Abbiamo parlato di esercito e di fronte di classe, ed il nostro riferimento è, si capisce, alla classe proletaria. Tocchiamo così un altro punto chiave, ostico per molti anche tra i più attenti dei nostri interlocutori, ai quali appare sorpassata e limitativa la centralità del proletariato nella battaglia anti-capitalista, una centralità che noi, invece, riaffermiamo.
Due sono, in particolare, i loro argomenti: a) il proletariato si è rivelato, finora, impotente ad assumersi il ruolo di guida della massa degli sfruttati; b) l’emancipazione dal capitalismo non riguarda una singola classe, ma l’umanità nella sua interezza. Su quest’ultimo punto siamo completamente d’accordo, salvo non vedere alcuna opposizione tra i due termini; poiché quando il proletariato è stato effettivamente se stesso (nei suoi grandi testi teorici, nella Comune di Parigi, nell’Ottobre, e -ad un minore grado di intensità e completezza- in tutte le sue lotte di maggior significato, si pensi alla lotta per le 8 ore o a quella per la libertà di associazione), non ha lottato solo "per sé" singolarmente, ma per una emancipazione che è insieme la propria e quella collettiva. È vero, non tutti i "singoli" problemi sono immediatamente, in prima istanza, problemi del proletariato "in sé"; ma è altrettanto vero che tutti i problemi che abbiamo di fronte derivano dal contrasto tra il carattere sociale della produzione e la sua appropriazione privata, tra il profitto e il lavoro salariato, e si riassumono strutturalmente nel contrasto tra i produttori reali della ricchezza sociale e gli espropriatori di essa. In ragione di ciò, il fulcro del contrasto sta nello scontro tra due determinate classi antagoniste attorno alle quali ruotano tutte le "singole", specifiche questioni: borghesia e proletariato.
Prendiamo la questione dell’ambiente. Essa, è evidente, coinvolge l’intera società andando "al di là" del solo proletariato (sebbene solo certi "ecologisti" con la pellaccia da rinoceronti possano scordare che nel mondo i proletari lasciano sul campo, ogni anno, un tributo alla nocività dell’ambiente di lavoro capitalistico pari a 200.000 morti, o addirittura metterli nel mazzo degli inquinatori accanto ai pescecani del capitale). Ma se si va diritti al cuore del problema, risulterà lampante che non c’è, da parte del capitalismo, una "incoscienza" da correggere, che nel suo ambito non ci sono produzioni "pulite" da privilegiare rispetto a quelle sporche, né ci sono, perciò, protocolli giuridici, di Kyoto o di Canicattì, che possano tenere davanti al dato di fatto di un modo di produzione che considera l’ambiente, al pari di ogni altra cosa, massimamente al tempo delle bio-tecnologie, quale campo di creazione del profitto, e del maggior profitto possibile nel più breve arco di tempo possibile. Dunque: ambiente come problema "di tutti", certo; e però un problema che resta insolubile, e che è anzi destinato ad aggravarsi (servono prove?), fintantoché non sarà aggredito e tagliato il nodo strutturale che lo determina; e questo nodo (ancora una volta, il capitalismo come sistema) può essere aggredito e tagliato solo dall’unico fattore oggettivamente antagonista rispetto al capitalismo, che sta nella lotta di chi produce, e di chi riproduce la forza-lavoro, per il profitto. Sta, dunque, nella lotta della massa dei proletari contro la schiavitù capitalistica che, emancipandosi da questa condizione, emancipa tutta l’umanità.
Il magnifico mondo del G-8Il tempo di lavoro operaio (e non) Mentre i salari medi operai in Occidente diminuiscono, il tempo di lavoro medio tende, ad onta di tutte le chiacchiere alla Bertinotti (di un tempo) sulle 35 ore, ad aumentare e a diventare sempre più intenso e variabile. Aumento, forzato o "volontario", degli straordinari. Abbattimento del tasso di assenze dal lavoro. Riduzione forzata o "volontaria" dei giorni di ferie. Riduzione delle festività. Riduzione sistematica dei tempi morti nell’orario di lavoro. Innalzamento dell’età della pensione. Aumento del tempo di trasporto per e dal posto di lavoro. Aumento del doppio lavoro. Incremento della produzione dispersa e della produzione sommersa, in genere in piccole unità produttive in cui si violano sempre gli orari contrattuali… Il furto, l’espropriazione del tempo di lavoro degli operai e dei salariati da parte del capitale-vampiro ha raggiunto il massimo storico di scientificità. E, naturalmente, non ha alcuna intenzione di fermarsi qui. Ecco che, su violenta pressione del Fmi, perfino paesi come l’Argentina e la Russia hanno reintrodotto, o discutono se reintrodurre, una durata legale della giornata lavorativa che può arrivare fino a 12 ore… La lotta dispiegata contro il capitale globale dovrà ricomprendere in sé il rilancio della lotta per la drastica e generalizzata riduzione dell’orario di lavoro alla scala mondiale. |
Elementi sociali diversi dal proletariato, la gioventù studentesca tanto per dire (ammesso, e non concesso, che essa sia oggi, da una qualunque parte, totalmente estranea al mondo del lavoro salariato), possono intuire che le cose, così come stanno, non vanno, e dar vita a proteste magari anche più veementi di quelle di cui sia capace in un dato momento il proletariato "reale" (pensiamo, in questo campo, alle vibranti proteste anti-nucleariste in Germania). Ma, senza nulla togliere al valore di tali lotte, che sentiamo e riconosciamo come nostre, se la macchina della distruzione dell’ambiente non viene attaccata e spezzata nel suo meccanismo motore, non c’è via d’uscita, e le stesse lotte "parziali", per radicali che siano, inesorabilmente rinculano.
Noi non diciamo, perciò: centralità del proletariato così come esso è all’oggi. Volendolo forte e vincente, per sé, cioè rivoluzionario, come potremmo? Non siamo forse noi i primi a pungolarlo col ricordargli la sua attuale nullità politica? No, noi diciamo della centralità del proletariato in senso vero, complessivo, in quanto esso, nel corso della sua maturazione rivoluzionaria, come già è accaduto, e auto-superandosi perfino rispetto alle vette raggiunte in passato, dovrà farsi direttamente e coscientemente carico della somma di questioni sul tappeto; ed in quanto, a loro volta, gli elementi sociali diversi dal proletariato dovranno ritrovarsi, in questa stessa logica, con esso, appoggiandolo ed appoggiandosi ad esso. Solo a questa condizione, che ricomporrà a pieno proletariato e umanità, potremo aver ragione del mostro capitalistico che al presente ci domina.
Ciò vale per tutte le questioni, a cominciare da quella della donna che, non a caso, è emersa e s’è affermata sulla scena storica come movimento di liberazione interno al proletariato e a fianco di esso, e non come moto separato "di genere". E che anche nei suoi più significativi sviluppi recenti, quale la Marcia delle donne 2000, inizia a ricostituirsi sulla base di una critica che, pur con tutte le sue insufficienze, già si proietta oltre il "settorialismo" tentando di afferrare il nesso sociale che lega patriarcalismo e capitalismo, e non casualmente conosce il suo maggiore slancio proprio nei paesi in cui più viva è la ripresa dell’iniziativa sindacale del proletariato e la partecipazione a essa delle donne. La stessa cosa potrebbe dirsi della troppo facilmente dimenticata battaglia avvenuta anni fa in Belgio contro la piaga della pedofilia, che dovette, e poté, risalire per un momento dall’ultimo terminale della bassa manovalanza criminale fino ai suoi "occulti" mandanti arci-criminali annidati nei vertici statuali di un sistema totalmente marcio, solo a misura che il proletariato belga gettò la sua forza sul piatto della bilancia; una battaglia che poi si è afflosciata proprio per il suo ingenuo "ritorno disciplinato" al lavoro. E non è forse vero che la prima seria messa in discussione delle "verità" ufficiali sull’Aids e di tutta la collegata impalcatura di terrorismo sanitario e di medicalizzazione della povertà, così profittevoli per gli interessi di arricchimento e di ordine del grande capitale transnazionale, è avvenuta soltanto quando in Sud Africa, in Brasile e in India, un settore della massa proletaria ha assunto, e usato, il "punto di vista" di scienziati veramente indipendenti come un’arma di lotta anti-imperialistica, un’arma di classe?
Superfluo, crediamo, continuare nella rassegna. La "diversità", la molteplicità dei soggetti e delle ragioni della protesta che si sono incontrati a Seattle e nelle successive "scadenze" provano che nel capitalismo globalizzato ci sono molteplici soggetti oppressi e sfruttati che, per le più diverse ragioni, non possono più convivere con il capitalismo globale. Questo loro incontro è potenzialmente assai fecondo anche in ragione della "iniziale" molteplicità delle spinte, ma innanzitutto in quanto incontro, in quanto ha visto convergere in un dato luogo fisico e politico elementi "in precedenza" sparsi, che segnalano così a se stessi e agli altri di aver bisogno di unirsi. Ora, questo bisogno di unione può trasformarsi in un vero e proprio processo di unificazione e di fusione del fronte di tutti gli sfruttati solo intorno al polo-proletariato; un proletariato che si faccia forte non solo dell’essere la classe produttiva sulle cui spalle sta l’intero edificio sociale, ma dell’essersi finalmente ri-magnetizzato per mezzo della riconquista integrale del suo proprio programma e del suo più genuino spirito di lotta, dell’essersi finalmente ri-organizzato nel suo partito comunista.
Questa "investitura" al proletariato come asse centrale dell’antagonismo al capitalismo non gliel’ha data Marx, né gliela riconferma l’OCI per chi sa quale articolo di fede; gliel’ha data e gliela riconferma la storia della lotta anti-capitalista, la storia delle Internazionali operaie, la storia -possiamo ripeterlo?- della Comune di Parigi, dell’Ottobre e delle rivoluzioni tentate, e di poco "mancate", in Germania, in Ungheria, in Italia, la storia della partecipazione del giovane proletariato di colore a tutti i più grandi moti anti-coloniali; gliel’ha data e gliela riconferma di continuo il capitale stesso (i marxisti si limitano a riconoscerla e trarne tutte le conseguenze pratiche), quel capitalismo che, non a caso, con i suoi funzionari del G-8, sta facendo il possibile e l’impossibile per tenere lontani i proletari, e dei proletari ancora quanto mai intorpiditi!, dalle tentazioni di Genova, della Genova proletaria di cui si ricorda ancora, da parte dei nostri nemici, il "soprassalto" del luglio 1960, e di cui s’è potuto vedere negli scorsi giorni la forza di reazione degli operai dell’Ilva…
Ma se tutto questo è vero, allora la centralità nella lotta al capitalismo globalizzato del proletariato globalizzato riorganizzato "in classe, e quindi in partito", è tutto fuorché, come temono taluni, limitativa. Al contrario, essa costituisce una delle condizioni fondamentali per la piena espressione centralizzata (dunque massimamente efficace) di tutte le istanze e le "singole" lotte emancipative, tanto di quelle immediatamente "sue" proprie, quanto di quelle che riguardano, coinvolgendolo comunque per primo, l’intera umanità.