15 febbraio 2009
da
"Internazionale" 29.1.2009
di Omeyya Seddik
TUNISIA
Il popolo delle miniere
Dal gennaio 2008, a Redeyef, nel sudovest del paese, vicino
alla frontiera algerina, un movimento di massa di grande portata - composto da
precari, disoccupati e vedove di minatori - inquieta il potere del presidente
Ben Ali, che si candida per la quinta volta a dirigere una nazione che soffoca
fra la crisi e le censure. E da cui i giovani fuggono «in cerca di illusioni
d'oltremare» GAFSA · Il 3 febbraio, di nuovo alla sbarra per il processo
d'appello i ribelli del fosfato tunisino. «Quello che fanno è
inaccettabile. Di fronte a Dio e di fronte agli uomini», dice Yasmina
Slama-Hlaimi. Si riferisce al trattamento che le autorità hanno riservato al
popolo delle miniere. E aggiunge: «Finché non sarà rispettato il diritto, finché
non verrà migliorata la condizione dei disoccupati, delle donne, degli operai,
dei giovani nelle università, finché non cesseranno le ingiustizie e la
corruzione, noi non ci fermeremo. Finché dovremo lottare, quelli di noi che
moriranno saranno dei martiri e quelli che sopravviveranno saranno felici...
Preferisco che dieci di noi muoiano perché quaranta possano vivere degnamente,
piuttosto che morire tutti in silenzio a poco a poco». Slama-Hlaimi ha quasi
settant'anni, è vedova di un minatore e ha tirato su da sola una figlia e sei
maschi a Redeyef. Questa città della regione di Gafsa, nel sudovest vicino alla
frontiera algerina, è il principale focolaio di rivolta del bacino minerario del
fosfato tunisino. Da gennaio 2008, un movimento di rivolta di grande portata ha
scosso questa regione di oltre 300.000 abitanti, che è fra le più povere del
paese e ha un tasso di disoccupazione ufficiale pari al doppio della media
nazionale. La Compagnia dei fosfati di Gafsa, principale datore di lavoro della
regione, assume sempre di meno, rende precaria la maggior parte della manodopera
e distribuisce qualche posto di lavoro stabile in base a un sistema di
corruzione e di nepotismo gestito insieme ai dirigenti del Partito al potere e
ad alcuni burocrati sindacali. La Compagnia, che sfrutta la principale risorsa
naturale del paese da oltre un secolo, è stata gestita a lungo dal potere
francese secondo la logica predatrice tipica del rapporto coloniale (quella di
uno sfruttamento intensivo delle risorse e della manodopera locale, che non si
preoccupa della riproduzione delle condizioni sociali di vita e di produzione,
che non investe localmente né sviluppa servizi e infrastrutture pubbliche).
Quando, sotto il protettorato francese, gli abitanti della regione si opposero
alla sorte che gli era riservata, l'esercito tirò sulla folla. Così accadde
durante lo sciopero dei minatori del marzo 1937, la cui repressione fece 17
morti. Nel marzo 1956, la Tunisia ottenne l'indipendenza politica, i francesi se
ne andarono e il potere del presidente Burghiba e poi quello del presidente Ben
Ali applicarono al bacino minerario di Gafsa una politica poco diversa da quella
dei loro predecessori. Durante tutto il XXmo secolo, il popolo delle miniere si
è costruito una lunga tradizione di lotte anticoloniali e operaie. Dall'inizio
del 2008, ha saputo organizzare un movimento molto popolare che ha riunito
diverse categorie sociali: disoccupati, lavoratori precari, donne e vedove di
minatori, giovani studenti e liceali, operai, insegnanti... Insieme hanno
portato avanti rivendicazioni chiare in merito alle politiche del lavoro e
dell'investimento, alle questioni ambientali, ai servizi sociali o ancora contro
la corruzione. È il movimento sociale più ampio, più democratico e più radicale
che il paese abbia conosciuto da decenni. Per timore che il movimento si
estendesse ad altre regioni del paese, il potere tunisino ha cominciato col
sottomettere il bacino minerario a un vero e proprio assedio poliziesco e
militare. In seguito ha dato la stura a una feroce repressione: sequestri,
detenzioni arbitrarie, condanne pesanti, violente cariche poliziesche che hanno
già provocato due morti... Gli abitanti hanno tenuto duro, la loro
determinazione e la loro solidarietà si sono rafforzate oltre ogni previsione e
contro tutti i tentativi messi in atto dal potere. Giovedì 11 dicembre si è
svolto il processo detto «dei 38» in cui i principali animatori del movimento
sono stati giudicati per «associazione a delinquere costituita alfine di turbare
l'ordine pubblico, di attentare alle istituzioni, alle strutture, ai beni
pubblici e privati»1. L'udienza si è svolta in presenza di centinaia di
poliziotti armati fino ai denti. Gli avvocati si son visti rifiutare tutte le
richieste di produrre elementi o testimonianze a discarico, non c'è stata alcuna
arringa, né deposizione dei testimoni, né requisitoria dell'accusa... Dopo
un'interruzione dell'udienza di dodici ore, il giudice si è presentato in aula
in piena notte, visibilmente terrorizzato malgrado (o forse per?) la presenza di
centinaia di agenti in civile e in uniforme. Ha annunciato che il verdetto era
stato emesso, ma ha rifiutato di comunicarne i termini pubblicamente e si è
ritirato tra le strofe dell'inno nazionale cantato dagli imputati e fra le
proteste degli avvocati. In quella situazione, il principale portavoce del
movimento, il sindacalista insegnante Adnane Haji ha dato il la con uno slogan,
che è stato ripetuto a lungo: «Fermezza e determinazione di fronte al potere
delle mafie!». Gli avvocati hanno dovuto recarsi in cancelleria per conoscere
l'entità delle condanne emesse: fino a dieci anni e un mese di carcere per i
sindacalisti, gli insegnanti, i disoccupati, gli operai e gli studenti che hanno
avuto un ruolo propulsivo nel movimento. Dopo aver appreso il verdetto, il
movimento ha ripreso le manifestazioni nella città di Redeyef, nonostante
l'intensificarsi delle retate di polizia e l'aumento della repressione, che ha
portato a molti arresti. «Fino a quando dovremo vivere in stato di assedio? Cosa
sta succedendo? Siamo forse a Gaza o a Falluja?», si chiede Slama-Hlaimi, «la
polizia tratta i nostri figli come i sionisti trattano gli arabi». Due dei suoi
figli sono fra i condannati nel processo dei 38. Tarek, il maggiore, insegnante
e sindacalista ha preso dieci anni e un mese; Harun, il più giovane, studente,
sei anni. Entrambi sono sottoposti al carcere duro e hanno subito trattamenti
simili alle torture. Due degli altri quattro figli di Slama-Hlaimi sono sempre a
Redeyef, Moussa e Omar. Quest'ultimo, maestro elementare, portatore di un grave
handicap fisico, è stato picchiato diverse volte, arrestato e condannato col
beneficio della condizionale. Gli altri due, Muhammad e Abdallah, hanno dovuto
partire per l'Europa per guadagnarsi degnamente da vivere e per mantenere la
famiglia rimasta al paese. Oggi sono operai edili a Nantes, in Francia, uno di
loro è ancora un lavoratore senza documenti. I figli di Slama-Hlaimi sono come
tanti altri giovani tunisini della regione mineraria o di altre regioni della
Tunisia: l'alternativa per loro è di sottomettersi a una vita di povertà,
disoccupazione e persecuzioni poliziesche oppure lottare. Che lottino contro un
potere repressivo e corrotto al loro paese o che si battano contro le guardie di
frontiera e contro i pericoli del mare in direzione di «Lambadouza» (Lampedusa),
agli occhi dei loro cari sono combattenti per la giustizia e per la libertà.
Oggi, la situazione nel bacino minerario è sempre tesa. Dopo un primo rinvio, il
13 gennaio, gli abitanti aspettano la data del processo di appello dei 38 di
Redeyef, prevista per il 3 febbraio. Per tre settimane, la situazione sociale
nella regione e nell'insieme del paese è stata scandita dall'ampiezza del
movimento di solidarietà popolare nei confronti di Gaza, che le autorità hanno
duramente represso. Nella regione di Gafsa, martedì 6 gennaio è stato
organizzato uno sciopero generale di sostegno al popolo e alla resistenza
palestinese. Uno sciopero molto seguito malgrado le misure ufficiali messe in
atto per farlo fallire. Nelle manifestazioni che si sono moltiplicate in tutto
il paese (dei liceali, degli studenti, dei sindacalisti, dei partiti e delle
associazioni indipendenti, degli avvocati), gli slogan più frequenti univano
l'omaggio al popolo palestinese di Gaza e quello agli abitanti del bacino
minerario di Gafsa.
( Traduzione di Ermanno Gallo )
15 febbraio 2009
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA