Un altro importante passaggio nella polarizzazione della società e nella ripresa della organizzazione della classe per i propri interessi. Essa ha spostato su posizioni più avanzate il rapporto tra massa dei lavoratori ed apparati riformisti. Il "faticoso compromesso" raggiunto è tutt'altro che una sconfitta per i "fieri camalli".
Il contesto strutturale di questa lotta è quello di una situazione internazionale caratterizzata da "un impressionante eccesso di capacità di naviglio e di terminali portuali" in relazione ad un commercio stagnante o declinante. È un'altra faccia della complessiva crisi di sovrapproduzione, che sta provocando una sempre più accentuata concorrenza tra porti, tanto più aspra perché l'internazionalizzazione dell'economia e del mercato ha via via aumentato il peso specifico del trasporto e della distribuzione delle merci nel computo globale dei costi.
Il processo di ristrutturazione in corso nei principali porti di tutto il mondo, definito da uno dei suoi strateghi "un bagno di sangue", sta portando ad una maggiore concentrazione monopolistica ad un polo, ad un taglio della consistenza numerica, del salario e del "potere" della classe operaia al polo opposto.
Al ridimensionamento del ruolo delle organizzazioni dei portuali - scrive "Rinascita" del 21.2.87 - non è un processo in atto solo a Genova. A Rotterdam, nei porti spagnoli, a Marsiglia, livelli occupazionali e ruolo di queste organizzazioni sono oggetto di un duro scontro sociale". In questi porti - come in quelli della costa atlantica degli USA, in cui i lavoratori sono in agitazione dall'ottobre scorso - il contenuto dello scontro è ben più che salariale. La riduzione degli addetti e l'obiettivo della "massima flessibilità", infatti, sono aspetti non di una semplice compressione dei costi, ma di un attacco ai livelli attuali di forza e di organizzazione dei portuali.
A Genova l’affondo padronale degli ultimi mesi viene a coronare una prima fase di ristrutturazione "consensuale", che ha coperto, con risultati non indifferenti, gli ultimi tre anni: -30% di manodopera, + 40% di produttività in quanto a merci, che diventa addirittura un + 100% se calcolato per addetto. Perché, allora, uno scarto così brusco dalla ristrutturazione "consensuale" a quella unilaterale, con le connesse "pericolose" conseguenze sul rapporto tra portuali e apparati riformisti?
Perché la competizione in atto su scala mondiale ed i processi di riorganizzazione degli scali non hanno precisi punti di arrivo, ma - come del resto nei settori industriali - traguardi che si spostano continuamente in avanti. Una tale corsa alla riduzione dei costi colpisce la classe operaia (qui si ha il "bagno di sangue" di cui sopra... e di cui a Ravenna) anche laddove i livelli tecnologici sono più elevati e le "rigidità" operaie minori. Figurarsi a Genova, porto con un livello di investimenti relativamente modesto e storiche "garanzie" per i lavoratori, strappate con quella forte tradizione di lotte di cui a buon diritto vanno fieri i "camalli".
Per un insieme di elementi obiettivi, il conflitto del porto di Genova ha avuto ed ha una portata e degli effetti né settoriali, né locali. Con buon anticipo sui "riformisti", la stampa padronale aveva indicato alle proprie schiere il porto di Genova come "un fortino comunista... culla di una tradizione operaia dura a morire". Come a dire: la conquista di questo fortino vale - nell'interesse generale di classe - il rischio di una piccola guerra sociale, che va sostenuta perciò da tutta la borghesia, e non solo dai borghesi direttamente toccati. E dàgli ad evocare, non importa se con pagamento in contanti o meno (certi "servizi" ricevono sempre l'adeguata "ricompensa"), la FIAT 1980, nella speranza e nell'attiva preparazione di un nuovo "ottobre nero" che funga da battistrada alla ristrutturazione selvaggia nei servizi e ad una nuova tornata dell'attacco capitalistico alle postazioni operaie (e "riformiste") ancora solide.
Il PCI stesso, con il "Rapporto da Genova" di Chiaromonte, ne ha dovuto prendere atto: "Si tratta di una lotta economica e sociale di grande rilievo. Ma si tratta, anche, in verità, di una lotta politica vera e propria".
I portuali di Genova hanno dato avvio ad una lotta di tale rilievo partendo da una condizione di isolamento anche più accentuata degli operai FIAT nel 1980, in quanto si sono battuti contro un paio di ristrutturazioni approvato, sia pure con differente grado di accanimento, dalle direzioni di CGIL-CISL-UIL. Essi hanno potuto usufruire, però, di una situazione internazionale e, in differente misura, nazionale, in cui i segnali di volontà di lotta e di ripresa della lotta operaia vanno moltiplicandosi. La loro lotta è un altro passaggio concreto del cammino di ripresa del movimento proletario.
Dicendo questo, non intendiamo mistificare nulla. Teniamo ben presente che i portuali di Genova hanno accettato per anni i "sacrifici necessari" a ridare "competitività" allo scalo genovese, e sono pronti a farne ancora - entro certi limiti e (s'intende!) sempre nel tentativo di salvare se stessi. Sappiamo di trovarci a fianco ed a sostegno di lavoratori imbevuti di ideologia riformista, tanto più hanno potuto godere e tuttora godono di effettivi "vantaggi materiali" (rispetto alla media della condizione operaia) e rivestono una posizione che a loro piace definire "non solo da operai, ma anche da imprenditori".
E nondimeno, il contesto materiale di crisi, ristrutturazione, attacco borghese sta scompaginando le basi su cui, nel tempo, s'è formata quella rappresentazione dello stato di fatto. Il piano D'Alessandro mira a ridurre la Compagnia ad "azienda pura" in concorrenza con altre aziende, privandola del monopolio delle operazioni di carico e scarico, riducendone gli effettivi, mettendo in questione quella forma di salario garantito di cui godono oggi i suoi membri nonché, più in generale, sottraendo ad essa qualunque potere di controllo sull'organizzazione del lavoro. Insomma: nulla può continuare ad andare come prima. L'accusa ai portuali di comportarsi da "padroni" e "califfi" del porto svela la necessità dei padroni e dei califfi veri di degradare i proletari - nel porto di Genova come sui posti di lavoro - a "uomini con l'anello al naso".
Il NO deciso e rigidamente difeso dai portuali a queste ulteriori pretese del capitale ha portato ad una lotta ricca di apporti e di insegnamenti per il futuro procedere dello scontro di classe.
È stata una prova ulteriore che il proletariato è disposto a battersi e sa battersi con grande compattezza e determinazione, anche quando si tratta, come in questo caso, di settori con condizioni complessive al di sopra della media (non ci sono intoccabili nella classe operaia!). Come ha detto un loro delegato in faccia a Pizzinato: "Si può vincere, si può anche perdere, ma bisogna almeno lottare!". E questa verità, tutt'altro che scontata di questi tempi, che i portuali di Genova hanno messo in chiaro.
Essi hanno realizzato da soli contro la cosiddetta indipendenza della stampa padronale la più istruttiva ed esilarante delle "candid camera".
In tempi in cui si discute tanto di referendum e - Benvenuto e la UIL in testa - si vorrebbe obbligare la classe operaia a rinunciare alla manifestazione collettiva e militante della propria volontà, i portuali di Genova hanno mostrato il modo operaio di "fare i referendum": in piazza e organizzati con il proprio fronte. L'esatto contrario della vicenda scala mobile: in fila indiana, scheda in mano, assediati dalle legioni del ceto medio.
Nei confronti di direzioni sindacali che si erano assunte la responsabilità di firmare accordi sulla loro pelle, i camalli hanno dato una formidabile lezione pratica su come rapportarsi ai "propri" rappresentanti sindacali, che -ammettiamolo - val più di diecimila volantini rivoluzionari.
La particolare importanza di questa lotta sta anche in ciò che ha prodotto nel rapporto tra massa dei lavoratori e apparati dirigenti del la CGIL e del PCI.
Il 93 % dei portuali della Compagnia è iscritto alla CGIL, una percentuale molto alta appartiene al PCI. Ora la CGIL, pur di non compromettere il difficile riavvicinamento a CISL e UIL, si era accodata completamente, all'inizio, ai provvedimenti del CAP. Da parte sua il PCI, pur di farsi mettere un altro bollino-qualità sulla propria patente (mai in regola) di moderna e responsabile forza di governo, era pronto a rinunciare pacificamente a qualche fetta di potere della Compagnia, - purché in un contesto "consensuale".
È stata solo la irruzione sulla scena di questi "combattenti decisi e coraggiosi", dalla "fortissima determinazione" (è Chiaromonte a dirlo, e non saremo noi a smentirlo) a scompaginare le carte delle direzioni riformiste, con un livello di resistenza ai piani di ristrutturazione non gradito, con l'accensione di nuovi conflitti tra CGIL e UIL dall'altro, con spaccature nella stessa CGIL e frizioni aperte tra CGIL e PCI, producendo, nel complesso, una rincorsa dei dirigenti riformisti nei confronti del movimento reale.
Gli opportunisti vedono nei tentativi di ricucitura fatti dalla CGIL e dal PCI la prova della trasformabilità in senso operaio degli istituti riformisti sindacali e politici. Per noi, invece, è la prova che sta iniziando un cammino di separazione delle masse proletarie in trasformazione dalle proprie direzioni. Quell'oggettivo e consapevole "mettere alla prova" il "proprio" sindacato ed il "partito" è - come nel caso dei ferrovieri francesi un passo avanti nella direzione giusta, poiché significa che nulla più è scontato e dato una volta e per tutte. Nello stesso senso va la decisione di controllare de visu le trattative.
La complicazione con cui fanno i conti è quella emersa anche nella lotta dei portuali di Genova: la rivitalizzazione della classe operaia come "classe per sé" sembra coincidere con la rivitalizzazione in senso "operaio" degli apparati riformisti... Ma è così solo in superficie.
Ai portuali di Genova, che già abbiamo indicato ad esempio per la difesa del giovane disertore iraniano Amir Albogino, diciamo: siamo con voi, abbiamo sostenuto e sosteniamo la vostra lotta! Continuate sulla stessa strada che avete battuto sinora, tenendo la lotta saldamente nelle vostre mani e senza delegare a nessuno la vostra rappresentanza!
Il compromesso raggiunto con il CAP è certamente una sconfitta per chi intendeva escludervi perfino dal tavolo delle trattative e sperava di mettervi in ginocchio. Ma proprio perché esso non corrisponde ai risultati che D'Alessandro e soci si erano prefissi, c’è da attendersi che sarà usato per cercare di logorare "ai fianchi" il fronte operaio, visto che non lo si è potuto sfondare con l'attacco frontale. Prepariamoci, dunque, anche noi ai nuovi passaggi di questa "guerra dei porti". Al piano governativo di ristrutturazione, che s'intreccia con quello locale, opponiamo l'unità dei lavoratori di tutti i porti. Non lasciate cadere l'appello che da Ravenna e dall'universo del lavoro nero viene a voi di chiamare alla lotta e di guidare nella lotta anche i settori più sfruttati e ricattati.
Usate a fondo la forza che vi verrà da questo primo positivo risultato per dare corso ad un collegamento effettivo, sul piano programmatico ed organizzativo, di tutte le forze di classe che, dentro e fuori i porti, dentro e fuori i confini nazionali, sono disponibili a battersi contro l'attacco borghese.
La cronacaParte nell'ottobre '86, con l'articolo "In porto è l'ora del coraggio" sul "Secolo XIX", la famigerata campagna di stampa contro i "camalli". Nel dicembre D'Alessandro, presidente del CAP, emana una serie di decreti che "ristrutturano" il lavoro nel porto. A questi decreti "antioperai" si oppone immediatamente la Compagnia dei portuali. Il 3 gennaio il consiglio dei delegati dei portuali si costituisce in "Comitato di lotta" per prepararsi allo scontro. Le direzioni nazionali di CGIL e UIL firmano un accordo separato coi CAP, di cui fanno propri obiettivi e metodi. La CGIL prima si dissocia, poi si accoda ponendo due condizioni: il carattere "sperimentale" delle nuove misure e l'assenso dei lavoratori. Il console della CULMV, Batini, firma solo "per evitare il commissariamento". Due giorni dopo, "2.500 lavoratori quasi inferociti" ("la Repubblica", 17. 1) respingono l'accordo. D. Turtura, della segreteria CGIL, è costretta a dire: "Condivido perfettamente la posizione dei dirigenti della Compagnia". 23 gennaio: il Comitato di lotta convoca un'assemblea dei delegati con CGIL-CISL-UIL. La precede un chiarissimo manifesto: "nessuno può imporci né con l'assemblea né con i ventilati referendum l'indegno accordo romano". Nell'assemblea dure accuse a PCI e CGIL per "avere svenduto la lotta", più che giustificate vie di fatto verso i rappresentanti UIL e CISL. Alluvione di condanne verso i "facinorosi". Voci discordi nei sindacati. Galbusera (UIL): "Di questo passo il commissariamento della Compagnia sarà richiesto a furor di popolo" ("la Repubblica", 24. 1). Garavini (FIOM), dopo il no alla "violenza": "Bisogna superare questa situazione, ricucendo pazientemente un rapporto con i lavoratori" ("Avanti" del 25. 1). I portuali boicottano in modo organizzato l’applicazione delle misure contenute nell'accordo. Mentre il solito facinoroso Galbusera reclama "sanzioni disciplinari contro i ribelli", Mazzarello (segr. genovese del PCI) chiede "ai lavoratori di accettare l'accordo firmato dai sindacati e di aprire poi una nuova fase di contrattazione su punti specifici". 4 febbraio: comunicazione giudiziaria a console e vice-console della CULMV per "interruzione di servizio di pubblica utilità". Benvenuto propone un referendum sull'accordo "tra i cittadini". Pizzinato (almeno) a questo non ci sta! 7 febbraio: il CAP commissaria la Compagnia. "È un golpe alla cilena. Ma noi, ricordatevi del luglio '60, non abbiamo paura di nessuno", commenta un camallo. Tempi duri anche per l'inviato de "L'Unità" che, "circondato da portuali un po' aggressivi", annota la loro protesta: "L'Unità non ci difende. E non difende nemmeno gli altri lavoratori, compresi i metalmeccanici " (8. 1). 9 febbraio: la manifestazione degli "isolati" raccoglie almeno 10.000 partecipanti con delegazioni dagli altri porti e dalle fabbriche e molti studenti. "Lo sciopero e la manifestazione di oggi hanno indicato il risultato dei referendum, dice Batini a "L'Unità". Intanto la CISL "denuncia il comportamento della CGIL" perché ha dichiarato da sola lo sciopero di 2 ore "nell'intero sistema portuale". Pizzinato tiene un "dibattito difficile e appassionato" con i portuali, che non si spostano dalla propria posizione. L'Unità del 14.2 pubblica un "Rapporto da Genova" del suo direttore che "dà ragione" ai portuali, nei limiti, s'intende, di un governo democratico della "flessibilità inevitabile". I portuali continuano, intanto, l'agitazione contro i nuovi decreti e il Commissario militare. Il 12 marzo console e vice-consoli vengono reintegrati dal TAR al loro posto. "Adesso la trattativa può continuare davvero" (Batini). li giorno dopo a Ravenna, un'orrenda strage di operai porta alla luce le bestiali condizioni di lavoro che vanno diffondendosi nei porti (e fuori). 20 marzo: nuovo accordo tra CAP e CGIL-CISL-UIL, presenti anche i delegati della Compagnia. In questo "difficile compromesso" ha fatto più passi indietro il CAP che i portuali. È la soluzione o solo una momentanea tregua? |