20 giugno 2012
Il nostro volantino alle fabbriche sul terremoto in Emilia
Le scosse di terremoto del 20 e 29 maggio in Emilia hanno causato 27 morti. Di essi, 13 erano operai (9 italiani e 4 immigrati) tutti con contratti precari, tutti schiacciati sotto le macerie delle fabbriche in cui lavoravano. Come quella dell’Aquila del 2009, anche questa tragedia non può e non deve essere attribuita unicamente e principalmente a una terribile fatalità “naturale”.
Va anzitutto denunciato il fatto che in molti casi i capannoni crollati erano stati costruiti senza tener conto dei criteri antisismici o con calcestruzzo di cattiva qualità.
Inoltre, dopo le prime scosse, le istituzioni pubbliche incaricate dei controlli di sicurezza, invece di fare ispezioni accurate e di ordinare le adeguate riparazioni, hanno immediatamente giudicato agibili le strutture industriali, per permettere agli imprenditori di riaprire senza perdere un attimo: il “vulcano” della produzione non poteva certo aspettare!
Infine, da parte delle direzioni aziendali sono state esercitate pressioni più o meno esplicite sui lavoratori per “convincerli” a rientrare al lavoro, pena il licenziamento: “C’è stato il terremoto, ma la vita continua. Chi vuole lavora, gli altri possono prendersi le ferie. Liberissimi di farlo”, si leggeva su un cartello apposto sul cancello di un’azienda del modenese. Come denunciato dalla Cgil regionale emiliana, in alcuni casi i lavoratori sono stati costretti a firmare una liberatoria per sollevare il padrone da ogni responsabilità nel caso di crollo della fabbrica: “Ciascun dipendente che ritiene opportuno continuare a svolgere la propria attività, libera la proprietà da qualsiasi responsabilità penale e civile”.
Insomma, liberissimi di “scegliere” fra rischiare la vita oppure perdere il posto di lavoro.
Nell’attuale sistema economico, il capitalismo, la produzione è finalizzata solo ed esclusivamente a fare profitti: la prevenzione e la manutenzione quasi sempre non sono attività sufficientemente remunerative. Le strutture vengono quindi costruite di norma risparmiando sistematicamente sui costi per la sicurezza. Così come, pur di economizzare e guadagnare, si violenta regolarmente il territorio e il sottosuolo (cosa che, tra l’altro, stava avvenendo da anni anche in Emilia) rendendo l’ambiente più vulnerabile ai cosiddetti “capricci” della natura.
E poi, in nome della competitività delle aziende e delle leggi del mercato, bisogna produrre in ogni condizione e sempre più in fretta. Costi quel che costi. E il governo Monti, la cui azione politica è tutta finalizzata al rilancio competitivo del capitalismo italiano ed europeo, è a pieno titolo il primo responsabile della tragedia emiliana.
Di fronte a tutto ciò, i lavoratori non hanno alcuna possibilità di difendersi individualmente. Come individui singoli, soli di fronte alle imposizioni delle aziende e del mercato, si è prima o poi inevitabilmente schiacciati.
La sicurezza sul posto di lavoro i proletari possono imporla unicamente con la lotta collettiva e organizzata contro padroni e governo. Per opporsi ai ricatti padronali e contrastare le spietate leggi del profitto capitalistico è necessario battersi per conquistare un’organizzazione comune, che vada al di là degli steccati aziendali, della nazionalità (italiani o immigrati) e del tipo di contratto (stabile o precario) e che rivendichi contro le necessità del mercato e della competitività il diritto alla sicurezza, alla salute e a non morire sul posto di lavoro.
20 giugno 2012
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA