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1 febbraio 2017 

Almaviva: una vicenda che parla a tutti i lavoratori

 La vertenza Almaviva, culminata con la chiusura del sito di Roma e il conseguente licenziamento di 1.666 lavoratori, è un attacco che non riguarda solo il mondo dei “call center”, ma è parte integrante del più generale affondo che governo e padroni stanno portando avanti contro tutti i lavoratori. A dimostrarlo vi è anche l’arroganza con cui le aziende di telecomunicazioni, rafforzate da quanto accaduto nel grande “call center”, stanno affrontando il rinnovo del contratto nazionale di categoria. 

La vicenda Almaviva è infatti emblematica di come si sta muovendo e di come ancor più si muoverà l’intero padronato. Il comportamento di Tripi (il proprietario di Almaviva) è stato “semplice”: ha sostituito lavoratori relativamente più “costosi”, perché con più anzianità, con più diritti e più sindacalizzati, con lavoratori che costano di meno, con meno diritti e, quindi, più ricattabili.

Lo aveva iniziato a fare nel 2012, quando aveva chiuso uno dei siti romani (quello di via Lamaro) per trasferire le lavorazioni a Rende, vicino Cosenza, dove salari e diritti erano più bassi. Oggi lo ha fatto aprendo una filiale in Romania e trasferendo là altre attività. Roma ha chiuso e a Napoli i lavoratori, pur di non “perdere tutto e subito”, sono stati costretti a cedere al ricatto aziendale e ad accettare che i già bassi salari vengano tagliati di un altro 17% andando in deroga al contratto nazionale.

 Almaviva di fatto ha parlato e agito a nome e per conto di tutto il padronato: o i lavoratori chinano la testa e accettano crescenti livelli di sfruttamento,  oppure il lavoro viene spostato là dove, di volta in volta, vi sono le condizioni più vantaggiose per l’azienda. Nulla di diverso da quello che Marchionne ha già fatto con gli operai Fiat di Mirafiori, Pomigliano, Termini Imerese, Cassino e Melfi.

Per difendere e accrescere i loro profitti i capitalisti puntano continuamente a dividere e mettere in reciproca concorrenza i lavoratori dei diversi stabilimenti, delle diverse aziende e delle diverse nazioni e a distruggere per tal via ogni loro capacità di resistenza e di lotta collettiva. Tutti contro tutti e ognuno sempre più schiacciato dall’azienda.

 In questa azione il padronato è stato ed è pienamente spalleggiato dalle istituzioni, dall’azione dell’attuale governo e di quelli che lo hanno preceduto. Tre esempi dicono molto:

1)      la corte di cassazione il 7 dicembre 2016 ha emesso una sentenza per cui la ricerca dell’aumento dei profitti aziendali è considerata “giusta causa” per il licenziamento  di un dipendente;

2)      con il “jobs act” è stato reso ancora più precario l’intero mercato del lavoro;

3)      nelle ultime leggi “finanziarie” (inclusa la più recente) sono state varate norme che, detassando “ad arte” gli aumenti salariali legati all’incremento della produttività della singola impresa, mirano a depotenziare la contrattazione nazionale a vantaggio di quella aziendale. Mirano insomma a indebolire la forza dei lavoratori fovorendone la divisione per vie aziendali e territoriali (la stessa chiusura della vertenza dei metalmeccanici è un chiaro e per nulla positivo segnale di tutto ciò).

 Ma il governo e le istituzioni statali non spingono alla divisione dei lavoratori “solo” con i provvedimenti di carattere “economico”. Lo fanno anche con le loro politiche razziste contro i proletari immigrati e con la loro azione (di guerra e di “pace”) neo-coloniale verso i paesi del Sud del mondo che ha tra i suoi principali obiettivi quello di schiavizzare  masse di sfruttati al fine di poterli anche utilizzare come (incolpevole) arma di ricatto contro i lavoratori d’Italia e d’Europa.

 Pensare che la situazione possa essere risolta da qualche intervento legislativo e governativo che imponga di “mantenere il lavoro in Italia” non solo è una pia illusione (salvo che in qualche transitorio caso i capitalisti investono comunque solo dove più conviene loro), ma, al di là di ogni possibile apparenza, ogni simile ipotesi contribuisce di fatto ad indebolire i lavoratori perché li lega al carro della propria nazione e del proprio governo approfondendo le divisioni con gli “altri” proletari.  

Un concreto argine a questa deriva lo si potrà mettere solo con la lotta, l’unità e l’organizzazione dei lavoratori. Per questo è necessario battersi per la difesa intransigente di ogni posto di lavoro, ma, allo stesso tempo, bisogna iniziare a mettere in campo iniziative che vadano oltre il ridotto orizzonte aziendale al fine di tessere legami di discussione, lotta e organizzazione con i lavoratori degli “altri” stabilimenti e delle “altre” imprese, siano essi italiani, rumeni, albanesi o di qualsiasi altra nazionalità. Solo battendosi comunemente per il miglioramento salariale e normativo di chi oggi “ha meno diritti di noi” (e quindi è suo malgrado usato come arma contro di noi) sarà possibile contrastare la leva  del ricatto padronale e fermare la spirale della concorrenza al ribasso tra proletari.

1 febbraio 2017 

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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