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 Che fare n.85 Gennaio - Giugno 2018

Palestina, Israele, Onu: un test della "diversità europea

La decisione di Trump di spostare l’ambasciata Usa in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme non è un passo estemporaneo. Era stato annunciato durante la campagna elettorale, era compreso nel suo programma elettorale, se solo fosse stato letto.

Questa decisione si prefigge multipli obiettivi: dà manforte a Israele e al suo tentativo di giungere alla “soluzione finale” della questione palestinese; stringe la collaborazione tra Usa e Israele per preparare l’aggressione all’Iran e al coordinamento esistente tra una parte della resistenza palestinese, Hezbollah, la classe dirigente siriana e l’Iran; favorisce il caos nell’area dell’Asia centrale in cui Pechino intende promuovere la “Via della Seta” del XXI secolo e completa da Occidente la morsa applicata da Washington su Pechino con le provocazioni nella penisola coreana.

La risoluzione di condanna della decisione di Trump votata alle Nazioni Unite per iniziativa dell’Unione Europea è stata salutata come un argine a questa politica guerrafondaia di Trump e come un sostegno per la causa palestinese.

Non è così: l’Unione Europea non può svolgere alcun ruolo a favore di questa causa, neanche l’Ue di oggi meno appiattita sugli Usa e determinata a dotarsi di una sua autonoma politica estera. Non c’è un fatto dell’esperienza storica contemporanea che suggerisca un’eventualità del genere. Ne è un esempio la stessa storia della questione palestinese.

 

1) I paesi europei (al pari dell’Onu) sono stati tra i promotori della costituzione dello stato colonialista di Israele in Medioriente, assegnandogli il ruolo che esso ha costantemente svolto da allora, anche se talvolta con tempi e forme non coincidenti con quelli desiderati dai paesi europei: il ruolo di “sentinella dell’Occidente contro la barbarie asiatica” secondo le parole del fondatore del movimento sionista T. Herzl.

2) È vero che i paesi europei hanno votato le risoluzioni Onu n. 242 del 1967 e n. 383 del 1973 in cui si chiede il ritiro di Israele da Gaza e dalla Cisgiordania e che, da allora, si sono adoperati per far nascere entro i confini di Gaza e della Cisgiordania un’“entità statale” palestinese. Ma se si considerano i vincoli a cui avrebbe dovuto e ora deve sottostare questa entità, non si può evitare di concludere che i paesi europei miravano e mirano a creare uno stato fantoccio alle loro dipendenze, per coltivare i loro interessi di rapina nell’area e, nello stesso tempo, limare lo strapotere degli Usa e di Israele. I paesi europei hanno, infatti, sempre vincolato il riconoscimento dell’entità palestinese alla dismissione da parte delle organizzazioni della resistenza palestinese delle forme di lotta più radicali e dell’obiettivo storico della distruzione dello stato di Israele e della divisione colonialista del Medioriente promossa dai paesi europei tra il 1914 e il 1945.

Non appena la resistenza palestinese ha superato il “livello di guardia” fissato dalle diplomazie europee, anche di quelle “amiche” di Craxi e di Andreotti e di Brandt, i paesi europei l’hanno messa nel mirino o hanno favorito l’aggregazione delle forze politiche e militari che si sono scagliate contro le “esagerazioni” palestinesi. È successo in Libano nel 1980, al tempo dell’evacuazione dal Libano dei feddayin palestinesi sotto gli occhi della Forza Multinazionale di Pace con componente europea e della successiva strage maronita-israeliana di Sabra e Chatila. È successo di nuovo nel 1990-1991 con l’aggressione Usa-Nato-Onu-Ue all’Iraq di Saddam Hussein e a chi, come la resistenza palestinese, sull’onda della prima Intifada (1987-1991), aveva giustamente appoggiato la ricongiunzione del Kuwait all’Iraq quale momento della lotta contro la balcanizzazione del Medioriente compiuta dai paesi europei e dagli Usa nei decenni precedenti.

3) I paesi europei e l’Unione Europea hanno appoggiato gli accordi di Oslo con cui l’Olp ha accettato di piegarsi alla falsa e suicida soluzione dei “due popoli, due stati”.

Assediato per decenni dalla congiura concentrica dei paesi occidentali, dal terrorismo israeliano, dalla repressione e dagli sgambetti delle classi dirigenti arabe (di quelle reazionarie, come si vide ad Amman nel 1970, e di quelle “progressiste”, come si vide a Tell Al-Zaatar nel 1976 e poi a Camp David nel 1978), dalle bombe all’uranio impoverito e dalle sanzioni che colpirono le masse lavoratrici schierate con Saddam Hussein nel 1990-1991, la maggioranza del popolo palestinese ha accettato di sottoscrivere la formula “due popoli, due stati”, con la speranza (vana) che essa rappresentasse un avvio verso la loro emancipazione nazionale.

A cosa abbiano portato gli accordi di Oslo è sotto gli occhi di tutti (coloro che vogliono vedere): Israele ha continuato l’espropriazione e la colonizzazione di Gaza e della Cisgiordania; ha ridotto i territori compresi nell’entità palestinese a riserve indiane o a bantustan sudafricani; sta preparando il terreno alla soluzione finale, con la cacciata completa dei palestinesi in Libano e in Giordania e/o il loro sterminio. La morsa israeliana e imperialista ha subìto un parziale e provvisorio rallentamento solo grazie alla “Seconda Intifada” (iniziata nel 2000 in seguito alla provocazione del macellaio Sharon sulla spianata delle Moschee), ma, forte anche delle sanzioni introdotte dalla stessa Unione Europea contro le tendenze radicali del movimento palestinese, il “processo di pace” ha da allora ripreso a macinare la sua implacabile logica.

La situazione attuale sul terreno mostra quanto la soluzione “due popoli due stati” è servita solo a disarmare la lotta palestinese, a frammentarla nei campi di concentramento in cui di fatto oggi i palestinesi sono rinchiusi, a sminarne la valenza di fiamma per la lotta antimperialista in tutta l’area mediorientale. Questo risultato non è anche un regalo dell’Unione Europea?

4) La risoluzione votata dall’Onu il 21 dicembre 2017 riconferma questa dislocazione degli interessi europei. I paesi europei hanno votato contro la decisione di Trump perché essa getta scompiglio nell’area che l’Unione Europea, anche in collaborazione con il progetto della “Via della Seta” cinese, intende pacificare per trasformarla in un proprio cortile di casa.

 

La decisione di Trump su Gerusalemme segna un (provvisorio) punto a favore di Israele ma non segna la fine della lotta palestinese. Essa è in realtà l’inizio di un’altra fase di questa eroica epopea, quella in cui la lotta per il riscatto del popolo palestinese tornerà a divampare nella prateria mediorientale senza le illusioni in cui essa è stata irretita o costretta a destreggiarsi nei decenni scorsi: l’inglobamento da parte di Israele anche dei cosidetti “Territori Occupati” e le sue assillanti “interferenze” a colpi di assassinii mirati o di blitz aerei contro le lotte degli sfruttati in Libano, in Siria e in Iraq indicano che la liberazione del popolo palestinese richiede la distruzione dello stato di Israele e la fraternizzazione con gli sfruttati di tutta l’area, compresi quelli ebrei, da sottrarre all’abbraccio mortale con lo stato in cui sono oggi avviluppati contro i loro stessi interessi.

Questa acquisizione politica, che non tarderà a farsi strada nella nuova leva proletaria protagonista delle recenti “giornate della rabbia” in terra di Palestina e della parallela collaborazione stabilita tra la popolazione lavoratrice siriana e la base militante di Hezbollah, varrà più di tutte le armi di Israele e dell’imperialismo.

 Che fare n.85 Gennaio - Giugno 2018

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