16 ottobre 2010
Il nostro volantino alla manifestazione del 16 ottobre a Roma
Ma una via d’uscita c’è!
Lavoratori,
non c’è bisogno, in questa piazza, di dilungarsi su quanto stia diventando pesante la situazione per i lavoratori. Non ci sono solo le pietre della cassintegrazione, dei licenziamenti, delle contro-riforme del sistema dell’istruzione, ecc. C’è il tentativo della Confindustria e del governo Berlusconi di realizzare l’obiettivo che (pur in contrasto tra loro) rincorrono insieme da anni: far fuori ciò che resta dell’organizzazione di difesa collettiva dei lavoratori nelle fabbriche e negli uffici, disporre sul mercato del lavoro di individui divisi l’uno dall’altro e impotenti di fronte allo strapotere delle direzioni aziendali. Dietro e attraverso l’attacco alla Fiom c’è questo obiettivo.
Siamo in piazza, oggi, per discutere e confrontarci su come organizzare la risposta a questa concentrica offensiva. A tal fine, è inutile girarci attorno: nella situazione attuale di cassintegrazione, di precarietà di massa e di spietata concorrenza sul mercato del lavoro mondializzato, il governo e i padroni stanno facendo leva su un ricatto che ha un’enorme forza di “convincimento” dei lavoratori. Lo ha spiattellato il boss della Fiat, Marchionne.
“C’è stata un’epoca -sostiene Marchionne-, in cui i profitti delle aziende italiane ed europee andavano a gonfie vele; in quell’epoca, le imprese europee, insieme a quelle statunitensi, spopolavano sul mercato mondiale, avevano in pugno le materie prime dislocate in America Latina, in Africa e in Asia; in quella situazione poteva aver un senso l’organizzazione separata dei lavoratori di fronte alle direzioni aziendali per cercare di incamerare la fetta più ampia possibile dei giganteschi incassi; quell’epoca è finita; il mercato capitalistico mondiale è cambiato, e, se i lavoratori in Italia e in Europa vogliono mantenere il posto di lavoro, devono: 1) accettare una torchiatura brutale nei luoghi di lavoro, 2) mettere da parte la loro separata organizzazione sindacale e far fronte comune con le direzioni aziendali per spaccare le ossa alle imprese dei giganti capitalistici degli Usa e della Germania e alle imprese delle potenze emergenti, prima di tutto della Cina.”
Ora, che nel mercato capitalistico mondiale, negli ultimi venticinque anni, sia avvenuto un cambiamento epocale, è perfettamente vero. Che sia finita l’epoca in cui in Europa potevano marciare insieme profitti pimpanti e miglioramento delle condizioni e dei diritti proletari, è altrettanto vero. Quello che è completamente falso nel ragionamento di Marchionne è che il “modello” che egli vuole imporre possa garantire ai proletari almeno il posto di lavoro, almeno un futuro dignitoso.
Ogni azienda, in ogni continente, ha il suo “marchionne” e tutti indicano la stessa prospettiva. Accettarla significa per i lavoratori accettare di lanciarsi (ancor più di quanto già oggi non avvenga) in una concorrenza al ribasso senza fine tra operai di diversi paesi, di diverse aziende e di diversi stabilimenti. Dovrebbe far riflettere la ricompensa di Marchionne ai lavoratori di Tichy, minacciati essi stessi di perdere il posto di lavoro trasferendo le produzioni in Italia, essi che, per anni, hanno accettato di farsi spremere fino a diventare una delle fabbriche più competitive del mondo intero. La ricetta Marchionne, già applicata alla Chrysler, dove i nuovi assunti prendono il 50% del salario dei “vecchi” assunti e dove si è obbligati a non scioperare fino al 2015, è una pietra al collo e non un salvagente dei lavoratori.
Lo sarebbe anche se a manovrare le leve del governo non fosse più, in Italia, il governo Berlusconi, ma un governo di salvezza nazionale composto da Fini-Casini-Montezemolo con l’appoggio, più o meno esplicito, del partito democratico e della “sinistra radicale”.
Cosa significa questo? Che non c’è via d’uscita dalla situazione critica in cui si trova il mondo del lavoro salariato? No, significa che nessuna soluzione può arrivare dalle direzioni aziendali o dal governo o dai partiti istituzionali. Significa che la soluzione è solo nelle mani dei lavoratori, dipende dall’uso dell’unica arma che i lavoratori hanno in mano: la loro lotta, la loro organizzazione militante per la lotta.
È vero che quest’arma oggi sembra spuntata per la concorrenza a coltello esistente sul mercato del lavoro mondializzato da parte dei lavoratori dell’Europa dell’Est, dell’Estremo Oriente e degli altri paesi del Sud del mondo. Ma se guardiamo oltre i confini italiani, vediamo che dai lavoratori degli altri paesi non arriva solo concorrenza al ribasso, come è accaduto nei vent’anni che ci stanno alle spalle. Negli ultimi anni, i lavoratori della Cina sono stati protagonisti di scioperi e manifestazioni robusti che hanno costretto le multinazionali occidentali, le imprese cinesi e il governo di Pechino ad accettare consistenti aumenti salariali e il riconoscimento del diritto di organizzare comitati sindacali nelle imprese. La Wal Mart, tanto per dire, è stata costretta ad accettare nelle sue aziende in Cina quello che continua a negare negli Stati Uniti. Meno ampi ma nello stesso senso vanno i progressi compiuti dai lavoratori di molti paesi dell’America Latina, dell’Africa Australe e dell’Estremo Oriente. E anche in Italia, più volte, abbiamo visto che dagli immigrati, da ultimo con la rivolta di Rosarno, è venuta la forza di reagire a soprusi capitalistici che i lavoratori italiani si sono come assuefatti a sopportare.
Dai lavoratori degli altri paesi, quindi, sta arrivando anche l’opposizione alla spirale al ribasso che è richiesta dall’efficienza capitalistica. Anche in Europa c’è un tentativo in questo senso, con gli scioperi in Francia, in Spagna, in Grecia, in Romania contro le misure di austerità e l’allungamento della vita lavorativa varati dai rispettivi governi all’interno del piano per rendere il “Vecchio Continente” più efficiente nella competizione con gli Usa e la Cina.
La strada indicata da queste mobilitazioni è l’unica in grado di creare le condizioni per difendere gli interessi dei lavoratori in Italia. Se essa si consoliderà o meno dipende anche da quello che accadrà in Italia, da quello che faranno i lavoratori in Italia, se i lavoratori in Italia sapranno o meno prendere in mano la situazione, sapranno o meno dar vita alla loro lotta dispiegata, radicale, fondata sull’organizzazione autonoma delle proprie fila, separata e contrapposta a quelle della classe degli sfruttatori e degli strati parassiti che campano sul lavoro altrui. Al padrone Marchionne va risposto che quello che ha fatto il suo tempo non è l’organizzazione, sindacale e politica, dei lavoratori, ma un’organizzazione dei lavoratori che condiziona e inquadra la difesa degli interessi proletari all’interno della difesa e del rafforzamento dell’efficienza del sistema di sfruttamento capitalistico.
È la situazione stessa in cui ci troviamo a suggerire i passi che possono favorire lo sviluppo della lotta proletaria anche in Italia. Organizzare una campagna a vasto raggio contro la politica del governo Berlusconi. Denunciare quanto la politica del centro-sinistra, al di là delle declamazioni, sia convergente con quella di Berlusconi. Denunciare e contrastare tutto ciò che accentua le divisioni e le contrapposizioni fra i lavoratori, a partire dalle esche avvelenate dell’aziendalismo, del federalismo (leghista o solidale che sia) e del razzismo. Avviare una riflessione comune, tra lavoratori, sulle cause effettive e sulle reali conseguenze di quello che sta accadendo in Europa, sulla portata storica delle turbolenze economiche di queste ultimi anni, sul filo comune che lega il destino dei lavoratori dei cinque continenti, sul fatto che o ci si difende tutti insieme contro la “mano invisibile” del mercato e quella degli stati capitalistici che la organizzano o si precipita gli uni e gli altri in un baratro senza fondo. Organizzare, all’inizio inevitabilmente in quattro gatti, una sistematica battaglia politica tesa a favorire la mobilitazione contro il governo Berlusconi, per buttarlo giù dalla piazza e in piazza, nella prospettiva di una lotta e di un’organizzazione dei lavoratori internazionale e internazionalista.
Che questa sia l’unica via, lo mostrerà ancor più nettamente, nei mesi e negli anni prossimi, lo stesso mercato capitalistico di cui si fa portavoce Marchionne. Anche per il fatto che la concorrenza tra le imprese e gli stati e i continenti non sta rimanendo confinata al livello economico, ma sta trasbordando verso il piano diplomatico-monetario internazionale. E la storia insegna quali tragedie il sistema capitalistico si prepari a riservare all’umanità quando si mette su questa china.
16 ottobre 2010
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA