si appunta il controllo capillare delle forze dell’ordine nelle grandi città italiane. Ma "la percezione di un’assenza di futuro" sta insinuandosi nella massa di tutti gli sfruttati. Anche i giovani proletari francesi o italiani o tedeschi possono dire, guardando indietro, che i loro padri stavano meglio e che i loro nonni avevano una condizione e soprattutto un futuro più promettenti...

Sappiamo bene che una parte, per ora maggioritaria, del proletariato autoctono europeo crede di potersi difendere da questo progressivo ottundimento delle aspettative e dallo sgretolamento delle passate garanzie "impedendo agli immigrati di invaderci". Che le posizioni di Le Pen sono ben radicate tra di essa. Ma questa soluzione non è una soluzione. Perché il capitale europeo, i proletari immigrati li vuole. Perché questi ultimi non possono né vogliono non venire, non possono e non vogliono evitare di portare qui in Europa il virus del loro odio (anche "cieco") contro l’imperialismo. In conseguenza di ciò, l’intreccio creato dal capitale mondializzato tra i destini dei proletari immigrati e di quelli autoctoni è tale che, questi ultimi, per difendere se stessi, non potranno evitare di occuparsi della difesa dei loro fratelli di classe immigrati. Non potranno evitare di sentire le lotte e gli sforzi organizzativi di questi ultimi come le proprie lotte e i propri sforzi organizzativi, con cui stabilire un ponte in grado di superare gli steccati che il mercato capitalistico ha eretto tra loro e ribaltare la concorrenza tra lavoratori autoctoni e immigrati impulsata dal capitale mondializzato in lotta congiunta contro di esso. È questa la prospettiva a cui lavoriamo, senza alcuna fregola attivistica, sicuri che riemergerà con grande forza.

25 novembre 2005
 

 


Organizzazione Comunista Internazionalista