Da un lato, pieno di botte contro i manifestanti "anti-globalizzazione". Dall’altro, tentativi di "dialogo" da parte di settori delle istituzioni borghesi nei confronti del movimento No Global.
Sarebbe sbagliato leggere questi due aspetti della politica dei governi imperialisti come contraddittori tra loro, o, peggio, illudersi che si tratti di dialettizzarsi con la parte buona della borghesia e delle sue istituzioni per sconfiggere quella più retriva e reazionaria. Si tratta invece di prendere atto che la risposta alla contestazione "anti-globalizzazione" da parte della democrazia imperialista si muove su diversi piani: con la tradizionale combinazione di carote e bastone, che però -attenzione- va trasformandosi vieppiù in... bastone e carote.
Tutto ciò impone al movimento uno sforzo ulteriore nella individuazione delle cause di fondo della mondializzazione capitalistica e nella definizione degli obiettivi da perseguire. Passaggio decisivo questo anche per contrastare in maniera efficace la crescente repressione: se sapremo coinvolgere nella mobilitazione tutte le vittime della globalizzazione, se sapremo dimostrare che il movimento No Global si batte per attaccare alla radice la causa dei mali di cui sono colpiti tutti gli oppressi, allora sarà possibile trasformare ogni azione repressiva delle istituzioni borghesi in un boomerang di odio e di organizzazione crescente contro il dominio capitalistico e sarà più agevole rispondere anche agli apparati repressivi dello stato.
Le brutali azioni repressive dello stato messe in atto a Napoli, durante la mobilitazione conclusiva contro il Global Forum, non sono state un "incidente di percorso". Tutta la dinamica avvenuta in piazza e prima indica che l’aggressione era stata scientificamente preparata ed il massacro di botte eseguito con tecnica militare preordinata. La piazza, già presidiata in tutti i lati che conducevano verso la sede del vertice, è stata sigillata quando la manifestazione cominciava a defluire. Se l’obiettivo fosse stato, come sostenuto dal questore, quello di impedire che il corteo dilagasse nella piazza dove aveva sede il vertice ufficiale, si sarebbe lasciato a maggior ragione una via di sfogo alternativa per disperdere i manifestanti. Né risulta credibile che si volesse colpire i presunti "facinorosi" intenzionati a sfondare i cordoni polizieschi che impedivano alla delegazione, peraltro concordata, di raggiungere la sede del vertice. I colpi di poliziotti carabinieri e finanzieri sono stati indirizzati, infatti, in maniera veramente democratica, contro qualunque cosa si muovesse in piazza (ragazzi, anziani, donne, giornalisti... e persino poliziotti in borghese) con l’intento di terrorizzare chiunque si trovava in quel posto dove non avrebbe mai dovuto essere.
Aggiungiamo che la polizia napoletana, con la endemica effervescenza di mobilitazioni che caratterizzano questa piazza, ha dimostrato di possedere una perizia tutta particolare nel saper gestire in maniera soft manifestazioni anche molto combattive, quando ha interesse a non farle degenerare. Evidentemente gli ordini, e sono stati ordini politici presi non in sede locale, erano quelli di dare una lezione che servisse da monito non solo per i manifestanti accorsi a Napoli, ma per tutti i potenziali contestatori futuri dei Global Forum.
Di solito nei vertici dei briganti della Terra non si decide un bel niente o, al massimo, si sancisce quanto già concordato nelle sessioni preparatorie. Per i governanti degli stati imperialisti non è tuttavia tollerabile subire delle plateali contestazioni come avvenuto a Seattle o a Praga e Nizza. Proprio l’amplificazione mediatica data ai vertici internazionali e la presentazione di essi come le sedi in cui si decide quale indirizzo dare alla globalizzazione per il bene di tutti, rende più emblematiche ed incisive le contestuali mobilitazioni. Anche chi materialmente non partecipa alle manifestazioni nelle città che ospitano i vertici "scopre" che ci sono altri soggetti che vanno a denunciare e a lottare contro gli stessi effetti della globalizzazione patiti sulla propria pelle, "scopre" che è possibile non subire passivamente tali conseguenze e che i nemici contro cui scontrarsi sono quei padroni del mondo che dalla globalizzazione traggono benefici e profitti.
Decisamente troppo per una borghesia imperialista che viceversa fa di tutto per dipingere quello attuale, oltre che come il "solo" mondo possibile, anche come il migliore. No, quindi, ad ogni forma di manifestazione di massa. E se non si riesce ad impedirle preventivamente, che siano trasformate in un occasione di repressione esemplare, tale da allontanare definitivamente gli indecisi dal movimento e se possibile spingere i più determinati verso una sorta di militarizzazione che ne permetta un più agevole isolamento e criminalizzazione. Le dichiarazioni e i preparativi per il vertice di Genova sono abbastanza esemplificative di quanto la linea emersa a Davos (dove sono stati schierati i carri armati) e a Napoli non sia un dato occasionale ma la linea di condotta che gli stati intendono seguire contro la contestazione della globalizzazione.
L’opera di destrutturazione del nascente movimento "anti-globalizzazione" non passa solo attraverso l’uso della repressione. Essa avanza anche attraverso il "dialogo" con interlocutori che sono gli stessi stati e le istituzioni finanziarie internazionali a scegliersi. Soggetti che servono a dare corpo all’immagine di un movimento diviso tra "propositivi" e "nichilisti", tra pacifici e violenti. Chi è disposto a collocarsi sul primo terreno, a trasformarsi in un apparato semi-istituzionale di "sostegno critico" alla mondializzazione, viene riconosciuto come legittimo rappresentante di un movimento fatto ad uso e consumo delle potenze imperialiste, oppure da usare nella lotta contro i propri concorrenti. Questi settori sono, non solo tutelati, ma anche incoraggiati e sostenuti finanziariamente in maniera più o meno esplicita.
Il loro uso da parte dei governi imperialisti lo abbiamo visto sperimentare anche a Napoli. Sfruttando gli evidenti aspetti evanescenti dello stesso tema del summit napoletano ("L’E-governament nella Pubblica Amministrazione"), alcuni esponenti "intelligenti" del governo, rivolgendosi ai contestatori, ascrivevano l’incontro napoletano "nella cornice dialogativa e concertativa di Porto Alegre e non nel muro contro muro di Praga, Nizza e Davos…" Tant’è che nei primi giorni di contestazioni al vertice, le istituzioni hanno blandito e tollerato le proteste quando queste si sono limitate ad episodi simbolici o goliardici; parimenti venivano offerte passerelle mass-mediatiche agli organizzatori del controvertice e lusinghe verso alcuni settori come il no-profit, il volontariato ed il terzo settore.
Quando però, come nella manifestazione del 17 marzo, inizia a farsi strada un unitario percorso di mobilitazione tra lavoratori, precari, giovani, disoccupati, immigrati; quando la denuncia dei crimini del capitalismo diventa, anche se con accentuazioni diverse e qualche semplificazione di troppo, terreno comune di attivizzazione, allora si impone la repressione per inibire e stroncare ogni ripresa della lotta di classe.
È bene ricordare ai distratti che il tutto è stato gestito da quelle stesse forze del governo di "centro-sinistra" indicate da alcuni settori del movimento come interlocutori privilegiati per dare alla globalizzazione un volto più umano e democratico. Sirene dalle quali rischiano di essere incantati gli stessi rappresentanti di Officina 99 (il centro sociale napoletano che è stato la forza motrice della mobilitazione e che si caratterizza per aver conservato, sino ad ora, un’attitudine più militante e classista rispetto ad altri centri sociali italiani).
Essi ritenevano infatti di potersi limitare alle solite innocue scaramucce con le forze dell’ordine per legittimare il proprio presunto antagonismo e partecipare al Forum con una folta delegazione, su cui avevano avuto precedenti assicurazioni. Non a caso sono stati tra i settori più sorpresi da quanto avvenuto, e sono gli stessi che ostinatamente hanno continuato ad accreditare la tesi dell’incidente di percorso. Con buona pace dei discorsi che denunciano una oramai perenne militarizzazione del territorio da parte del potere statale, si finisce poi per essere vittime di pericolose illusioni, da una parte su quei poteri e forze istituzionali che si dice di voler combattere, e dall’altra sulla forza del movimento.
Il movimento "anti-globalizzazione" deve mettersi in grado di contrastare efficacemente questa unitaria politica dei governi occidentali tesa al suo svuotamento. I principali mezzi per reagire a questi pericoli ce li fornisce potenzialmente lo stesso capitalismo. Esso, infatti, col suo procedere verso un più blindato e vampiresco accentramento, è destinato a suscitare ulteriori reazioni contro gli effetti del suo dominio totalitario. Tutto ciò renderà arduo per la democrazia imperialista continuare a presentarsi come unità e sintesi degli interessi di tutti i cittadini. In questo contesto diventa oggettivamente più evidente il legame delle varie azioni repressive con l’unitaria politica di difesa del dominio di classe capitalistico e si pongono, almeno potenzialmente, le condizioni concrete per un terreno di denuncia e, quindi, di vera delegittimazione del ruolo "neutrale" della democrazia.
Naturalmente un’impostazione di questo tipo per una lotta a fondo contro la repressione non è compatibile né con quanti vorrebbero "risollevare le bandiere della democrazia lasciate cadere nel fango…" né con quanti limitano la denuncia e la lotta contro il bastone borghese al cerchio dei repressi o dei già "coscienti".
Al contrario, ed è questo un altro limite del cosiddetto movimento "anti-globalizzazione" che va superato in avanti, dobbiamo orientare e proiettare l’iniziativa di contro-informazione e di chiamata alla lotta verso tutto il proletariato e gli altri strati sociali colpiti dall’insieme delle politiche borghesi, rompendo, per davvero, ogni vocazione o suggestione di autosufficienza verso i problemi e le difficoltà dello scontro di classe. La lotta di massa contro la repressione è possibile, è necessaria. È l’unica prospettiva che può contrastare materialmente il procedere dell’azione dell’avversario di classe, e fargli pagare prezzi politici ogni volta che esso colpisce, non solo tra le vittime della repressione, ma in tutti quegli strati e settori della società che lo stato ed i governi opprimono.
Per farci capire meglio facciamo l’esempio relativo alla vicenda delle lotte contro le discariche, gli inceneritori e l’emergenza rifiuti (che qualcosa a che vedere con la globalizzazione forse ce l’ha...) avvenuta in Campania nella fase preparatoria e durante lo svolgimento del Global Forum: questi settori di proletariato non hanno forse assaggiato sulla propria pelle i manganelli dello stato non meno dei manifestanti contro la globalizzazione? È sintomatico che i temi di questa mobilitazione proletaria e della repressione da essa subìta siano stati totalmente assenti dalle tematiche della mobilitazione e dai vari Forum alternativi tenuti in quei giorni.
Se sapremo guardarci intorno e vedere quali sono i soggetti colpiti dalla globalizzazione, in che modo essi reagiscono e cercano di difendersi dagli effetti che li colpiscono direttamente, anche quando non partecipano e non percepiscono ancora di subire i frutti del dominio capitalistico; se sapremo attrarli nel più generale movimento di lotta contro la globalizzazione, avremo già fatto un buon pezzo di lotta contro la repressione, ed avremo messo le basi materiali per affrontarla su un terreno che vada oltre la sfida dei piccoli gruppi che rispondono solo a se stessi.
I prossimi appuntamenti "anti-globalizzazione", l’organizzazione di una difesa proletaria dalla politica ("interna" ed "estera") del governo Berlusconi, il lavoro di riorganizzazione di operai, precari ed immigrati costituiranno le occasioni per un proficuo impegno militante e di lotta a cui saremo chiamati.