5 dicembre 2010
LA RIFORMA DELLE PENSIONI WOERTH-SARKOZY
La situazione oggi
La Francia è l'ultimo paese europeo ad aver mantenuto l'età pensionabile a 60 anni sia per gli uomini che per le donne. In questo paese, fino alla riforma Woerth-Sarkozy, è stato in vigore un complesso sistema pensionistico basato su 38 regimi pensionistici differenti: ad un sistema generale di base erano infatti affiancate pensioni complementari per il settore privato (68% della forza lavoro attiva), regimi speciali per i dipendenti del pubblico impiego e dei trasporti pubblici (21% della forza lavoro attiva) e centinaia di casse di categoria per il lavoro non dipendente (artigiani, agricoltori, commercianti, liberi professionisti..., che costituiscono l'11% della forza lavoro attiva). A questi regimi contributivi si è poi affiancato in questi ultimi anni un terzo livello facoltativo, basato sulla capitalizzazione (fondi pensionistici di imprese, “préfon” per il pubblico impiego...), che per ora non è particolarmente diffuso, ma che è fortemente appoggiato dall'UMP (il partito di Sarkozy) e dalla MEDEF (l'organizzazione degli imprenditori in Francia).
Il funzionamento del sistema pensionistico è basato su un principio di solidarietà che assicura una compensazione tra le categorie eccedentarie nei versamenti contributivi e quelle deficitarie, che accedono alla pensione senza avere sufficienti trimestri (minimum vieillesse, convalida dei trimestri non coperti da contribuzione a causa di malattia, maternità, disoccupazione, ecc.).
Secondo gli ultimi dati disponibili[1], nel 2008 l'erogazione annuale delle pensioni è stata di 251 miliardi di euro, pari al 12,9% del Pil francese, e ha interessato circa 15,6 milioni di pensionati, di cui circa 15 milioni titolari di pensione acquisita direttamente tramite il versamento di contribuzioni nel corso della propria carriera lavorativa (“pension de droit direct”) e 575.000 di pensione minima di vecchiaia (“minimum vieillesse”). La pension de droit direct è in media di 1.122 euro mensili, ma si scende in media a 708,95 per la minimum vieillesse, riscossa soprattutto da donne[2]. Insomma delle pensioni da nababbi, che il governo Sarkozy è stato “costretto” a tagliare per porre un limite agli “sprechi”!
La quarta contro-riforma
Questa è la quarta riforma delle pensioni che la Francia conosce in meno di 20 anni. Se le precedenti hanno colpito di volta in volta singoli settori del proletariato[3], portando di volta in volta alla mobilitazione esclusivamente delle categorie direttamente interessate, questa riforma ha invece colpito tutte le componenti della classe lavoratrice, portando a una mobilitazione trasversale.
Più in specifico questa riforma ha comportato:
- l'allungamento della contribuzione da 40,5 a 41,5 anni per avere diritto alla pensione a tasso pieno[4];
- a partire dal 2018 l'innalzamento da 60 a 62 anni dell'età minima pensionabile e da 65 a 67 anni per l'ottenimento della pensione a tasso pieno, senza alcuna riduzione;
- l'allungamento della contribuzione da 42 a 43,5 anni per chi, avendo iniziato a lavorare prima dei 18 anni, ha diritto ad usufruire del “Dispositif pour carrière longue”, che permette il pensionamento prima del raggiungimento dell'età minima a patto di aver versato due annualità in più rispetto alle annualità necessarie alla pensione a tasso pieno;
- per i lavori usuranti il mantenimento dell'età minima pensionabile a 60 anni, corredato però dal passaggio da criteri di valutazione di categoria a criteri di valutazione individuali mediante l'introduzione di un “carnet de santé individuel” e la costituzione di un apposito corpo medico per valutare i singoli casi[5];
- aumento del tasso di contribuzione dal 7,85% al 10,55% nel corso di dieci anni per il pubblico impiego, che va così ad allinearsi ai livelli di contribuzione del settore privato: questo significa un aumento delle trattenute del più del 30% e una perdita di salario di circa il 3%);
- a partire dal 2012 termine del dispositivo che permette per il pubblico impiego il pensionamento anticipato per chi abbia almeno tre figli e almeno 15 anni di servizio: si tratta di una misura che colpisce in modo particolare le donne che all'oggi costituiscono la maggior parte di quel 10% che ogni anno, tra i pensionati del pubblico impiego, usufruisce di questo dispositivo;
- la pensione minima garantita nella funzione pubblica sarà percepita da chi abbia versato interamente i propri trimestri di contribuzione o abbia raggiunto i 67 anni di età: in questo modo il settore pubblico andrà ad allinearsi a quanto è già in vigore per il settore privato.
I colpiti? Pressoché tutti!
Per fare approvare la legge Woerth[6] il governo ha puntato molto sulla divisione e la contrapposizione tra le varie componenti della classe lavoratrice e perciò l'ha presentata come una riforma necessaria a limitare i privilegi delle generazioni uscenti dal mercato del lavoro rispetto alle generazioni più giovani; come una riforma che “rinforza l'equità del sistema attraverso misure che portano a una maggiore convergenza tra il pubblico impiego e il settore privato”; come una riforma che non chiede il medesimo sforzo a tutto il mondo del lavoro, ma ha un occhio di riguardo per i lavoratori con impieghi usuranti; come una riforma che allungando l'età pensionabile favorisce il contatto tra le generazioni uscenti ed entranti nel mercato del lavoro “facilitando così la trasmissione del sapere prima del raggiungimento del pensionamento” (sic!); come una riforma che migliorerà i meccanismi di solidarietà che coprono le categorie più deboli come i disoccupati e le madri di famiglia, aumentando i prelievi sulle categorie a più alto reddito[7].
La realtà è invece ben diversa! Nonostante questa propaganda, questa riforma:
- penalizzerà innanzitutto i lavoratori salariati in genere, che vedranno allontanarsi l'età del pensionamento sulla base di un calcolo basato sull'allungamento delle aspettative di vita che non tiene conto della differenza tra allungamento delle aspettative di vita tout court e allungamento delle aspettative di vita in buona salute, condizione che riguarda sempre meno i lavoratori salariati e che cala drasticamente dopo i 63 anni[8];
- porterà ad un abbassamento del livello medio delle pensioni e ad un allungamento della vita lavorativa che riguarderà in maniera particolare le generazioni più giovani che si trovano oggi a dover fare i conti con una crescente precarietà e che domani si troveranno ad affrontare la mancanza di sicurezza economica dovuta all'abbassamento delle loro pensioni;
- colpirà le donne, che già oggi vanno in pensione in media a 61,5 anni anziché ai 60,1 anni degli uomini, percependo in media una pension de droit direct di 825 euro, pari al 58% della corrispondente maschile (1.426 euro)[9]. Questo perché “solo il 44% delle donne, contro l'86% degli uomini, va in pensione a conclusione di una carriera completa (cioè con una pensione a tasso pieno)” a causa delle interruzioni dovute alla gravidanza e alla maternità[10], della maggiore incidenza di orari part time, delle discriminazioni salariali[11]. La nuova riforma comporterà appunto un allontanamento dell'età pensionabile tout court e ridurrà ulteriormente le possibilità di ottenere una pensione a tasso pieno;
- colpirà i lavoratori con impieghi usuranti, a cui verrà riconosciuto l'accesso a 60 anni alle pensioni sulla base del “carnet de santé individuel”, ossia procedendo a valutazioni dello stato di salute del singolo e non più su base collettiva, prendendo in considerazione la categoria di appartenenza come finora è avvenuto;
- colpirà i lavoratori che hanno iniziato a lavorare molto giovani, concentrati in pratica solo nel settore privato, attraverso il posticipo del pensionamento al raggiungimento di una contribuzione di 43,5 anni;
- colpirà le fasce di popolazione prossime alla pensione che si trovano in una condizione di disoccupazione e che dovranno attendere un periodo più lungo per accedervi: non a caso questa riforma è anche stata definita “una macchina per fabbricare disoccupate e disoccupati”[12] tra la popolazione ultracinquantenne. Occorre, infatti, tener conto del fatto che la Francia presenta tra i più bassi tassi di attività in Occidente nelle fasce di età comprese tra i 55 e i 59 anni e tra i 60 e 65 anni[13]. Già oggi i lavoratori, soprattutto del settore privato, nel periodo compreso tra la perdita dell'ultimo impiego e il versamento della prima mensilità della pensione -che dura in media due anni e mezzo[14]- si trovano costretti a dipendere da una serie di dispositivi che funzionano come una sorta di “ammortizzatore sociale”, come gli assegni di disoccupazione, la copertura per malattie di lunga durata, i prepensionamenti[15]... La riforma farà aumentare enormemente il numero di coloro che si troveranno a dipendere da queste forme di ammortizzatori sociali, allungando il periodo di questa dipendenza economica e colpendo in maniera particolare le donne, che presentano una maggiore discontinuità nella contribuzione a causa della frammentarietà delle loro esperienze di lavoro. Questo significherà anche la produzione di nuove povertà, poiché i “Revenu de Solidarité Active” (RSA), uno dei dispositivi maggiormente diffusi per il sostentamento dei lavoratori disoccupati che attendono di raggiungere l'età pensionabile, sono pari a 460 euro, sono cioè di importo molto più basso della pensione minima di vecchiaia (708,95 euro);
- colpirà i lavoratori immigrati e le seconde e terze generazioni: pur non esistendo studi su come influirà questa riforma sulle modalità di accesso e sull'entità delle pensioni per i lavoratori immigrati in questi ultimi anni, così come non esistono studi relativi all'impatto sulle pensioni delle seconde e terze generazioni, si può comunque ipotizzare che la precarietà lavorativa, la discontinuità dei rapporti di lavoro, la concentrazione soprattutto in impieghi poco remunerati che caratterizza l'inserimento lavorativo della maggior parte dei nuovi immigrati e delle seconde e terze generazioni influiranno pesantemente sull'entità media delle loro pensioni, andando a creare anche in questo caso una sacca di nuove povertà.
Si tratta insomma di una riforma che comporterà una complessiva degradazione delle condizioni di vita dei lavoratori salariati del privato e del pubblico sia allontanando l'età del pensionamento, sia aumentando le probabilità di ritrovarsi a vivere nella povertà dopo una vita trascorsa a lavorare duramente proprio per non cadere nella povertà. Questa riforma inoltre non attenuerà affatto le diseguaglianze oggi esistenti ma andrà piuttosto ad approfondirle ulteriormente, colpendo le fasce dei lavoratori più deboli, come le donne, le generazioni più giovani, le generazioni prossime alla pensione ma “espulse” dal mercato del lavoro, gli immigrati. Si tratta insomma di una riforma che “promuove uno sviluppo umano subordinato alle esigenze del capitale, che esclude la possibilità di utilizzare l'aumento della produttività per ridurre la durata del lavoro a favore del tempo libero”[16].
[1] Si veda il rapporto Les retraités et les retraites en 2008, redatto dal centro di ricerca del Ministero della Sanità DREES (Direction de la recherche, des études, de l'évaluation et des statistiques), disponibile sul sito http://www.sante-sports.gouv.fr/IMG/pdf/retraites2008.pdf.
[2] La pension de droit direct è riscossa da circa 7,4 milioni di uomini e 7,6 milioni di donne. L'ammontare della minimum vieillesse è pari a 633 euro mensili nel caso venga percepita da persone sole e a 1.136 euro per le coppie. Quella per persone sole è percepita da circa 400.000 pensionati (nel 70% dei casi si tratta di donne. La minimum vieillesse per coppie è invece percepita dai restanti 175.000 e solamente nel 18% dei casi ne è titolare una donna.
[3] 1993: riforma Balladur, dipendenti privati; 2003: riforma Fillon, dipendenti pubblici; 2007: regimi speciali, come i trasporti pubblici.
[4] Secondo un'analisi del COR (Centre d'Orientation des Retraites), ripresa su Les Echos, il giornale della MEDEF, sarebbe necessario innalzare la contribuzione a 43,5 anni, meglio ancora a 45 anni a partire dal 2030, avvalendosi delle norme contenute nella riforma del 2003 che hanno portato all'attuale allungamento! Cfr. V. Collen, Retraite: les 9 scénarios d'allongement de la durée de l'activité, “Les Echos”, 12 maggio 2010.
[5] Si è tentato anche di innalzare dal 10 al 20% il tasso di invalidità minimo per aver diritto alla pensione di invalidità, ma poi questa nuova norma è stata ritirata a causa delle proteste di piazza.
[6] Si veda il documento governativo Synthèse de la reforme des retraites, disponibile sui siti governativi, sindacali e dei principali giornali francesi.
[7] I prelievi sui redditi più alti sono stati aumentati di un risibile 1% (dal 40 al 41%), così come il prelievo fiscale sui profitti derivanti da cessioni mobiliari e immobiliari e da dividendi ed interessi.
[8] Cfr. Jean-Marie Harribey, Les vrais effets de la contre-réforme des retraites, in www.alencontre.org.
[9] Questi dati sulla pension de droit direct, relativi al 2008, escludono le maggiorazioni derivanti dal principio di solidarietà, ossia la minimum vieillesse, la maggiorazione del 10% erogata ai genitori di almeno tre figli e i diritti di reversibilità in caso di morte del coniuge. Se queste maggiorazioni venissero conteggiate la pensione media femminile sarebbe pari al 67% di quella media maschile (dati aggiornati al 2004). La pension de droit direct riguarda il 74% delle pensionate e il 94% dei pensionati. Lo scarto di genere, per quanto riguarda questa tipologia di pensione, è andato progressivamente diminuendo grazie agli effetti dell'entrata in massa delle donne nel mercato del lavoro durante la fase di crescita postbellica e non certo -come si vorrebbe far credere anche con questa riforma- per la messa in campo di politiche contro le diseguaglianze da parte dei governanti francesi. Questi delinquenti matricolati sembrano piuttosto voler metter fine alle discriminazioni estendendo le “pensioni da uomo” alle donne per quanto riguarda la durata della contribuzione necessaria all'accesso alla pensione, ed estendendo le “pensioni da donna” agli uomini per quanto riguarda l'importo della pensione percepita...
[10] I dispositivi di maggiorazione delle pensioni in caso di congedo di maternità non coprono mai interamente l’intero congedo: nel calcolo finale dei trimestri di contribuzione vengono aggiunti 6 mesi per le lavoratrici del pubblico impiego e un anno per le lavoratrici del privato.
[11] Cfr. A.M. Merlo, Pensioni uguali ma a 60 anni, “Il Manifesto”, 11 giugno 2010.
[12] Mathieu Magnaudeix, Contre-réforme des retraites: la machine à fabriquer des chômeurs et chômeuses, dal sito Médiapart e ripreso in www.alencontre.org.
[13] Tasso di attività 55-59 anni: Francia 58,5%; Stati Uniti 72%; Regno Unito 72%; Germania 75%; Svezia 85%.
Tasso di attività 60-65 anni: Francia 16,5%; Germania 36%; Regno Unito 46%; Stati Uniti 53%; Svezia 65%.
[14] I lavoratori del settore privato lasciano il loro ultimo impiego in media a 58,8 anni e percepiscono la prima mensilità di pensione in media a 61,3 anni, mentre i lavoratori del pubblico lasciano il loro ultimo impiego in media a 58,2 anni e percepiscono la prima mensilità di pensione a 57,5 anni (anche se per questo dato pesa molto il pensionamento anticipato delle madri di famiglia, comunque i dipendenti pubblici vanno in pensione prima rispetto a quelli del privato).
[15] Queste forme di ammortizzatori dipendono in gran parte da altre casse di contribuzione, indipendenti da quelle pensionistiche. La rimessa in ordine della contabilità delle pensioni avverrà quindi trasformando l'erogazione della pensione in erogazione di assegni sociali che dipendono dalla contabilità di altre forme di previdenza.
[16] Cfr. Jean-Marie Harribey, Les vrais effets de la contre-réforme des retraites, in www.alencontre.org.
5 dicembre 2010
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA