Batterci per tornare ai tanti piccoli 
mondi perduti del pre-capitalismo, 
o per conquistare una nuova, vera
 comunità umana senza frontiere?


"Come ci rendiamo conto che nessuna questione è isolata -dice ancora il Manifesto per Seattle-, sia esso lo sfruttamento dei lavoratori, la rovina economica degli agricoltori, i programmi di "sviluppo" che fanno sloggiare le popolazioni indigene o la distruzione del nostro ambiente, così ci rendiamo anche conto che dobbiamo agire insieme e unificare le nostre lotte contro le istituzioni sociali, politiche ed economiche del sistema capitalistico" per "costruire un ordine sociale migliore fondato sull’organizzazione dal basso".

È chiaro, dunque, almeno alla componente più radicale di questo movimento, che al di là delle "singole questioni", nessuna delle quali può esser presa e risolta isolatamente, la posta in gioco è unitaria, globale, e richiama alla necessità di un nuovo ordine sociale che soppianti il disordine capitalistico. D’altronde, le nostre lotte contro il capitalismo possono (e devono) agire insieme ed unificarsi solo a ragione che esse abbiano dinanzi a sé, oltre che un nemico comune, anche un comune orizzonte comunitario di liberazione. Ma cosa sarà mai questo "ordine migliore"? Noi lo chiamiamo col suo nome proprio: è il socialismo, una società, a sua volta integrata a scala mondiale, basata sulla produzione collettivamente pianificata a questa scala per i bisogni umani e non per il profitto.

Ci torneremo sopra più avanti, per spiegarci il più possibile. Ora, però, vogliamo notare che la visione immediata di molta parte del "popolo di Seattle" è su questo secondo punto debole e contraddittoria. Secondo molti, alla globalizzazione capitalistica dittatorialmente centralizzata si dovrebbe rispondere, infatti, con "un’economia decentralizzata e una struttura politica fondata sui diritti delle comunità alle risorse e all’autonoma pianificazione del proprio sviluppo, con l’equità e l’autosufficienza come valori fondamentali". Decentramento, autonomia, "autosufficienza" delle e per le "singole" comunità.

Noi la pensiamo in modo diverso. La globalizzazione capitalistica è certamente un male -in quanto capitalismo!-, ma reca in sé la possibilità e la necessità del suo rovesciamento dialettico che sta nella globalizzazione del movimento di emancipazione mondiale. Il capitalismo non si limita a "depredare"; socializza (a suo modo, il peggiore!) la produzione e i produttori; unifica (sotto il proprio dominio, e in modo combinato e diseguale, certo, siamo noi marxisti, se ci è concesso ricordarlo, che lo abbiamo mostrato per primi) il potenziale produttivo mondiale ed i suoi agenti -i proletari o proletarizzati di tutto il pianeta-; crea, cioè, di per sé presupposti tali per cui l’insieme della società mondiale possa riappropriarsi di ciò che essa, col suo lavoro, ha prodotto nei secoli e nei millenni (e di cui è stata privata), per realizzare un globale salto in avanti.

ritorno alla natura?Anche noi, naturalmente, ci indigniamo e ci battiamo contro ogni genere di sopraffazione delle singole comunità espropriate di tutto, ma non ci sogniamo che in futuro un "ordine migliore" ce le restituisca al passato, alla propria separatezza, alla propria arretratezza, a una miserabile autosufficienza chiusa entro i "propri" limiti; così come Marx si indignava e si batteva contro i metodi e i contenuti dell’espropriazione dei liberi produttori diretti del proprio tempo entro i singoli stati nazionali borghesi o contro il nascente colonialismo fuori casa, ma non si sognava di proporre che gli sfruttati venissero riportati ai "bei" tempi passati, bensì li esortava a unificarsi in una lotta via via più vasta per una vita comunitaria socialista.

Se il capitalismo, nel suo slancio espansivo, abbatte tutte le muraglie cinesi, noi non ci proporremo certo di ricostruirle, ma di raccogliere le forze con ciò suscitate per una società mondiale realmente senza più muraglie.

Sin dal suo sorgere il capitalismo, demolendo tutte le preesistenti forme sociali di vita che si è trovato sulla sua strada, ha demolito con ciò un certo tipo di "comunità". L’ha fatto con la brutalità che gli è tipica e per i suoi tipici interessi, anticomunitari per definizione. D’accordo. Ma è anche vero che quelle vecchie forme erano di per sé un intralcio allo sviluppo di una vera più avanzata comunità, e noi non possiamo rimpiangerle. E se anche lo volessimo, nulla potremmo fare per risuscitarle, perché nella storia umana non esistono forme chiuse da preservare in eterno, ma un movimento della società che va verso il proprio allargamento e la propria unificazione. In un senso o nell’altro. Nel senso del capitalismo o in quello del socialismo. Nel senso dell’appropriazione della produzione sociale umana complessiva da parte del profitto privato (cioè di una sola piccola parte, quella sfruttatrice, della società), o della sua gestione collettiva a fini sociali, umani.

Una cosa è dire, ad esempio, che dobbiamo difendere il diritto della più sperduta tribù india a resistere alla sopraffazione capitalista, allo scardinamento violento delle sue forme economiche e culturali (che sono un tutt’uno) di vita comunitaria per quanto primitiva (in ogni caso, lo sappiamo bene, più direttamente umana di quella "proposta" coi dollari e le cannonate dal capitale): su questo pienamente d’accordo; altra cosa, però, è volere che quella tribù abbia il "diritto" di restare confinata al suo miserabile grado di sviluppo, che venga, perciò, esclusa dai più alti risultati mondiali dell’attività umana per rinchiudersi in una sorta di riserva "autosufficiente" e eternamente immobile. No, questo no.

Noi comunisti difendiamo ogni e qualsiasi comunità minacciata dal capitalismo entrando nella sua lotta in quanto è la nostra lotta, ma educandola (ed educandoci) ad associarci assieme in questa lotta per la conquista di spazi più aperti per una comune attività sociale umana. A Seattle una donna aborigena ha espresso a suo modo questo stesso "concetto":

"Se sei venuto solo per aiutarmi, torna pure a casa. Ma se consideri la mia lotta come parte della tua lotta per la sopravvivenza, allora forse possiamo lavorare insieme".

Sì, i comunisti non vanno ad "aiutare" gli altri, pretendendo di "colonizzarli" ai "propri" obiettivi, ma partecipano ad una lotta comune nel corso della quale loro e noi, secondo i modi e i tempi delle proprie esigenze, della propria storia, della propria cultura, ci ritroveremo necessariamente assieme per costruire assieme un nuovo assetto sociale di cui tutti assieme potremo partecipare. Abbattere il capitalismo significa abbattere le "riserve indiane", ben inclusa la nostra ultra-privilegiata riserva bianca.

D’altronde, proprio quando si passa a vedere come potrebbe essere assicurato ad ogni singola comunità il "diritto" alla "propria" autodecisione ed autosufficienza, salta fuori nello stesso movimento una contraddizione. Gran parte delle proposte convergono, infatti, su questo: occorrerebbe mettere un freno alla logica capitalista della globalizzazione, non ci dovrebbe essere invasione di territori altrui, le economie e l’ambiente altrui dovrebbero essere rispettati, così come le relative culture, etc. Questo, in un mondo che il capitalismo ha già reso senza confini (così come, in termini opposti, ma con ancor maggior vigore, sarà per il socialismo). Un’autentica utopìa rivolta verso il passato, che pretende di avere un capitalismo che non sia più capitalismo, e che non può dare sbocchi coerenti alla lotta in corso, ma solo "aiutarla" a implodere e sfilacciarsi in tanti malinconici rivoli.

Poiché, inoltre, contraddizione chiama contraddizione, ecco i non pochi che nel movimento "anti-globalizzazione", magari senza esserne davvero coscienti, sembrano rimpiangere il vecchio mondo smantellato dal procedere del turbo-capitalismo, finire poi quasi sempre egemonizzati da quanti consapevolmente propongono, in "alternativa" ad esso, una linea di contrattazione con il capitalismo così come esso è all’oggi, volta soltanto ad imporgli un qualche limite. Il sogno spesso generoso di un vecchio mondo passato per sempre spiana così la strada al miserabile realismo di certi finti "contestatori" di sua maestà (il mercato), che propongono di andare a "trattare" con gli esponenti dei grandi poteri capitalistici per chiedere loro di rispettare determinate "regole". Senonché il capitalismo conosce una sola regola: la sua crescente fame di profitti senza confini e limiti possibili.

                                                   i presupposti per andare oltre

Li conosciamo bene certi "contestatori" di tal fatta che vanno, o ambirebbero andare se potessero, in ginocchio dalle supreme autorità del capitalismo occidentale a chiedere loro umilmente di non esagerare con lo sfruttamento delle popolazioni del terzo e quarto mondo, di mettere un freno all’occupazione dei territori e alla distruzione dell’ambiente, persino di "elargire" degli aiuti agli "sfavoriti". Tutte chiacchiere per far restare gli sfavoriti sempre e sempre più tali, per tagliarli fuori dalla lotta comune, per ritagliarsi qui degli spazi di cui poter "liberamente" profittare da parassiti clownescamente travestiti da "oppositori". È la categoria di quelli che una parte dello stesso Le Monde Diplomatique segnala come i professionisti di una "nuova politica" di concertazione col grande capitale volta a sfruttare e deviare il corso del movimento attuale a proprio uso e consumo interno. Costoro sono sicuramente bene accolti da chi ha tutto l’interesse a smorzare la lotta collettiva ed è pronto a sganciare qualcosa a chi se ne fa garante all’interno di essa.

Sono i famosi "interlocutori buoni" con cui si può "trattare" (dai portavoce della Porto Alegre più istituzionale giù giù, fino all’infimo livello, ai portavoce dei Centri anti-sociali del Nord Est); quelli che non si bastonano -come si deve fare per i cattivi del movimento-, ma si devono anzi accogliere nel salotto buono per invitare gli altri, i cattivi, a restarsene a casa (di loro spontanea volontà, o con altri mezzi, che certo non mancano). Ne abbiamo vista di recente una "rappresentanza" a Trieste in una città blindata in cui le forze dell’Ordine (Capitalista) superavano per numero gli stessi manifestanti, invitati, alloggiati, cineripresi in diretta nei loro presunti atti di "ribelli" a libro-paga dei ministeri, ricevuti, coccolati e foraggiati dal potere. Li vedremo anche a Genova, a cominciare dai ministri dimissionati dei governi dell’Ulivo alla Melandri o alla Turco che, tanto per dire, hanno sulla propria coscienza l’incancellabile crimine della distruzione sanguinosa della Jugoslavia, nonché la demolizione di molte delle "garanzie" conquistate dagli operai in lunghi anni di battaglie e sacrifici.

Non abbiamo bisogno di questi elemosinieri, di questi complici del capitale, che andrebbero senza troppi complimenti espulsi dal movimento. L’emancipazione degli sfruttati non può essere opera che della loro stessa lotta. Gli unici portavoce dei nostri interessi siamo noi, uniti, attraverso la nostra forza. Questa è l’unica "portavoce" che noi conosciamo.

Del pari, dobbiamo respingere ed espellere dal movimento una linea politica che, apparentemente rispettosa dei "diritti" degli oppressi, toglie in realtà a questi ultimi il loro unico, vero diritto: quello di lottare assieme per la trasformazione globale della società umana, pretendendo di sostituire a tale lotta una serie di impossibili "garanzie" date dal capitale affinché ogni "realtà locale" sopravviva isolatamente nella propria presunta "auto-sufficienza". Un’elemosina in luogo di una mano tesa, di un patto comune, di un comune programma di emancipazione. Ma se noi stessi isoliamo gli "altri" da questo programma comune, non facciamo al contempo che isolare noi stessi, e renderci complici di un sistema entro il quale sperare di godere "autarchicamente" delle briciole che ci derivano dalle maggiori potenzialità di sviluppo della nostra "realtà locale"; cioè, per dirla in una parola, dalle maggiori potenzialità di sfruttamento del lavoro "altrui" che una certa "realtà locale" affluente (poniamo: l’Europa) possiede ai danni di quelle (poniamo: l’Algeria o il Chiapas) che ne sono tagliate fuori.

La prospettiva per cui batterci dev’essere tutt’altra, volta al futuro non al passato. Volta alla distruzione, e non all’impossibile riforma, del sistema di sfruttamento instaurato dal capitalismo; volta alla realizzazione di una vera comunità umana senza frontiere, attraverso la globalizzazione della lotta e dell’organizzazione degli sfruttati di tutto il mondo.