Specie umana e crosta
terrestre
L'argomento del precedente «filo del tempo»: «Pubblica utilità, privata cuccagna» era inteso a rendere chiaro come, nella presente economia sociale, l'iniziativa e la scelta restano sempre ai cacciatori di profitto speculativo, non solo quando con propri mezzi e in propria sede realizzano la loro privata impresa, ma anche nel caso delle cosiddette opere pubbliche, la cui sede viene di autorità occupata «per motivi di utilità generale» rimuovendone l'antico singolo possessore.
L'iniziativa, la scelta, la decisione sulla opportunità di questa o quella attuazione (strada, ferrovia, opera idraulica, opera edilizia pubblica, bonifica di zone della città o della campagna, lavoro marittimo e via via) e la priorità dell'una rispetto all'altra sembrano, ma non sono, dettate da un centro che abbia quella suprema visione del pubblico interesse. Sono invece, sempre, ideate, immaginate, lanciate, sospinte, fatte passare innanzi e condotte in porto, o come oggi suol dirsi senza eufemismo «varate» - si varano in senso proprio le navi, e in senso economico i classici «carrozzoni» - da un gruppo privato che ha fatto i suoi calcoli e ha preveduto un altissimo lucro.
Anzi, mentre per l'impresa in senso assoluto privata è oneroso il finanziamento ed elevato il rischio che sorta effetto sfavorevole, la probabilità che al posto dell'utile sorga una perdita; nel caso delle opere ed imprese che recano le sacre stimmate del pubblico bene, è molto più agevole ottenere a buone condizioni la finanza da anticipare, è quasi matematicamente escluso che vi sia rischio di benefizio, non diciamo negativo, ma limitato. Interessi passivi ed eventuali aumenti della spesa prevista vi è infatti, in tali casi, mezzo di riversarli sul bilancio del non meno classico Pantalone: andrebbe dunque bene la dizione: opera di privata utilità e pubblica fregatura.
La questione non vale solo ad intendere recenti processi dell'economia capitalistica, volgarmente detta economia controllata o diretta, e che qualitativamente nulla presenta di nuovo, quantitativamente (per quanto dilaghi ogni giorno di più) nulla di impreveduto, ma conduce alla generale impostazione marxistica del processo sociale e alla dimostrazione ad effetto universale, che di tutte le grandezze che vanta il presente periodo capitalista, nessuna ha avuto come causa prima e spinta motrice altro fine che quello dell'interesse della classe dominante, dei suoi membri o dei suoi gruppi, mai del benessere sociale generale.
La questione di cui dicevamo, anche trattata limitatamente alle opere di trasformazione edilizia delle grandi città, sempre più vaste e clamorose nell'epoca contemporanea, sempre più esaltate e stamburate come capolavori di civiltà e di saggia amministrazione, si connette a quella dello allogamento degli animali-uomini sulla terra, e alla soluzione non civile e perfetta, ma insensata e deforme, che ce ne presenta il modo capitalistico di produzione. Siamo in pieno nel quadro delle atroci contraddizioni che il marxismo rivoluzionario denunzia come proprie dell'odierna società borghese, e che non si limitano alla spartizione dei prodotti del lavoro e ai conseguenti rapporti tra i produttori, ma - inseparabilmente - si estendono alla dislocazione geografica e territoriale degli strumenti ed impianti di produzione e di trasporto, e quindi degli uomini stessi, che forse in nessun'altra epoca storica presentò caratteri così disastrosi e raccapriccianti.
Ieri
Non è senza sommamente crogiolarci che citiamo passi in cui Marx condanna e deride le concezioni di Giorgio Hegel; mentre a detta dei soliti dilettanti e faciloni avrebbe sempre manifestato per il suo «maestro» il massimo timor reverenziale.
La strigliata di cui andiamo ad occuparci tra breve è fra le tante che valgono a ribadire che le sovvertitrici e radicali interpretazioni marxiste del mondo umano, se per la stessa loro struttura hanno fatto tesoro di tutti i vastissimi risultati di epoche precedenti (non tralasciando di spiegare nessuna enunciazione e costruzione tramandata, anche quella di cui la «cultura» borghese con aria sufficiente e presuntuosa scioccamente rideva), una schiera di professanti soprattutto hanno sgominata e dispersa: i filosofi del diritto e gli ideologi della persona umana.
Nel procedere grandioso della sua dimostrazione che ogni valore - nell'economia privatistica e mercantile - va misurato dal lavoro umano sociale investito nei «beni» di ogni struttura, e quindi ogni accumulo e riserva di nuovo valore e di nuova ricchezza deve corrispondere a lavoro erogato e «non consumato», ossia ad una differenza mercantile tra il lavoro ottenuto ed il quantum di sussistenze lasciato consumare al lavoratore, Marx deve al giusto punto mostrare che la ricchezza consumata, oltre che dal proletario e dal capitalista, dal proprietario fondiario, non deriva che da quella origine. In termini economici: la rendita fondiaria non è che una parte del plusvalore, trattenuto al valore generato dalla somma degli sforzi sociali dei lavoratori.
Tale tesi deve eliminare una delle opposte (originata dalla scuola fisiocratica) affermante che ricchezza e valore potevano sorgere dalla terra, prima ancora dell'apporto del lavoro umano.
All'attuale stadio storico, e date le misure della terra, delle popolazioni e degli alimenti, occorre fare giustizia di ogni visione «arcadica» che presenti una piccola, serena e ingenua umanità vivente di frutti cadutile in grembo dalle chiome di alberi a vegetazione spontanea, sotto i quali giace cantando e baciandosi. Tanto si dice accadesse a Tahiti e nelle altre collane di isole del Pacifico, nel clima di permanente primavera: ma a tempo vi sono giunte le colonie del moderno capitalismo, e al posto dell'amore all'aperto e gratuito hanno importato amore mercantile e case chiuse. Come ben dicono i Francesi (il gioco di parole sta nella pronunzia): Civilisation et siphilisation (sivilisasion e sifilisasion) - carta moneta e spirocheta pallido.
Marx tratteggia quindi il rapporto tra l'uomo e la terra. Per noi l'uomo è Specie, per lor signori è Persona.
Marx premette - e lo abbiamo saldamente imparato
- che egli tratta della proprietà della terra quale si presenta allorché il modo
di produzione capitalistico è pienamente sviluppato. Egli sa bene che in quasi
tutti i paesi sono superstiti altre forme della proprietà della terra: quella
feudale, che
«presuppone (...) che il produttore diretto sia (...) un semplice accessorio del
suolo (sotto forma di servo della gleba, di contadino asservito, schiavo,
ecc.)»;
e quindi ha il carattere di signoria su masse di uomini - quella della proprietà
parcellare, che suppone che
«i lavoratori agricoli non siano stati espropriati delle loro condizioni di
lavoro»
ossia della terra e degli arnesi e scorte (1).
Interessa quindi a Marx astrarre da tali forme precapitaliste e considerare l'agricoltura organizzata con la presenza di questi elementi: il proprietario fondiario, che riceve un canone periodico dall'affittuario capitalista; questo affittuario che apporta il capitale di esercizio e paga salario; la massa di operai agricoli. Marx dice che a tal fine gli basta per la sua ricerca considerare assolutamente analoga l'azienda capitalistica manifatturiera e quella agraria, il capitalista che produce manufatti e quello che produce alimenti: anzi per chiarezza riduce questi al grano, nutrimento essenziale dei popoli moderni. Si deve solo spiegare la funzione di un terzo personaggio, che manca nella manifattura (in generale), ma è sempre presente nell'agricoltura capitalistica: il proprietario; e indagare la fonte del suo benefizio, o rendita fondiaria.
Anche qui viene mostrato come, se lo sviluppo
del capitalismo impone che si faccia piazza pulita delle forme agrarie feudali e
della piccola proprietà, che si svincolino tutti i servi dalla terra e si
rovinino al massimo i coltivatori diretti, rovesciando tutti nel proletariato
senza terra né riserva (riserva è una provvista di oggetti di consumo, o
di valuta sufficiente ad acquistarli quando non vi sia altro introito), tuttavia
quella sola forma di proprietà del suolo compatibile col pieno capitalismo non è
però per lo stesso una condizione necessaria. In altre parole: la
proprietà fondiaria sparirà prima del capitalismo industriale, ed anche, come
magnificamente illustrato in passi che vanno dall'Antiproudhon del 1847
ad una delle ultime lettere di Marx (letta nella riunione di Milano, in
settembre, del nostro movimento): la soppressione della proprietà privata del
suolo non significa passaggio al socialismo (2):
«Certo, come vedremo più avanti, la proprietà fondiaria si distingue dalle altre
forme della proprietà per il fatto che, ad un certo grado di sviluppo, essa
appare superflua e dannosa, anche dal punto di vista del modo di produzione
capitalistico» (3).
Come a Milano fu detto, il «più avanti» viene dopo la drammatica parentesi quadra di Engels che chiude quanto abbiamo del terzo libro (al capitolo 52°, mentre qui siamo al 37°): «Qui il manoscritto si interrompe...». E noi sosteniamo che il coronamento dell'opera doveva essere il capitolo-programma sul trapasso sociale dalla produzione capitalistica al comunismo.
Tornando, dopo queste delucidazioni, sempre
necessarie anche se ripetute, giusta il metodo che deliberatamente applichiamo,
alla definizione marxista della proprietà sulla terra, contrapposta a quella
fasulla della filosofia idealista, riportata in nota, non resta che
trascriverla:
«La proprietà fondiaria presuppone il diritto monopolistico, da parte di certi
individui, di disporre di determinate porzioni del globo come di sfere riservate
alla loro volontà privata, con esclusione di tutti gli altri» (4).
Ed ora la nota:
«Nulla di più comico del modo in cui Hegel spiega la proprietà privata della
terra. L'uomo in quanto individuo deve dare realtà alla sua volontà come anima
della natura esterna [facendo di essa volontà personale l'anima della natura
esterna], e prendere quindi possesso di questa natura come sua proprietà
privata. Se tale è il destino dell'individuo, dell'uomo in quanto
individuo, la conseguenza sarebbe che ogni essere umano deve essere un
proprietario fondiario, per potersi attuare in quanto individuo. La libera
proprietà privata del suolo - un prodotto molto moderno - non è un definito
rapporto sociale, secondo Hegel, ma un rapporto fra l'uomo, considerato come
individuo, e la natura, 'il diritto assoluto dell'uomo di appropriarsi
tutte le cose' (Hegel, «Filosofia del diritto», Berlino 1840, p. 79). È, innanzi
tutto evidente che il singolo individuo non può, con la sua 'volontà',
affermarsi come proprietario contro la volontà altrui che voglia parimenti
prender corpo nello stesso brandello di terra. Per far questo occorre ben altro
che la buona volontà [ci vuole, intende dire Marx, nell'impiegare con finissima
ironia il gergo hegeliano di cui dal 1840 è perfettamente padrone, un buon
fracco di legnate]. Non si può inoltre assolutamente calcolare dove 'l'individuo'
porrà i limiti alla realizzazione della propria volontà, se l'esistenza della
sua volontà si realizzerà in un paese intero o se avrà bisogno di tutto un
gruppo di paesi per 'manifestare', appropriandoseli, 'la supremazia
della mia volontà nei confronti dell'oggetto' (p. 80). Qui Hegel fa pieno
fallimento. 'La presa di possesso è di natura del tutto individuale;
io non prendo possesso che di quanto si trova a contatto con il mio corpo,
ma il secondo punto è al tempo stesso che le cose esterne hanno una
estensione maggiore di quella che io posso abbracciare. Quando io
posseggo una cosa, vi è anche un'altra cosa che le è collegata. Io
prendo possesso con la mano, ma il raggio d'azione della stessa mano può
essere ampliato' (p. 90). Ma questa altra cosa è di nuovo collegata ad
un'altra, e scompare così il limite entro il quale la mia volontà si può
effondere come anima nella terra. 'Se io posseggo qualche cosa, la mia
ragione trae subito la deduzione che è mio non soltanto ciò che costituisce
possesso immediato, ma anche ciò che vi si trova collegato. Qui
deve affermare i suoi principi il diritto positivo, perché niente altro
può essere dedotto dal concetto' (p. 91). Ciò costituisce una confessione
estremamente ingenua del 'concetto' [Marx continua] e dimostra che il concetto,
il quale commette in partenza l'errore di considerare una concezione giuridica
della proprietà fondiaria ben definita e appartenente alla società borghese come
una concezione assoluta, non comprende nulla delle effettive forme di
questa proprietà fondiaria. Vi si trova al tempo stesso contenuta la confessione
che i bisogni mutevoli dello sviluppo sociale, ossia economico, possono e devono
portare il 'diritto positivo' a modificare i suoi principi».
Fin qui l'importantissima nota di Marx.
La speculazione idealistica cerca il vano rapporto tra la persona e la cosa-terra, e lo descrive come una proiezione dalla prima di misteriosi fluidi volitivo-magnetici. Il marxismo mette fuori prima il feticcio persona, e cerca il procedere storico, grandemente variabile, dei rapporti tra l'uomo, come specie e come società, e la produzione agraria, ed alla fine lo stabilisce positivamente nella sua realtà di rapporto tra classi di uomini, che nella produzione rurale hanno diversi compiti e si ripartiscono variamente il prodotto e i benefizi. O super-impotenza del filosofare e del filosofame borghesi!
Questi passi di Hegel, e la rude messa a punto dello scolaro Carlo, vengono bene per mostrare quanto puzzo di hegelianismo viene dall'ingombrante vociare degli stalintorinmarxisti. Quando un sedicente marxista ha sacrificato a queste due pestifere tesi: la dignità della Persona umana, da un canto, e la spartizione della terra ai contadini dall'altro, non attendetelo alla terza fregnaccia: si è tagliato già tutto.
Nel capitolo studiato, Marx dunque non fa che accenni alla precedente storia dell'occupazione, della organizzazione della terra da parte dell'uomo, prima della presente fase capitalistica. Egli tuttavia chiarisce all'inizio che non si tratta di un semplice «diritto di superficie», in ciò che l'odierno diritto positivo stabilisce come proprietà del suolo, trasmissibile con scambio contro denaro. Si tratta di uno stadio dell'allogamento degli impianti umani nella «crosta» terrestre, ossia in uno strato che si stende nel sottosuolo e nel soprasuolo. Marx, infatti, avverte non solo che nella dizione terra egli comprende anche le acque in quanto economicamente utilizzate, ma tratta, svolgendo la teoria della rendita fondiaria, non di quella sola che si ricava dalla coltivazione dei campi, ma anche delle miniere, dei suoli edificatori, delle costruzioni edilizie e di ogni altro impianto fisso al suolo, e che gli sovrasti o sottostia.
L'utilizzazione di tutte queste forme esige l'apporto di un capitale finanziario per seminare, lavorare, raccogliere, costruire, scavare, edificare, ecc. Il diritto «catastale» che inscrive ogni appezzamento ad un padrone, stabilisce che l'intraprenditore che ha raccolto il capitale non può iniziare l'impresa se non ottiene il permesso di varcare il confine perimetrale e mettersi all'opera, adducendovi i suoi salariati e stipendiati. Egli apre così una breccia di tempo nel monopolio del possessore, a cui il «diritto positivo» - salvo quella suprema finezza dell'espropriazione forzata - non potrebbe vietare di mettersi nel bel mezzo con una sedia a sdraio e la pancia al sole, o luna che sia, sotto la protezione di una cinta o di una serie di cartelli: «vietato l'ingresso».
Un monopolio, dunque, e non una proprietà come quella degli oggetti di consumo. Ora, il permesso di rompere o interrompere il monopolio va pagato: e il capitalista imprenditore versa l'annuo affitto. Guadagnerà tanto di meno, togliendo la detta somma dal profitto totale che avrà avuto, quando avrà pagato 1.000 di zappatura e venduto 2.000 di grano. Dunque la terra, per sé, e perfino le calorie che il sole vi irradia, non rendono nulla a quello della sedia a sdraio; e intanto egli si pappa la rendita, in quanto la stessa è stata detratta dal valore-lavoro, venuto fuori da quelli che danno la schiena e non la pancia al dardeggiante sole e squarciano, grondanti sudore, il ventre fecondabile della terra vergine e non madre.
Marx dimostra che la stessa legge della discesa del tasso di profitto del capitale, oltre a tutti gli altri fattori, esalta al massimo il valore del monopolio fondiario, e che l'esaltazione è stata massima per le forme non puramente agrarie, come la miniera e il suolo edificatorio, soprattutto presso le grandi città.
Siamo noi che, avanti di proseguire e di giungere con Marx alla dimostrazione che il moderno rapporto tra uomini e terra è il peggiore, quanto a tipi di utilizzazione, ossia di «attrezzamento» a mezzo dei più vari impianti, della scorza terrestre, percorriamo con scarni ricordi la storia umana della conquista della crosta, cercando in essa non la medianica impronta degli atti di volontà, ma gli effetti fisici del lavoro e dello sforzo delle generazioni, compiuto non perché in principio fosse la ragione o la coscienza, ma perché in principio era il bisogno, e nei vari stadi dello svolgimento variamente si provvide dalla collettività umana alla propria sicurezza, vita e moltiplicazione, e con varia vicenda di successi o di catastrofi.
Non è l'uomo il solo animale che lascia traccia nella crosta della terra, e non si limita a percorrerla con passo lieve che ne lambisca appena la superficie limite, lasciandovi tracce non molto maggiori del nuoto del pesce nell'acqua o del volo dell'uccello nell'aria. In certo senso l'uomo è inferiore, e il sogno di Leonardo non è ancora riuscito a staccarlo dal suolo, con la sua forza muscolare e non con veicoli, che del resto lasciò inaugurare ad una pecora. Nell'acqua i suoi migliori acciai non hanno consentito a Piccard che qualche cento metri, mentre la vita pulsa nella batisfera e forse vi si originò. Nella crosta solida, se forse gli spetta il primato tra le specie zoologiche, non fu tuttavia il primo a lasciare impronte di vuoto o di sopralevato, perché molti animali percorrono con gallerie il sottosuolo, e la misteriosa pianta-colonia animale, il corallo, costruì coi suoi cadaveri calcarei, più che i nostri edifizi, vere isole che consideriamo parte integrale dello scheletro geofisico.
Se dunque l'uomo primo fu nomade al pari delle bestie e quindi non ebbe alcun interesse a fare «impianti fissi», in modo che i suoi primi atti di volontà - come avrebbe detto Hegel - non dettero anima al suolo, alla zolla o alla roccia, ma solo ad un ramo strappato come clava o a una pietra tagliata per ascia, era stato già preceduto da altri esseri «colonizzatori» della crosta ed autori di «opere stabili», e non solo da esseri fissi, ma da esseri semoventi in qualche caso, se è vero che il castoro ha un'abitazione e l'elefante un cimitero.
Lasciamo il nomade che sulla crosta terrestre lascia solo labile traccia tosto dispersa, e veniamo alle prime società fisse. Lungi l'idea di tracciarne la storia; accorsero millenni perché sotto la pressione dell'aumentato numero e per l'effetto delle prime risorse tecniche di lavoro, si iniziassero le costruzioni vere e proprie che andavano al di là della tenda del beduino o della capanna di ghiaccio del Lappone. L'uomo prese a scavare entro terra, anzitutto, le pietre e i cementi che gli servirono ad erigere sotto terra le prime case ed edifici diversi, ed impresse nella crosta selvaggia le prime strade, i canali, le tante altre postazioni e piste che superarono secoli e secoli o furono dal tempo cancellate ed avulse.
Finché la produzione prevalente fu quella agraria, la densità di popolazione bassa, i bisogni limitati, e tuttavia era già affermata l'esigenza delle sedi territoriali fisse e della loro stabilità, non solo contro le calamità naturali ma altresì contro l'offesa e l'invasione o distruzione di altri gruppi umani, e fu appena embrionale lo scambio di prodotti fra terra e terra, il tipo di «attrezzatura della crosta terrestre» da parte delle società umane ebbe il marchio di un poco profondo intervento. La parte di gran lunga maggiore dello spazio necessario ai popoli non ebbe altro intervento che la coltivazione, che comporta lo scasso per pochi palmi, convenendo senz'altro trascurare i terreni poco fertili o insidiati da pericolo di allagamenti, malsanía paludosa, imperversare di venti, di maree, scarsi di pioggia, di altimetria impervia e così via.
Tra i campi coltivati, poche rudimentali abitazioni degli agricoltori, una modesta rete di strade pedonali o da percorrersi con cavalcature, scarse opere idrauliche di sussidio alla tecnica rurale... Ogni tanto un castello, nel quale risiedeva un signore o un capitano di armati, e mano mano attorno ad esso le case borghigiane dei primi artieri. Nel Medioevo, più ancora che nei tempi classici, poche, poco popolate, distanti tra loro le città, collegate da vie maestre insicure e percorse da lenti mezzi a traino animale - poco importanti fino almeno al dodicesimo secolo le città marittime e portuali per la scarsa incidenza sulla generale economia del traffico di navigazione, per antiche che siano le imprese anche stupefacenti di taluni popoli rivieraschi.
Decisamente la popolazione sparsa prevaleva sulla popolazione agglomerata.
Conosciamo questa sonata della sinfonia illuminista - una delle più balorde: è l'agglomerazione cittadina che ha sviluppato la scuola, la cultura, la civilizzazione, la partecipazione di tutto il popolo alla vita politica, alla libertà, alla dignità della persona umana! Siamo sempre lì. Più si vedono individui ammassati a migliaia e a milioni in tane fetenti, in scannatoi militari, in caserme e galere, più se ne vedono per l'assembramento ridotti in poltiglia dalle bombe non atomiche e atomiche, più la farisaica adorazione dell'Individuo dilaga ed ammorba!
Ma l'agglomerazione urbana, anzitutto, sviluppò epidemie e pestilenze, superstizione e fanatismo, degenerazione fisica e criminale, formazione del Lumpenproletariat e di strati di malavita deteriori rispetto a quelli del banditismo da strada maestra di un secolo addietro, salita paurosa di tutte le statistiche della delinquenza, e ciò più nei paesi progrediti e ricchi che negli arretrati, e soprattutto in quelli con le unità urbane più grandi.
Non si tratta qui di fare l'apologia
dell'attuale situazione delle masse nelle campagne, rari essendo gli esempi di
un vero proletariato agricolo che sia bene alloggiato in abitazioni moderne
sparse sul territorio e non a sua volta agglomerato in centri grossi, di oltre
50 mila abitanti. Per ciò che poi riflette il piccolo coltivatore diretto,
abitante in una casa-capanna sul suo pezzetto di terra, meno che mai questo ci
offre il tipo auspicabile. Di questo strato di popolazione, cui oggi vanno al
tempo stesso gli osanna di fascisti, centrocattolici e falsi sinistri sia
democratoidi che stalinisti, ecco che dice Marx:
«La piccola proprietà fondiaria crea una classe di barbari che è per la metà al
di fuori della società, che unisce tutta la rozzezza delle forme sociali
primitive con tutti i dolori e tutta la misère dei paesi civilizzati»
(5).
Ma (e si potrà a suo tempo meglio completare lo sviluppo di questo quadro), (6) non avviene di meglio per la grande proprietà rurale e per l'industria moderna. La prima conduce al progressivo ridursi della popolazione agricola e della fertilità del suolo, la seconda distrugge «la forza lavoro e quindi la forza naturale dell'uomo». In ciò si danno la mano, Marx aggiunge. E per lui, come per noi, peggiore della rozzezza sana e vigorosa dei popoli barbari è la degenerazione delle masse nell'epoca capitalistica, che i nemici nostri chiamano col vocabolo di civiltà; applicato bene e in senso proprio perché vuol dire modo urbano di vivere, modo proprio dei grandi mostri agglomerati che sono le metropoli borghesi.
Oggi
Qui non tratteggiamo l'urbanesimo e i suoi effetti in tutto lo sviluppo sociale, ma nella base «tecnica» del modo di organizzare il suolo terrestre, perché, cessando di essere uno spazio appena grattato per la coltivazione, sia attrezzato nell'intimo con tutti i completi impianti generali che servono a creare la piattaforma dei complessi edilizi; ed abbia strade, fogne, distribuzione di acqua, elettricità, gas, per luce, calore e comunicazione d'ogni genere, trasporti pubblici di ogni tipo. Fino dai tempi antichi, gli spazi relitti di città decadute o rase al suolo da devastazioni, malgrado la minore fittezza ed intimità degli impianti col sottosuolo, restano aridi e inadatti ad ogni coltura, oasi di deserto in mezzo ai campi coltivati. Quindi il dilagare della città a danno della campagna, che accompagna l'affluire con moto inverso degli uomini nella prima, comporta una diversissima e più profonda maniera di trasformare la «crosta terrestre» da parte dell'uomo, e da questo diverso fatto tecnico sorgono i nuovi rapporti economici di valore e rendita che Marx ed Engels definiscono, e ne sorgono i rapporti sociali - ed i programmi di rivoluzione sociale.
A sentire la tecnica moderna, il sistema dei grossi concentramenti è «economico» quanto a spesa che occorre, in tutti i sensi, per «sistemare la popolazione nel territorio sua sede». Ma economico per essa significa adatto al profitto e al monopolio della classe dominante. Essa riderebbe a veder proporre come migliore una sistemazione sparsa e più uniforme, e pretende che sarebbe «falsa spesa» la ramificazione in tal caso ben diversa di tutti i sistemi adduttori e scaricatori di case e di persone. Ma il nec plus ultra della prosopopea è nella scienza applicata, che vanta un incessante progresso, ma tende sempre di più ad un mucchio di bugie, di calcoli e deduzioni coscientemente sbagliati, e ad un groviglio tremendo di superstizioni e luoghi comuni, sotto la pressione dell'affarismo.
L'Italia, paese affollatissimo, ha oltre 150 abitanti in media per chilometro quadrato. Ma nelle città, almeno nei nuclei di esse, e senza considerare le più disgraziate, vi sono 400 abitanti in un ettaro, ossia 40 mila in un chilometro quadro: dunque la densità è oltre 250 volte maggiore della media, e in rapporto ancora più elevato sta la densità cittadina media con quella rurale media. Mentre la «politica economica» del capitale tende ad esasperare ancora il tremendo contrasto, la politica rivoluzionaria lo prenderà di fronte con radicali misure.
La moderna ingegneria pretende avere realizzato capolavori con i massicci impianti unitari per abbeverare una città, illuminarla, muovere i suoi congestionati trasporti, manutenere le strade e il resto, asportare i rifiuti distruggendoli per renderli innocui, ossia mineralizzando la parte organica o portandoli lontano, nei grandi fiumi o nel mare, e naturalmente disprezza il tipo di organizzazione rurale in cui in ogni fattoria, o in gruppi limitati, si risolve con mezzi pressoché «naturali», ad esempio, la provvista di acqua o il servizio di smaltimento dei rifiuti.
Il giovanotto fresco di laurea e lettore di
riviste aggiornate torcerebbe dunque il muso se leggesse il passo di
Engels che segue («Questione delle abitazioni», 1872) e lo condannerebbe come
arretrato e «superato» dai tempi e dalle geniali moderne applicazioni. Engels
ribatte a chi aveva detto che è una utopia l'abolizione del contrasto tra città
e campagna, perché è naturale, o per meglio dire fattosi storicamente...:
«L'abolizione dell'antitesi tra città e campagna non è un'utopia, né più né meno
di quanto lo sia l'abolizione della antitesi fra capitalisti e salariati. Essa
diventa ogni giorno di più una esigenza pratica della produzione agricola e
industriale. Nessuno l'ha sollecitata più di Liebig nei suoi scritti sulla
chimica applicata all'agricoltura, nei quali egli affaccia continuamente
l'esigenza che l'uomo restituisca alla terra ciò che le prende, e nei quali
dimostra che l'unico ostacolo a far ciò è dato dall'esistenza delle città, e
specialmente delle grandi città» (7).
Liebig! dirà il solito giovincello, ma che
vecchiume! Quanti dati gli mancavano, che noi oggi abbiamo dopo un secolo o
quasi di ricerche in tutti i campi, chimici, biologici ed agronomici! Liebig
viene citato anche da Marx, (8) e se ancora oggi merita più fede dei moderni
universitari, è perché oltre alle tante esperienze moderne gliene mancava una
notevole: quella dei premi o stipendi... da parte della Montecatini o
dell'Agfa:
«Si consideri che soltanto qui a Londra si produce una quantità di concime
animale più grande di quel che produca tutto il regno di Sassonia, concime che
giorno per giorno viene immesso nel mare e questo costa somme favolose; si pensi
ai giganteschi impianti che si rendono necessari per impedire che questo concime
appesti tutta Londra, e si vedrà che questa utopia dell'abolizione dell'antitesi
fra città e campagna assume una notevole pratica. Ed anche Berlino, che in
confronto è piccola [non certo oggi, 1952], da almeno trent'anni è
soffocata dal puzzo dei suoi stessi rifiuti. D'altra parte, è invece una pura
utopia pretendere, come fa Proudhon, di riformare l'attuale società borghese e
di mantenere il contadino come è oggi. Soltanto una distribuzione il più
possibile uniforme della popolazione su tutto il territorio, soltanto un intimo
coordinamento della produzione industriale e di quella agricola, accompagnati
dall'estensione della rete di comunicazioni che così si rende necessaria -
presupponendo effettuata l'abolizione del modo di produzione capitalistico -
sono in grado di strappare la popolazione agricola dall'isolamento e
dall'abbrutimento in cui essa vegeta quasi senza cambiamenti da migliaia di
anni» (9).
Non deve credersi che sia superata la tesi di Liebig per cui il ciclo di rotazione della materia organica necessaria alla vita cade in passivo se si rinunzia alla deiezione umana e in parte animale. La rinunzia è stata fatta e passata in giudicato secondo una artificiosa igiene edilizia, che andrebbe contro i dettami del profitto speculativo se revocasse in dubbio che masse immense di uomini devono essere asserragliate entro le zone arredate nel sottosuolo dalla maglia dei servizi urbani e passate ad una respirazione da «polmoni d'acciaio».
Tutte le ricerche moderne sulle prospettive di produrre alimenti in ragione della crescente popolazione, tenuto conto della terra coltivabile e del calcolo energetico di calore e di chimismo disponibile, concludono per la prossima deficienza di alimenti. Si pensi che un compenso si potrà solo trovare con adatti mezzi estrattivi nel «plankton» delle acque marine, ossia nei corpuscoli di animaletti acquatici diffusi nei mari, da cui si ricaverebbe una specie di conserva in iscatola. Si può anche prevedere che, grazie anche a trasformazioni infratomiche, la chimica riesca nella sintesi di pillolette nutritive. Ma il fatto è che a parte queste visioni futuriste (esse richiamano la risposta della signora cui spiegavano che in avvenire i bambini si faranno in laboratorio: sono ammirata, ma penso che si tornerà sempre con piacere all'antico sistema!), oggi la circolazione tra terra agraria, animali ed uomo cade in difetto soprattutto di sostanze azotate.
Perché dunque tenere in non cale la perdita enorme degli attuali sistemi sterilizzanti di fognatura (alla sterilità basta la forte diluizione e un tempo di poche ore), dato anche che le scorte minerarie di concimi sono per alcuni tipi in via di esaurimento? La specie umana distrugge così masse innumerevoli di calorie del settore vitale, così come fa con la conservazione dei morti. Non si tema che, come i nazisti, vogliamo industrializzare i cadaveri: tanto la somma delle deiezioni di un uomo nella vita media è un 300 volte il peso del suo corpo. Ma sostituendo i cimiteri con altro dispositivo, anche mineralizzante, si guadagna terreno coltivabile: oggi poi sarebbe per i costruttori ghiotto terreno edificabile, ma non si illudano, non spezziamo tale lancia per essi.
Siamo dunque, con Marx ed Engels, in tema non di utopia, non di vaga ipotesi, ma di preciso programma sociale post-rivoluzionario e post-capitalistico, nel prevedere i primi «progetti» unitari per arrivare alla rete uniforme di attrezzatura della crosta terrestre, nei cui nodi l'uomo non sarà più né villano né cittadino. La democrazia borghese inorridisca, che alle tante libertà del cittadino vogliamo aggiungere la libertà... di concimare. Essa lo ha ridotto a rinunziare alla libertà di respirare. Il nebbione nero sceso sulla grande Londra ha arrestato, per settimane, ogni attività, poiché depositava nei polmoni di chi si avventurava per le vie il pulviscolo di carbone delle mille e mille ciminiere concentrate attorno alla metropoli, e rendeva perfettamente inutili i magnifici sistemi di illuminazione, di trasporto, ed ogni impianto di lavoro; tanto che i ladri e teppisti ne hanno largamente profittato.
Siamo quindi ben oltre dall'equilibrio tra gli «interessi» dell'uomo della città e di quello della campagna, di cui nelle ultime dichiarazioni di Stalin (10). Questo è un postulato vanamente inseguito dal capitalismo, mentre quello della rivoluzione socialista è nel superare le classi sociali, e quindi la possibilità che gruppi sociali si assicurino miglioramenti e benessere a detrimento dell'altro gruppo.
Non si tratta più di una questione di ripartizione dei frutti di un'azienda così irrazionale, come è la crosta del nostro pianeta quale è voluta dal sistema capitalistico e dai suoi effetti di preteso modernamento dei sistemi più antichi. Non si tratta più di economia intesa come litigio intorno alla ricchezza di merci o di moneta; si tratta fisicamente di introdurre un tutto diverso modo di attrezzatura tecnica del suolo, del sottosuolo e del soprasuolo, ove forse a fini archeologici si lascerà ogni tanto in piedi uno dei capolavori del tempo borghese, a ricordo per quelli che la secolare opera, partita dalla esplosione rivoluzionaria mondiale, avranno compiuta.
Note
dai testi della sinistra comunista
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA