supplemento al n.38 di Che fare,
Inserto teorico
Comunisti e Parlamento
Teoria e storia
- Premessa
- L'unica via marxista al socialismo: rivoluzione, dittatura proletaria.
- Da Lenin a Togliatti a D'Alema: dal partito comunista al partito di "sinistra" della borghesia.
- Ma lo spettro del comunismo non è morto...
- Il riformismo: un cadavere borghese che va sepolto.
- Nullismo astratto o realismo rivoluzionario?
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Nell’attuale
situazione di dissesto del movimento di classe non c’è da stupire che tutti i
discorsi riguardanti le elezioni si restringano, anche per la massa dei proletari, al
semplice quesito "per chi votare?", ovvero al fatto di scegliere dal mazzo
dell’offerta resa disponibile dal mercato la sigla più rassicurante, o meno
minacciosa. Il proletario-medio, ridotto alla funzione di elettore passivo, non sembra, a
questa stregua, neppure porsi il problema di avere un suo partito di classe cui
riferirsi ed a cui contribuire in maniera militante, cioè attiva in prima persona
dall’inizio alla fine, e non solo al momento terminale del voto; anzi, il cancro
dell’ideologia borghese lo ha penetrato a tal punto da fargli ammettere, con
deferente spirito servile, che quel tanto di utile per sé che si può richiedere al
responso delle urne implica come premessa per la vittoria della "propria"
parte la cancellazione di ogni troppo spinta caratterizzazione di classe: per evitare la
destra si deve tener la barra dritta al centro, verso i ceti medi, la piccola e media
industria o anche quella grande, purché "responsabile"; si deve evitare di
sbilanciarsi troppo, "corporativisticamente", verso quei derelitti sociali, più
che soggetto di classe, che sono i proletari e nelle formulazioni programmatiche e
nel tipo di conduzione della campagna elettorale, che dev’essere la meno
incontrollata e piazzaiola possibile.
Figuriamoci, dunque, se si sente il bisogno di riandare ai nodi teorici
di fondo sulla natura delle rappresentanze parlamentari e dello Stato,
sull’orizzonte teorico-programmatico comunista riguardante le questioni della
società e del potere e, in relazione a ciò, sull’attitudine strategico-tattica per
rapporto all’uso o meno (e di che tipo, eventualmente) degli strumenti
elettorali-parlamentari!
Persino chi si sente ed è comunista per davvero rischia di
prendere qualche sbandata. Ha senso pratico, oggi, parlare di rivoluzione, dittatura
proletaria, via extra ed antiparlamentare al potere quando sembrano venir meno nelle masse
gli stessi elementi minimi di riferimento concreto a queste tematiche? E se ne ha uno, non
sarà quello di riservarne la "discussione" a ristrettissime avanguardie, per
forza di cose staccate dal movimento effettuale? C’è, in sostanza, il rischio, anche
non espresso coscientemente, di concepire le grandi questioni teoriche come qualcosa di separato
dal "concreto", dal "pratico", di cui si potrà, al massimo,
discettare in termini ideali ed astratti, mentre il portare tali discorsi dinanzi
alle masse "immature" rischierebbe di recidere anche quegli scarsi legami che
con esse si sono stabiliti sul terreno immediato (la teoria contro la pratica!).
(Parrebbero salvarsi quei pochi millenaristi che, infischiandosi dello
stato d’animo e di quello mentale delle masse, ad ogni tornata elettorale si
ripresentano dall’esterno con le loro sacrosante verità rivoluzionarie per
"fissare i paletti": solo che segnare le differenze avanguardia-masse non
è, o non è ancora e di per sé, lavorare per orientare e dirigere le
masse...).
Noi, da marxisti che si sforzano di essere conseguenti, consideriamo
che le grandi questioni teoriche costituiscano la premessa di ogni serio
intervento, quali che siano le congiunture in cui esso si trova a svolgersi. I modi (la
tattica) dell’intervento possono (e di regola devono) essere diversi, a seconda di
quest’ultime, non così i suoi contenuti, le linee di principio e di strategia
cui esso ubbidisce.
Perciò, anche in una situazione del tutto sorda, all’immediato,
alla voce del comunismo autentico noi interveniamo per ristabilire questa voce: non
proclamandola in astratto, e come una sorta di prendere o lasciare, ma tentando di
evidenziare, per mezzo di essa, la sostanza dei problemi reali di fronte ai quali la
nostra classe si trova confrontata, a partire dai livelli effettivi di organizzazione e di
coscienza del proletariato, per riannodare ogni singola, ed anche minima, tendenza della
massa a liberarsi dal conformismo borghese in cui si trova avvolta, in direzione del
nostro integrale programma comunista. Pur ridotto ai minimi livelli di
"visibilità" in quanto classe, sappiamo che il proletariato esprime una
contraddizione antagonista ineliminabile, e se anche può credere di doversi mettere alla
coda dell’ideologia e delle bandiere borghesi, non può né mai potrà vivere da
borghese. Di fronte alle scadenze elettorali, cui esso è doverosamente interessato,
come ad ogni fatto della vita politica che lo riguardi, esso non cessa di esprimere, in
qualche modo, questa contraddizione, ed è su ciò che va svolto il nostro lavoro. Per
arrivare al capo della catena conviene afferrarsi all’anello superiore più vicino.
Ed è quel che facciamo.
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L'unica via marxista al socialismo: rivoluzione, dittatura proletaria.
Il fulcro centrale della
posizione marxista sulla questione elettorale-parlamentare consiste, sin dagli esordi,
nella smentita della democrazia borghese (e, in senso proprio, della democrazia tout
court dal momento che l’abusato termine di "democrazia di classe",
"democrazia socialista", o si presenta come un -opinabile- surrogato
agitatorio del termine nostro esatto -dittatura proletaria-, o si riduce a un
non senso che vorrebbe trasportare entro il campo dell’azione collettiva di classe
nella fase transitoria dell’esercizio collettivo di classe del potere sino al
socialismo e all’estinzione dello stato, le categorie borghesi dell’eguaglianza
giuridica, dei diritti individuali di rappresentanza d’interessi e di potere).
Fin dagli esordi, dunque, l’eguale diritto
democratico-parlamentare è per i comunisti un inganno in quanto prospettiva
d’emancipazione; ogni "via elettorale-parlamentare" al potere è negata da
Marx sin dal 1848, e per sempre. Non ne consegue, però, al contrario!, l’esclusione
di una lotta per l’allargamento degli spazi elettorali e parlamentari per tutta una
lunga fase (quella che, grosso modo, si conclude -per quel che concerne le metropoli- con
la prima guerra mondiale). Sbaglia l’anarchico che, riferendosi allo stesso principio
antiparlamentare dei marxisti, ne desume una posizione astensionista. Sbaglia perché la
lotta per allargare la sfera dell’esercizio del voto, per conquistare regole più
democratiche di rappresentanza, per strappare più seggi parlamentari, s’inscrive in
una fase ascendente o di consolidamento del sistema borghese in cui l’arena
parlamentare è ancora un terreno percorribile per strappare delle riforme e
l’esercizio di questa battaglia è tuttora un fattore di mobilitazione, educazione,
organizzazione delle masse. Di ripulitura dell’ambiente sociale e politico dai resti
preborghesi e di attrezzaggio al futuro assalto contro la stessa società borghese
"compiuta".
Sul finire dell’Ottocento, Engels, in un documento che si
tentò di sfruttare come prova di una "svolta" riformista, si esprime in questi
precisi termini: il partito sta registrando degli enormi passi in avanti contrassegnati da
un imponente progresso in termini di voti e rappresentanza parlamentare; preserviamo e
portiamo oltre questi risultati. Non, però, perché ci si spiani dinanzi la via del
trapasso democratico, graduale, al potere, ma perché attraverso questa strada allarghiamo
e cementiamo le nostre forze, superiamo la fase precedente di piccolo gruppo
"giacobino", e, con ciò, ci predisponiamo al meglio per l’azione
rivoluzionaria di massa a venire. Scaviamo come si deve le opportune trincee per lo
scontro che ci dovrà essere, non ci sogniamo affatto di esorcizzarlo con stupide
chiacchiere sulla conquista progressiva di "contropoteri" e
"casematte" all’interno del sistema borghese. Nessun luciomagrismo, per
carità di dio...
La neonata Internazionale Comunista, ponendosi al suo 2°
congresso (1920) la questione parlamentare, registrava la venuta a esaurimento di questa
prima fase.
Nelle tesi di Lenin (che, con stretta coerenza, non
s’intitolano "sulla tattica", ma "sui partiti comunisti e il
parlamentarismo") si legge:
"La posizione della Terza Internazionale verso il
parlamentarismo non è determinata da una pura e semplice nuova teoria, ma dal mutamento
avvenuto nel ruolo del parlamento. Nell’epoca passata, il parlamento, come
strumento del capitalismo in ascesa, svolgeva, in una certa misura, un’opera storicamente
progressiva". Per questo "la partecipazione al parlamento era considerata
(dai marxisti, n,) dal punto di vista dello sviluppo della coscienza di classe,
cioè del risveglio nel proletariato dell’odio di classe contro la classe
dominante"; quindi, come "sfruttamento dei parlamenti borghesi a fini di
agitazione" (e giammai, neppure allora, di cammino comune con altre classi sulla
via del riformismo organico, che è altra cosa dalla lotta per strappare riforme
utili all’esercito di classe in vista dell’obiettivo rivoluzionario).
Quale, da allora, il cambiamento di ruolo del parlamento e, in
corrispondenza di ciò, del tipo d’intervento dei comunisti?
"Nelle condizioni attuali di imperialismo sfrenato
(..) le riforme parlamentari, private di ogni sistematicità, organicità e consistenza,
perdono ogni importanza pratica per le masse lavoratrici. Come l’intera società
borghese, così il parlamentarismo perde la sua stabilità. Il brusco passaggio
dall’epoca organica all’epoca critica (della società borghese, n.) crea le basi
per la nuova tattica del proletariato in campo parlamentare (..) Oggi, per i
comunisti, il parlamento non può essere in nessun caso l’arena della lotta per le
riforme, per il miglioramento della situazione della classe operaia, come era il caso in
certi momenti del periodo passato. Il centro di gravità della vita politica si è oggi
totalmente e definitivamente spostato al di là dei confini del parlamento."
(1920 e non 1996, allorché un Bertinotti scopre che l’epoca
delle riforme è finita e ne desume che, proprio per ciò, bisogna fare del parlamento
quel che non è più né mai potrà essere, cioè il centro di gravità di uno sviluppo
della politica in senso democratico-riformista; cosa, del resto, mai verificatasi.)
Se ne deriva che "compito storico immediato della classe
operaia è perciò strappare questi apparati dalle mani delle classi dominanti, di spezzarli,
distruggerli e sostituirli con nuovi organi di potere proletari (..) Al vecchio
parlamentarismo conciliante (dei socialdemocratici, n.) subentra il nuovo
parlamentarismo (in quanto tattica, n.) inteso come uno dei mezzi per la
distruzione del parlamentarismo in generale".
(In questo breve inserto volutamente non tratteremo della discussione
tra Lenin e Bordiga, sostenitore quest’ultimo dell’impraticabilità del
parlamentarismo rivoluzionario preconizzato da Lenin a tal fine. Non perché vogliamo
eludere questo tema, della massima importanza, ma perché spazio e situazioni in gioco ci
obbligano qui, prima di dettagliare sulle discussioni di modalità tattiche, a centrare il
discorso sugli assi di principio preposti alla tattica stessa. E non v’ha dubbio che
su tali assi non vi è traccia della benché minima differenziazione tra Lenin e Bordiga.
La speculazione delle facce cornee attuali sull’"estremismo infantile" di
Bordiga per accreditare sé stessi come seguaci del "concretismo realista" di
Lenin naufraga di fronte ad una lettura anche superficiale di qualsiasi paragrafo od anche
semplice riga delle Tesi di Lenin. Se un Lenin poteva, a ragione o a torto, imputare a
Bordiga un neo d’infantilismo in materia di tattica parlamentare, ha con anticipo
qualificato come putrida carogna, e non semplice demente senile, chiunque stia
dalla parte del parlamentarismo "in generale" e se ne faccia addirittura
paladino.)
Le Tesi dell’IC fissano ferreamente i seguenti cardini:
l) Punto di principio permanente: "Il comunismo nega il
parlamentarismo come forma della società futura, lo nega come forma della dittatura di
classe del proletariato. Nega la possibilità di conquistare durevolmente i parlamenti, si
propone di distruggere il parlamento. Non si può dunque parlare che di una utilizzazione
degli istituti statali borghesi al fine di distruggerli. In questo e soltanto (sottolineato
nelle Tesi, n.) in questo senso la questione può essere posta";
2) Idem: "Il più importante metodo di lotta del
proletariato contro la borghesia, cioè contro il potere statale, è prima di tutto il
metodo dell’azione di massa", caratterizzata "dall’elevarsi delle
piccole lotte parziali a lotta generale per l’abbattimento dell’ordine
capitalista in generale";
3) Punto derivato di tattica (al 1920): "in questa lotta di
massa, che si svolge in guerra civile, il partito-guida del proletariato deve consolidare
tutte le posizioni legali, trasformandole in punti di appoggio sussidiari e subordinandoli
al piano della campagna principale, la campagna della lotta di massa"; in questi
punti d’appoggio può rientrare l’attività elettorale-parlamentare in
quanto "agitazione rivoluzionaria dalla tribuna parlamentare";
d’altra parte, dal riconoscimento in linea di principio di tale orientamento tattico
"non segue affatto il riconoscimento assoluto della necessità della partecipazione
in ogni circostanza a date elezioni e sedute del parlamento". Ciò che
dev’essere un dato permanente è la finalità cui la tattica dev’essere
chiamata a ubbidire;
4) Premessa della tattica: l’esistenza di un partito
comunista forte, centralizzato, in grado di maneggiarla ai propri fini (tattica-piano, non
tattica-processo autonomo e spontaneo). Ricordiamo di sfuggita solo alcune delle
indicazioni delle Tesi in proposito: controllo assoluto del partito su tutta
l’attività parlamentare; candidature non di professionisti della politica e
"personalità di richiamo", ma di agitatori e capi delle masse che "devono
tenersi in ogni momento a disposizione dell’organizzazione comunista per qualunque
lavoro di propaganda nel paese"; piena subordinazione dell’attività
parlamentare degli eletti all’azione extraparlamentare del partito; obbligo di
combinare il lavoro legale con l’illegale; uso della tribuna parlamentare "per
smascherare non soltanto la borghesia e i suoi tirapiedi ufficiali, ma anche i
socialpatrioti e i riformisti", etc.
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Da Lenin a Togliatti a D'Alema: dal partito comunista al partito di "sinistra" della borghesia.
In anni successivi, di rinculo del movimento
rivoluzionario internazionale, il ventaglio delle possibilità di utilizzazione degli
istituti borghesi venne ad allargarsi sino a ventilare la possibilità di forme
"intermedie" costituenti un "ponte" tra forma istituzionale borghese e
dittatura del proletariato, tra partiti "operai"-borghesi e partito comunista;
in breve: tra democrazia e socialismo. La pratica (al di là delle accorte formulazioni
teoriche) di certo "fronte unico" e, peggio, del "governo operaio"
manifestava l’inizio di un passaggio dal campo tattico a quello strategico quanto
all’uso degli istituti (democratici) borghesi pur restando fermo l’orizzonte di
riferimento: il socialismo vincerà a patto di passar sopra il cadavere del
parlamentarismo e della democrazia (senza bisogno di aggiungervi "borghesi", dal
momento che per principio si escludono parlamentarismi e democrazie socialiste).
Col periodo dei "fronti popolari" e, successivamente,
con la seconda guerra mondiale, anche questo punto di riferimento verbale -via via sempre
più deprivato di sostanza- veniva progressivamente meno. Rovesciando i termini in cui la
questione tattica era stata posta nel ’20, lo stalinismo veniva a dire che i
parlamenti borghesi potevano essere stabilmente conquistati e "trasformati" (non
più distrutti) allargando la sfera della "democrazia".
In Italia e per tutto l’Occidente (fedele a Mosca, ma già
coi germi di una propria, originale, nazionale "via la socialismo")
Togliatti traduceva tutto ciò nei termini della famosa "democrazia
progressiva": "Al fondo di questa impostazione -spiegano gli agiografi- è la
più vasta politica di alleanze, guidata dal proletariato. Il proletariato ha il
compito di portare a compimento la rivoluzione (borghese, n.) per una democrazia ampia
e popolare, legando a sé le masse dei contadini, piccoli e medi, della piccola
borghesia urbana e rurale, e anche di quella parte della borghesia che è minacciata di
rovina da parte dei monopoli e dei gruppi dominanti del capitale finanziario" (Piccola
enciclopedia del socialismo e del comunismo di G. Trevisani).
La nuova "via al socialismo", così concepita sul
terreno economico-sociale in opposizione al capitalismo "antidemocratico" dei
monopoli e della finanza per salvarne la "parte sana" popolare e democratica, si
traduceva necessariamente, sul versante della tattica e della strategia politiche, nella
metodica elettorale e parlamentare: a decidere e sanzionare gli sviluppi della
"democrazia progressiva" dev’essere il voto, il libero consenso elettorale;
vale a dire: la messa sul piatto "paritario" degli interessi e del peso
elettorale delle classi sociali "alleate" al proletariato, il commercio con
esse. Alla distanza, col crescere percentuale (e, più, di peso specifico e specifici
appetiti) di queste classi: il legarsi ad esse del proletariato e non viceversa,
come nella premessa verbale di partenza.
Il partito "comunista", per conquistare i voti
necessari allo sviluppo della "democrazia progressiva", doveva farsi interprete
di queste classi dentro e secondo le regole della società borghese, farsene non solo
interprete, ma parte attiva, affondare le proprie radici nel tessuto degli
interessi economici ad esse relative. E, poiché non si può pretendere di assicurare lo
sviluppo delle classi medie e della borghesia produttiva (in particolare, poi, nella fase
imperialista del capitale!) senza maneggiare le leve dello Stato, ecco la necessità di
entrare nei gangli dello Stato, dell’economia capitalista. Sin dagli anni cinquanta
è cominciata quest’opera di penetrazione e partecipazione attiva del PCI nella
gestione capitalista della società, attraverso un progressivo passaggio delle leve
decisive del partito dai vecchi quadri proletari ad una sfornata di imprenditori, manager,
"esperti", di cui sono figli legittimi gli attuali clintoniani del PDS.
Gli scarni gruppi comunisti "ortodossi" tuttora
presenti sulla scena si ostinarono ad opporre a questa deriva le posizioni
dell’Internazionale di Lenin e della Sinistra. Talora con un limite evidente: la
contrapposizione di tesi a tesi, rivendicando alle proprie la fedeltà alla strada maestra
e rimproverando a quelle opposte la fuoriuscita da essa, non di rado pareva fissarsi in
astratto su una questione di coerenza (o meno) letterale ai principi secondo
un’ottica propagandistica alquanto idealista. Una buona fetta del sentimento corrente
tra i rivoluzionari era così formulabile: una volta dimostrata la difformità tra il
nuovo verbo togliattiano, putacaso, e le... tavole della legge di Lenin, le nostre
posizioni dovranno pur farsi spazio tra le masse "ingannate" dai
neo-revisionisti.
Non era affatto così semplice. Le vere e proprie mutazioni
introdotte non solo nella tattica, ma nella strategia e negli stessi principi non potevano
intendersi in questo chiuso. Dovevano, bensì, intendersi quali riflesso ed elemento
agente di una situazione storica internazionale completamente mutata a sfavore delle
forze proletarie rivoluzionarie, una situazione globalmente controrivoluzionaria non
solo sul terreno della dégringolade dei principi e della politica imputabile ad
una determinata "direzione" da sostituire, ma di un complessivo corso materiale
di forze sotto il dominio del capitale. La direzione tralignata degli stalinisti esprimeva
(e rafforzava) questo corso oggettivo e le masse con essa e dietro di essa (cioè, in
sostanza, dietro il capitale). Poco valeva sbattere sotto gli occhi di questi proletari
gli scritti di Lenin e "dimostrarli" incompatibili con quelli di un Togliatti:
ad essi realmente pareva che le situazioni (ed i compiti relativi) fossero
radicalmente mutati, a misura che essi stessi si erano realmente separati dal
proprio essere rivoluzionari di quel dì. Il "nuovo" di Togliatti doveva,
perciò, sembrare ad essi ben più congruo delle "fantasie" dei pochi
rivoluzionari "astratti", precisamente perché il partito "di lotta e di
governo" togliattiano offriva ai proletari delle tangibili contropartite materiali
all’interno della società borghese presente, mentre mancava ai rivoluzionari ogni
possibilità di spostare all’immediato il terreno di scontro sul piano
rivoluzionario, essendone state schiacciate (dallo stalinismo in primis) le
possibilità.
Il difficile lavoro di fondo dei rivoluzionari non poteva
limitarsi alla difesa letteraria delle "formule" del ’20 perché non solo
si era fuoriusciti dal terreno di allora dell’applicazione tattica dei
principi, ma gli stessi principi erano stati rovesciati e non solo a livello di direzioni
"traditrici" e/o corrotte, ma delle basi oggettive stesse dello svolgimento
provvisorio dello scontro di classe e di quelle (ad esse corrispondenti) della
soggettività delle masse. Una volta spentasi l’ondata rivoluzionaria (non quella
della lotta di classe "in generale", che è fatto diverso) ed una volta
riassunte nelle mani del capitalismo -sappiamo benissimo attraverso quali strade di
sangue!- le condizioni del proprio rilancio economico, a forte concentrazione
metropolitana, ai rivoluzionari veniva tagliata l’erba sotto i piedi per quel che
concerneva una possibile immediata loro influenza sulle masse. Bisognava, in qualche modo,
ricominciare daccapo, confrontando e ribadendo i principi a petto della nuova situazione
oggettiva e soggettiva, da considerarsi come destinata a durare per tutto un lungo ciclo,
e ad essi collegando la prospettiva -per "intanto"- della futura ed inevitabile
andata in crisi delle prospettiva capitalista (così come di quella
"operaio"-borghese da essa dipendente) e, con ciò, della riapparizione delle
condizioni oggettive della ripresa comunista, al quale una minoranza numericamente
insignificante di comunisti sin d’ora si collegava in quanto fattore soggettivo.
Insomma: il campo di competizione con il riformismo "comunista" non poteva
essere, all’immediato, quello della "conquista della direzione",
"delle masse" (come nelle fantasie di certo pseudo-trotzkismo traffichino che ne
combinò più di Bertoldo nel tentativo di farsi strada tra le masse a colpi di tattica:
la più clamorosa quella dell’entrismo nel partito di Saragat per portare al
parlamento dei veri... rivoluzionari; degna anticipazione delle attuali bertinotteidi
della Quarta).
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Ma lo spettro del comunismo non è morto...
Con gli anni settanta le attese dei comunisti
cominciano a prender materialmente corpo, a cominciare innanzitutto dal coté oggettivo
(al quale quello soggettivo non solo non corrisponde meccanicamente, ma addirittura sembra
contrapporsi, secondo una -per noi- ben spiegabile e deterministica logica). I meccanismi
capitalistici ricominciano a scricchiolare fin nelle metropoli cui non basta uno scarico
dei costi sulla sterminata periferia (nel frattempo possentemente messasi in moto contro
il saccheggio ed il dominio imperialista). La crisi morde alla struttura del
sistema. Con ciò muta verticalmente la situazione del proletariato entro il
sistema stesso: margini residui di tutela possono anche, qua e là e ad andamento
altalenante, continuare a sopravvivere, ma ogni possibilità di stabile e
progressivo ciclo propriamente riformista viene definitivamente meno. Il proletariato non
potrà, ormai, vivere come prima. Lo sappia o meno, lo voglia o meno. E’ questo il
primo oggettivo mattone della ripresa comunista.
Siamo, con ciò, all’inizio del processo. Solo agli
inizi. Primo, perché, nell’ambito di un sistema mondiale, fortemente combinato e
diseguale, qual è quello capitalista, la crisi non è mai di per sé un fenomeno naturale
di esaurimento graduale dell’intero organismo e del suo conseguente venir meno; si
traduce bensì in un esplodere di contraddizioni economiche, sociali e politiche,
incompatibili con la stabilità e la "pace", ma non (sempre "di per
sé") con la possibilità di tenuta e anche di rilancio del sistema (sia pure,
inevitabilmente, a prezzo di drastici tagli chirurgici rivitalizzanti -tipo un terzo
conflitto mondiale- e, al seguito di essi, di sempre maggiori ed incontenibili
contraddizioni). Le metropoli sono in grado di reagire, a patto che il proletariato di
casa sua non sappia scendere in lotta contro di esso e si adatti, invece, a trasformarsi
in rotella subordinata dell’ingranaggio imperialista in cambio di un miserabile (e
spesso solo promesso) piatto di lenticchie. ("Alla situazione di dissesto
dell'ideologia, dell’organizzazione e dell'azione rivoluzionaria è falso rimedio il
fare assegnamento sull'inevitabile progressiva discesa del capitalismo che sarebbe già
iniziata e in fondo alla quale attende la rivoluzione proletaria. La curva del
capitalismo non ha ramo discendente", Bordiga, '51).
E proprio qui interviene il secondo e decisivo punto: il
riformismo "operaio"-borghese di ieri si acconcia, in nome della difesa dei
"nostri" lavoratori, a trasformarsi assai più direttamente in social-sciovinismo,
in macchina da guerra con bandiere nazional-sociali per il proprio capitale. (Diciamo:
assai più direttamente per sottolineare che la novità rispetto alla fase precedente non
sta nel fatto che quest’ultima stesse fuori dalla logica imperialista, ma nel
carattere apparentemente pacifico, normale, del suo realizzarsi attraverso la semplice
logica "naturale" delle leggi di mercato, laddove qui il conflitto e
l’aggressione all’esterno diventano un fatto fisico, di materiale mobilitazione
bellicista. Per spiegarci: Togliatti poteva convenientemente darla a bere sulla comunione
tra capacità competitiva del capitalismo italiano ed una sua "politica di pace"
in campo internazionale per legare il proletariato nostrano alla catena del proprio
padrone in cambio di qualche buona braciola; già un D’Alema, per difendere
l’osso, deve portare il lavoratore a schierarsi, solo "moralmente" per ora
-poi si vedrà-, con la politica aggressiva delle portaerei e delle bombe delegate a
difendere in Iraq, in Somalia, in Albania, in Jugoslavia etc. il vessillo
dell’economia nazionale).
Questa funzione del "riformismo" (se ancora si può
chiamare così) trova un terreno fertile nella situazione determinatasi nel corso del
ciclo precedente in seno alla classe. Le briciole delibate, ed anche, in parte, capitalizzate
negli anni dell’"irresistibile ascesa pacifica" del capitalismo,
costituiscono in qualche modo un deterrente rispetto ad un’immediata ricollocazione
di classe, a misura che il corso della loro eliminazione avviene con gradualità,
interruzioni e talora persino provvisorissime reinversioni di marcia e non in maniera
traumatica, dando l’idea che il passato possa essere rimesso a nuovo ("più
grande e più bello che pria", come diceva il Nerone petroliniano della Roma
combusta). E ciò tanto più in quanto manchi un’avanguardia comunista in grado di
indicare il senso di marcia, del capitale e nostro.
Il secondo potente fattore di conservazione controrivoluzionaria
consiste nella trasformazione profonda intervenuta nella figura dei partiti
"riformisti". Per prime le socialdemocrazie tradizionali hanno perso per strada
ogni esplicita caratterizzazione proletaria, anche solo esteriore. In Italia, per vari
motivi, ciò si è verificato piuttosto tardi (agli inizi degli anni sessanta, con la
svolta dell’"apertura a sinistra" DC e la scissione dal PSI della sinistra
andata a costituire il PSIUP prima di dissolversi). Di contro, i partiti
"comunisti" sembravano mantenere una loro forte caratterizzazione di classe, il
che era vero in quanto continuazione riveduta e corretta del modello
"operaio"-borghese; ma si trattava solo di un ritardo (frutto degenerato degli
ultimi fili con la lontana tradizione rivoluzionaria). Era inesorabile, però, che il
poggiar sempre più stabilmente i piedi sul terreno della società borghese, sino a
mettervi stabili radici, portasse all’esaurimento dell’originaria connotazione
di classe, non solo dal punto di vista teorico-programmatico (da un bel po’
definitivamente compromesso), ma da quello, per così dire, genetico. Non si può,
infatti, diluire indefinitamente il programma, aprendo agli interessi di altre classi,
extra od anche apertamente antiproletarie, preservando un preminente tessuto proletario
interno. Alla fase del PCI togliattiano che ancora coniugava politica borghese e quadro
militante di classe doveva per forza di cose subentrare il "mutamento genetico"
attuale: liquefazione progressiva dei quadri militanti, e tanto più dirigenti, operai,
ingresso a vele spiegate nel partito di nuovi (pessimi) soggetti sociali, passaggio dalla
militanza attiva della base proletaria in forza supina di supporto elettorale. Nel PDS non
solo il proletario si trova sommerso da questi "nuovi soggetti sociali", ma gli
è anche precluso lo spazio di una qualsivoglia seria milizia (le due cose vanno assieme).
Non ci si può immaginare di sfuggire a questa tendenza
inesorabile cogliendo solo una metà del problema (l’ancoraggio agli "interessi
dei lavoratori" e ad una struttura militante di partito) se ci si fa imbracare entro
la cornice di programmi riformisti e binari elettoral-parlamentari. Ne è un esempio
evidente Rifondazione Comunista, nata dalla costola sinistra del vecchio PCI venuto a
morte e partita con grandi velleità da "sinistra dura e pura", per approdare
urgentemente sia ad una politica per nulla dura e batteriologicamente del tutto impura
(sino al blocco operativo di fatto con Dini), sia alla volatilizzazione di ogni
"vecchia" configurazione interna da partito militante e vivo.
Questo non significa né che venga meno il contrasto
destra-sinistra (cioè una differenziazione di interessi e rappresentanze istituzionali
tra le classi), né che sia esclusa una "radicalizzazione" delle forze politiche
cosidette riformiste. Al contrario, è proprio il volatilizzarsi dei "margini
riformisti" del capitale, con la sua crescente necessità di colpire sempre più
direttamente il proletariato anche di casa propria, metropolitano, a rendere inevitabili
ed anche esasperare tali differenziazioni. Sotto quest’aspetto, si può ben ammettere
che corre un solco tra RC, mettiamo, ed il Polo per le libertà, così come ne esiste uno
tra SPD e CDU, Laburisti e Tory e persino tra democratici e repubblicani USA.
Il dato significativo dell’attuale fase non sta qui. Sta nel
fatto che le forze di "sinistra" (del capitale), quelle che in qualche modo
tuttora si richiamano al consenso degli sfruttati, cui devono in qualche modo
corrispondere in solido, sempre meno possono farlo in nome di un programma e di
un’organizzazione, anche solo formalmente, proletaria, di classe, come invece
avveniva per il vecchio riformismo di un Turati o persino di un Togliatti. Lo squallido
"riformismo" odierno in tanto può assumersi le parti degli oppressi in quanto:
a) li consideri come "la parte debole della società", e non una classe
antagonista o comunque agente in proprio; b) ne "rappresenti" gli interessi in
stretta subordinazione agli interessi preminenti delle classi forti borghesi e del proprio
capitalismo nazionale in generale; c) si predisponga a dar loro voce per finalità
strettamente imperialistiche, sia pure a tinte "sociali" (sta qui il segreto del
social-patriottismo, del social-sciovinismo di cui parlava Lenin; e su questo la
"sinistra" può ben incocciare con la concorrenza di una destra populista, come
insegnano le esperienze della RSI, di un Peron, di un Le Pen, possibilmente -domani- della
Lega o di settori della stessa Alleanza Nazionale).
La differenza tra "riformismo" e comunismo oggi,
ammoniva Bordiga, non consiste nel fatto che il primo ripudi l’uso dell’azione
diretta, della violenza, ma nella ubbidienza di questi mezzi "estremi" per gli
interessi del proprio capitale, nella sua valenza solo ed esclusivamente controrivoluzionaria.
A questo dettato ubbidiscono non solo i partiti "operai"-borghesi
tradizionali (la cui area è destinata a restringersi con la conversione di buona parte di
essi ad un modello demo-liberale che di operaio non ha più nulla, neppur tra virgolette),
ma le stesse versioni "nuove" di essi (tipo Rifondazione) e persino certe forme
di radicalismo operaista non istituzionale a venire. Ce ne offre un esempio eloquente
certo parlare a tinte forti di interessi di classe del proletariato nazionale che
verrebbe tradito dall’attuale potere borghese, incapace di contrastare la concorrenza
e la "colonizzazione" da parte della concorrenza del capitale altrui (USA,
Germania...). Col che ci si appresta a sollecitare i proletari a risollevare dal fango le
bandiere dei "nostri interessi nazionali" lasciate cadere dalla borghesia.
Nessun accenno all’unità internazionale di classe, ma, in compenso, molto risentito
nazional-capitalismo "operaio". Leggere per credere l’intervento di
Bertinotti alla conferenza programmatica di Rifondazione.
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Il riformismo: un cadavere borghese che va sepolto.
Ricordava Trotzkij: "Tra la democrazia (e
socialdemocrazia, n.) e il fascismo non c’è "differenza di classe". Ciò
significa, di tutta evidenza, che "la democrazia ha una natura borghese, come
il fascismo". La contraddizione tra i due "poli" consiste
nient’affatto in una "contrapposizione di classe di due classi
irriducibili", ma nel fatto ch’essa "implica due diversi sistemi di
dominazione di una medesima classe": il primo che "si appoggia sugli
operai", il secondo sulla piccola-borghesia; il primo che "non può avere
influenza senza le organizzazioni operaie di massa", il secondo che "non può
consolidare il suo potere se non distruggendo le organizzazioni operaie" (senza
escludere che "tra il sistema democratico e il sistema fascista si stabilisca per un
determinato periodo un regime transitorio con le caratteristiche dell’uno e
dell’altro regime").
Queste righe, che datano all’inizio degli anni trenta,
cadevano in una situazione in cui la stessa socialdemocrazia presentava una pregnante
composizione operaia e tanto più la presentava il partito comunista, per quanto
stalinizzato (definito da Trotzkij, non del tutto correttamente, come "un partito
proletario e antiborghese, benché diretto in modo sbagliato"). La diagnosi era però
inequivoca: "La socialdemocrazia, nonostante la sua composizione operaia, è un
partito interamente borghese", che, in condizioni "normali", è
diretto abilmente dal punto di vista dei fini borghesi, ma non vale più nulla in
un periodo di crisi sociale. (...) Se la malattia del capitalismo significa malattia della
socialdemocrazia, l’approssimarsi della morte del capitalismo non può non
significare la morte imminente della socialdemocrazia. Il partito che si appoggia sugli
operai, ma serve la borghesia, in un periodo di estremo acutizzarsi della lotta di
classe, non può non sentire il soffio della tomba". Il necessario ridispiegarsi
della lotta di classe significa, per i comunisti, svellere gli operai dalla loro
subordinazione alla borghesia e, quindi, al suo servo riformista; in questo "il punto
di partenza non è l’astrazione dello Stato democratico, sono le organizzazioni
vive del proletariato stesso in cui è concentrata tutta la sua esperienza e che
preparano il suo avvenire".
Oggi, 1996, dobbiamo registrare che l’incapacità
verificatasi di mettere a morte il capitalismo, e con esso il riformismo, ha portato, nel
corso di un ciclo di ripresa della borghesia che avviene nell’ulteriore
imputridimento imperialista, a un ulteriore passaggio in discesa delle forze
"riformiste", "alla più terribile capitolazione politica che si possa
immaginare": lo sminamento delle "organizzazioni vive" del
proletariato, l’annullamento dei materiali connotati di classe presenti nei
vecchi partiti "operai" (prima quello socialdemocratico, poi quello
"comunista"). Perciò non sussistono più le vecchie basi del
"fronteunitarismo" comunista, che su ciò si basava. La "tattica del fronte
unico", perfettamente plausibile allora, deve per forza di cose mutar di registro.
Significa che essa deve essere negata? No, ma significa
che essa deve puntare alla rivitalizzazione od anche, francamente, alla ricostituzione
delle organizzazioni vive del proletariato oggi assopite o dissolte. Tanto più le
forze "riformiste" hanno concorso a smantellare tali organizzazioni, tanto più
ne cresce l’urgenza oggettiva e ne crescerà la spinta soggettiva nella massa (di cui
vanno intesi tutti i pur minimi segnali). Il "restringersi degli spazi
riformisti", di cui parla in modo del tutto inconcludente un Bertinotti, ha un senso
qualora s’intenda che a tal fine deve indirizzarsi il lavoro dei comunisti e non su
presunte "desistenze" con le forze "democratiche" (proprio perché la
democrazia costituisce uno spazio riformista sempre più fantasma) a discapito di un
programma e di un’organizzazione vere della classe (come avviene allorché si
mobilitano le residue forze di classe per liquefarle a favore di soluzioni
elettoral-parlamentari nel segno di... Dini).
Dicevano già le Tesi del ’20: "Il centro di
gravità della vita politica si è oggi totalmente e definitivamente spostato al di
là dei confini del parlamento". Se era vero nel ’20, è di lampante
evidenza oggi. Il che significa che chi, come partito, rimane entro quei confini lo fa servendo
il capitale, lo intenda o meno. Chi opera entro quei confini non può essere una forza
che usa una determinata "tattica" per fini presuntemente comunisti; è una forza
per principio subordinata ai fini della conservazione capitalista e la riprova
evidente di ciò sta nella sua negazione, nel suo pratico sabotaggio
dell’organizzazione viva ed autonoma di classe. "I problemi storici di oggi li
scioglie non la legalità ma la forza. Non si vince la forza che con una maggiore forza.
Non si distrugge la dittatura che con una più solida dittatura. E’ poco dire che
questo sporco istituto del parlamento non serve a noi. Esso non serve più a nessuno"
(Bordiga, 1953). Di fatto, le "decisioni parlamentari" attuali non si fucinano
nel parlamento, ma derivano da direttive che stanno al di fuori di esso e che il
parlamento è chiamato unicamente a ratificare. Queste direttive promanano direttamente
dai sempre più colossali centro di potere dell’industria e della finanza, e neppure
più entro uno stretto perimetro nazionale. Il trattato di Maastricht, le direttive del
FMI, lo strapotere dei centri imperialistici maggiori. Ecco chi decide e detta le leggi.
Comprese quelle che impongono ai parlamenti "sovrani" di passare il testimone ad
esecutivi "autorevoli" in grado di fare a meno degli intoppi
vetero-parlamentari. Di qui i semipresidenzialismi alla francese su cui un Berlusconi ed
un D’Alema sono chiamati a stringersi la mano e... sottoscrivere. Di qui il
presidenzialismo pieno nelle mani del grande capitale cui la forma istituzionale è
chiamata ad ubbidire... E tutto ciò sarebbe reversibile limitandosi a latrare un po’
più forte stretti alla catena parlamentare?
Noi comunisti, anticipando di fronte ai proletari gli scenari veri su
cui si gioca e tanto più si giocherà in futuro lo scontro di classe, tendiamo a
riannodare il filo spezzato della teoria, della politica, dell’organizzazione del
proletariato rivoluzionario. Negando ogni appoggio suicida (e sudicio) al
"fronte"... centro-sinistro-destro dell’Ulivo. Ma attenti a valorizzare
ogni spinta che, dentro la massa degli sfruttati, ancorché a tutt’oggi politicamente
incatenata entro le maglie "riformiste", esprima un inizio della rottura vera
col capitale, della riorganizzazione delle proprie forze attorno al centro di gravità
reale. Passeremo per "sabotatori" della "sinistra", per complici della
destra? Passate le elezioni i problemi reali verranno al pettine ed imporranno
l’avvio della battaglia vera sul terreno da noi indicato, sia che ci si debba
attrezzare a fronteggiare un governo di destra sia che ci si trovi dinanzi ad un governo
di "sinistra" (!). In quest’ultimo caso, la sbornia della
"vittoria" verrà a presto a smaltimento.
Noi, intanto, non beviamo e chiamiamo chi ci legge a non bere, perché i tempi che
ci attendono richiedono una buona dose di sobrietà preventiva...
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Nullismo astratto o realismo rivoluzionario?
L’obiezione che ci viene costantemente
mossa è la seguente: ma anche ammessi come corretti in linea generale i vostri principi
sul socialismo, la lotta rivoluzionaria etc. etc., com’è possibile non vedere che
-ed anche voi lo ammettete- non siamo in presenza di una situazione rivoluzionaria
purchessia e che, intanto, ci troviamo di fronte ad un’offensiva concreta della
destra che va parata? Perché mai questo compito andrebbe escluso in ragione di lontane
prospettive, a tutt’oggi avveniristiche? Non dobbiamo allora difenderci? E perché
mai si dovrebbe escludere, rebus sic stantibus, un "patto di desistenza"
con la sinistra, per quanto borghese? Oppure, spingendoci più in là, un patto organico
di unità tra tutte le forze anti-liberismo selvaggio? Il meno peggio non è meglio del
peggio?
Queste domande sono del tutto legittime, in quanto partono da esigenze
reali, e noi diciamo che sarebbe davvero un guaio se qualcuno, per troppo pretendersi
rivoluzionario, non ne tenesse conto. Tutto quel che abbiamo richiamato qui sopra in
nessun caso può costituire un alibi per scansare tali domande; deve, al contrario,
servire da base per dare ad esse piena risposta.
Dunque: per prima cosa è vero che il meno peggio è meglio del
peggio, che una "sinistra" non si presenta programmaticamente di fronte al
proletariato con l’aspetto della contrapposizione frontale che, di regola,
caratterizza la destra. Ma la "scelta" tra i due termini non è quella tra due
situazioni date staticamente una volta per tutte, per definizione. Essa dipende dal
concreto svolgersi (ed ecco che già qui trasbordiamo dall’ambito puramente
elettoralistico) della lotta di classe. Se quest’ultima è forte, cambiano non solo i
rapporti di forza esterni tra gli schieramenti, ma quelli stessi interni allo
schieramento che, in un modo o nell’altro, si riferisce alla classe, sia nel senso di
spingerne più avanti il motore (persino quello riformista, che pur noi qualifichiamo come
irreversibilmente borghese), costringendolo ad aderire più strettamente ai bisogni
della classe sia in quello di ridefinizione del ruolo di guida del movimento (che,
ad un certo grado di calore, si rende incompatibile con la permanenza alla testa politica
delle direzioni "riformiste").
Se ci troviamo tra le mani questa "sinistra" a
"rappresentarci" (e questa destra a combatterci) ciò significa esattamente che
un’autonoma forza di classe in grado di pesare decisamente è mancata. Si dirà da
taluni che tale deficit era scontato mancando il partito. Ma lo stesso partito forte e
compatto dipende a sua volta da quel che la classe, nelle condizioni date, è in grado di
gettare sul piatto della lotta. Per questo, pur affermando sempre la nostra assoluta
indipendenza e contrapposizione per rapporto a qualsiasi variante riformista, noi abbiamo
sempre detto ai proletari: primo, prendete in mano le ragioni e la conduzione delle vostre
lotte immediate; secondo (dal momento che tuttora fate affidamento nei vostri partiti
ufficiali), premete sulle vostre direzioni perché esse rispondano di fronte ad esse come
possono e vogliono fare: mettete le vostre direzioni alla prova della vostra capacità di
lotta, dei vostri bisogni.
Non abbiamo mai chiesto ai proletari del PDS e del PRC di
abbandonare pregiudizialmente questi partiti (per la semplice ragione che sarebbe comunque
stata un’indicazione priva di senso e di conseguenze), ma di riprendere la propria
iniziativa e di saggiare su di essa le proprie direzioni.
Oggi, non mutando d’una virgola le nostre posizioni, siamo costretti,
se così si può dire, a far qualcosa di più. Di fronte al contrasto sempre più visibile
tra la direzione di marcia del PDS e del PRC rispetto ai sentimenti di settori non
irrilevanti di proletari, va chiaramente detto che a questi ultimi va indicata una più
vicina prospettiva di rottura con queste forze e di lavoro per un vero partito di
classe (per il quale noi sputiamo il sangue che possiamo: poco, ma non inquinato). Quando
si passa dalle grandi agitazioni per battere in piazza il governo Dini-Berlusconi
all’intruppata per portare al parlamento ed al governo i Dini, i Maccanico, i Segni,
gli Amato, non rimane eccessivo spazio per gli equivoci: o il proletariato accetta di
autodimissionarsi, o deve dar coerenza alla sua azione di ieri rompendo con i sabotatori
di essa.
Non mutano le premesse dell’azione politica, che stanno,
come sempre, nella capacità del proletariato di agire come soggetto vivo, combattente;
cambiano le conseguenze politiche immediate in cui ciò può e deve tradursi. Ed in ogni
caso il costituirsi di una forza politica effettiva, coerentemente orientata verso il
comunismo, non fa venir meno la necessità di saper rivolgersi fronteunitariamente
all’insieme della classe, sino ai suoi settori più arretrati. Più che mai c’è
da lavorare in direzione di chi continua ad aderire al PDS ed al PRC per orientarlo e
dirigerlo.
Contrastare la destra significa, dunque, muoversi sulle proprie
gambe. Significa, per definizione, saper pesare sul terreno extra-parlamentare (quello su
cui con ben altra agilità e spregiudicatezza sa muoversi la destra!). I fatti hanno
dimostrato che i proletari hanno potuto strappare dei risultati solo su questo
terreno, com’è accaduto nel caso del progetto di contro-riforma pensionistica,
bocciato dalla piazza e... promosso successivamente, allorché dalla piazza ci si è
ritirati delegando ai partiti di "sinistra" ed al parlamento la soluzione del
problema. La stessa cosa si è verificata in Francia quando un’ondata di scioperi ha
fermato Juppé, laddove mai l’avrebbero fatto i caporioni parlamentari dello stesso
PCF, ben compresi delle esigenze del capitale nazionale. Dove sta dunque, anche per noi,
il centro di gravità dell’attività politica? E comporta qualcosa scegliersi
l’una o l’altra via nel rapporto tra proletariato e partiti che a esso si
richiamano o a esso si rivolgono?
Il pretesto della lotta contro la destra lasciato gestire ai
riformisti è sempre stato gravido delle più funeste conseguenze per i lavoratori.
L’esperienza del fascismo ne è stata una conferma indiscutibile. Turati e soci
avevano "come" il PCd’I tutti i buoni motivi per opporsi alla violenza
delle bande fasciste. "Come" il PCd’I essi avevano una base proletaria da
difendere (per difendere, con essa, le proprie sorti politiche). Solo che la natura e
la funzione della socialdemocrazia li obbligava a scegliere altri mezzi di
lotta, su cui si misura la differenza coi comunisti: l’efficienza delle battaglie
parlamentari in contrapposizione all’azione diretta, armata del proletariato;
la fiducia nell’intervento "risanatore" dello Stato, a partire dai suoi
reparti armati; la conquista all’antifascismo dell’opinione delle altre classi
democratiche; il contenimento delle spinte operaie "eccessive", suscettibili di
spaventare ed allontanare quel che oggi si direbbe il centro dal campo democratico. Per
combattere contro la destra, il PSI firmò, all’occorrenza, dei patti di
pacificazione col fascismo, rigettando sui soli comunisti la taccia di sovversivismo ed,
anche dopo il delitto Matteotti, raccomandò ai suoi calma e moderazione per non
compromettere la situazione in attesa di un intervento risolutore da parte dello Stato di
Sua Maestà. Sappiamo bene dove questa politica ha condotto!
Per questo i comunisti di allora, svolgendo il massimo di lavoro
fronteunitario verso la massa dei proletari socialisti (e d’ogni altra bandiera)
dissero: per disarmare il fascismo occorre passare sul cadavere della
socialdemocrazia. Vero ieri, vero oggi.
L’attuale ondata di destra non è un fatto né
sporadico né solo italiano. Il reaganismo, il thatcherismo, lo chiracchismo etc. sono il
segno di un’offensiva internazionale della borghesia contro il proletariato
che promana dalle stesse necessità di stretta in cui si trova il capitalismo e dalle
direttive -non nazionali né, peggio, individuali- delle proprie centrali di potere. E si
tratta di un’offensiva tutt’altro che destinata a fermarsi a questo livello.
Siamo solo ad un antipasto per saggiare l’efficienza del nemico. Guai se alla prova
di forza che si prepara ci predisponessimo cedendo ulteriore terreno per "salvare il
salvabile"! Contro la forza di destra può decidere solo una maggior forza di classe;
contro la dittatura della destra solo una maggior dittatura del proletariato! Negare
questa verità significa non lavorare al meno peggio, ma preparare le condizioni di
vittoria del peggio del peggio.
Noi non proponiamo, perciò, la rivoluzione oggi (non
siamo dei buffoni!), ma indichiamo la via sulla quale si può ridare efficienza, sin dalle
più minute lotte immediate, all’esercito di classe per ricostruirne una solida
organizzazione unitaria a scala internazionale, per rifondere in essa la coscienza dei
propri fini, dei propri metodi di lotta. E tutto questo, sin da ora, passa fuori e
contro le pratiche parlamentari, fuori e contro i friabili abbracci
interclassisti che sognano di mettere assieme proletari supersfruttati e supersfruttatori
borghesi ma... democratici, fuori e contro i partiti del "riformismo"
senza riforme che apre la strada alla dittatura borghese sans phrase.
Su ciò noi abbiamo "votato" e chiamiamo i
proletari a "votare".