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Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017

Il volto del proletariato Usa che non piace

agli appassionati del “populismo”.

Nelle settimane successive alle elezioni presidenziali del 2016 i mezzi di informazione ufficiali hanno scoperto che negli Usa ci sono tanti lavoratori. Si sono ben guardati però dall’andare al di là dei lavoratori bianchi che hanno votato per Trump.

Finché i lavoratori si limitano a votare Trump e ad esprimere sentimenti razzistimperialisti, va tutto bene, anzi si trova anche la verve di far loro la lezioncina di civiltà.

Se invece i lavoratori, soprattutto se non cittadini bianchi, cercano di ricorrere, anche lontanamente, ai mezzi classici della lotta di classe, allora meglio tacere.

Era già accaduto alla vigilia della crisi finanziaria del 2008, con il grande sciopero nazionale dei lavoratori immigrati. È accaduto di nuovo durante la seconda presidenza Obama e la lunga campagna elettorale del 2015-2016. Ne diamo un cenno nella scheda che segue.

 Uno dei meriti della doppia presidenza di Obama agli occhi del grande capitale Usa è stato quello di aver raccolto e incanalato entro le maglie elettorali e della politica social-imperialista democratica i sentimenti di ostilità e rabbia diffusisi nel 2008 tra i lavoratori verso l’élite repubblicana e finanziaria alla testa del paese fino allora. Questo contenimento, su cui ha giocato un ruolo determinante l’intervento di cause oggettive e soggettive analizzate più volte nel nostro giornale, non ha impedito che, soprattutto durante la seconda presidenza Obama, fossero promosse alcune importanti iniziative di lotta, Esse, senza condurre i proletari che ne sono stati protagonisti nelle braccia di Trump, hanno contribuito a stabilire un rapporto meno passivo tra loro e la politica di Obama e del partito democratico. Ci soffermiamo brevemente su tre di queste iniziative: la lotta per l’aumento del salario minimo, la nascita di Black Lives Matter, la lotta dei braccianti di Sakuma Bors.

* * *

La prima iniziativa è quella per l’aumento a 15 dollari del salario minimo orario. Negli Stati Uniti i lavoratori di alcuni settori (ristorazione, servizi alla persona, agricoltura, logistica, edilizia) sono onorati con un salario orario ufficiale di 7 dollari l’ora. Si tratta di almeno 30 milioni di lavoratori,

spesso afro-americani e immigrati.

La lotta di alcuni gruppi di lavoratori di questi settori è iniziata nel novembre 2012 con lo sciopero dei lavoratori di 100 fast-food di New York. Lo sciopero è stato organizzato da “New York Communities for Change”, dal “Service Employees International Union” e da alcune associazioni delle comunità afro-americane. Lo sciopero viene ripetuto, ancora a New York, il 4 aprile 2013 (anniversario dell’assassinio di Martin Luther King) e coinvolge 200 fast-food. Nello settimane successive lo sciopero tocca Chicago (24 aprile), Detroit (10 maggio), St. Louis (9 e 10 maggio), Milwaukee (15 maggio) e Seattle (30 maggio). Il 29 luglio 2013 lo sciopero si svolge contemporaneamente in tutte le città già coinvolte e a Flint e Kansas City.

Nei mesi successivi, l’amministrazione Obama presenta al Congresso una proposta per l’aumento del salario minimo almeno fino a 10 dollari orari. La proposta viene osteggiata dai repubblicani e viene approvata mutilata. Di fronte al braccio di ferro parlamentare e alla decisione delle amministrazioni democratiche di alcune grandi città (New York, Seattle) di aumentare (gradualmente) entro i loro confini il salario orario verso i 15 dollari, i lavoratori coinvolti negli scioperi, in gran parte elettori di Obama, non rimangono paralizzati. Forti dei precedenti scioperi, tessono le fila della organizzazione in settori in cui il sindacato è poco presente e osteggiato dalle direzioni aziendali. Nell’autunno del 2014 l’azione di sciopero riprende e si allarga: il 4 settembre 2014 lo sciopero dei lavoratori del settore fast-food è affiancato da quello dei lavoratori per i servizi domestici e il 4 dicembre 2014 da quello dei facchini degli aeroporti, di alcuni porti della costa orientale e dei centri di smistamento del commercio all’ingrosso. La partecipazione agli scioperi è incoraggiata dalle proteste contro gli assassinii della polizia ai danni di alcuni giovani afro-americani. Gli scioperi vedono il coinvolgimento diretto delle associazioni del Black Lives Matter. Nei sit-in, nel corso dei quali sono arrestati più di 150 lavoratori, gli slogan sono “15 and union”, “Hands up, don’t shoot”. La mobilitazione culmina nello sciopero generale del 15 aprile 2015: esso

coinvolge molte decine di migliaia di lavoratori di diversi settori in 200 città degli Usa, e questa volta lo spettro delle rivendicazioni comprende il pagamento dei giorni di malattia, la programmazione dei turni di lavoro, il diritto all’organizzazione sindacale nei luoghi di lavoro, l’uso di mascherine e di altre misure di sicurezza durante i turni di lavoro, la fine della politica di incarcerazione di massa

attraverso la proliferazione delle prigioni private. In quello stesso mese di aprile 2015 la Walmart, direttamente investita dagli scioperi, annuncia di aumentare il salario minimo orario a 9 dollari entro l’anno e a 10 dollari l’anno successivo e si dichiara disposta a discutere alcune tutele per le giovani madri.

Qualche mese dopo la Walmart sarà investita anche da una sentenza per il reintegro delle decine di lavoratori licenziati per rappresaglia dal 2012.

* * *

Il movimento Black Lives Matter (le vite dei neri valgono) nasce nel 2013, dopo l’assoluzione nel luglio di quello stesso anno di George Zimmerman, un vigilante volontario delle ronde di quartiere che, in Florida, nel febbraio dell’anno precedente aveva ucciso Trayvon Martin, un afro-americano diciassettenne disarmato.

Sorto quasi “per caso” attraverso i social network, il movimento è andato sviluppandosi e allargandosi nel corso degli anni successivi.

Le tappe più importanti che hanno segnato la sua crescita sono state le giornate di lotta successive all’omicidio del diciottenne di “colore” Micheal Brown (avvenuto per mano di un agente di polizia a Fergusson il 14 agosto del 2014) e le mobilitazioni sviluppatesi a Baltimora per ben due settimane (con un’alta partecipazione di giovani provenienti dalle aree più disagiate della città e con la dichiarazione dello stato d’emergenza e del coprifuoco) in seguito alla morte del venticinquenne Freddie Grayo avvenuta pochi giorni dopo il suo arresto e il suo ferimento alla testa e alla colonna vertebrale per mano dei poliziotti che lo avevano fermato.

Al momento Black Lives Matter è una sorta di “contenitore” politico nel quale si fondono e si coordinano diverse esperienze portate avanti da associazioni, collettivi, gruppi e comitati di recente formazione, composti in maggioranza da giovani afro-americani e da associazioni di latinos. Nell’ultimo anno è relativamente aumentata anche la presenza di bianchi che aderiscono e partecipano per lo più a titolo individuale.

Il 1° agosto 2016 il movimento si è dato una prima piattaforma politica i cui punti fondamentali sono: 1) la creazione di una rete nazionale che si opponga alla violenza della polizia contro la popolazione nera; 2) la rivendicazione di un processo di smilitarizzazione delle polizie locali e di abbandono dei

programmi “sicurezza” seguiti dalle forze di polizia; 3) la rivendicazione del taglio dei fondi destinati alle polizie locali e il loro investimento all’interno delle comunità nere più colpite dalla povertà per creare lavoro, abitazioni e scuole.

Nella piattaforma si prova a guardare anche oltre i “confini statunitensi”, affermando che sono il capitalismo “globale”, il patriarcato, il militarismo e il razzismo a generare disuguaglianze, guerre e sfruttamento, e solidarizzando (anche se in modo generico) con tutti coloro che si oppongono a questo stato di cose e che si battono per un mondo in cui sia “riconosciuta la piena umanità e dignità

di tutte le persone”.

Black Lives Matter ha fatto sentire la sua voce anche durante la campagna presidenziale del 2016. Alle primarie per la scelta del candidato democratico ha appoggiato (senza dare deleghe in bianco) Bernie Sanders. Poi, affermatasi la candidatura di Hillary Clinton, i dirigenti del movimento (concordemente con lo stesso Sanders) hanno dato indicazione di voto in favore di Hillary Clinton, la quale, nel frattempo, aveva dichiarato di voler mettere mano alla riforma del sistema penale ispirandosi anche ad alcune proposte di Black Lives Matter. Contemporaneamente i militanti del movimento hanno attivamente osteggiato Donald Trump, contestandolo in varie città e riuscendo, il 12 marzo 2016, ad interromperne il comizio di Chicago. (In tale occasione, secondo il Guardian, si è assistito a “scene di caos e violenza senza precedenti nella storia recente delle campagne politiche

americane”.)

Come dimostra anche il comportamento assunto durante la campagna elettorale del 2016, vi è la possibilità che col tempo Black Lives Matter giunga a limitare la propria prospettiva ad una pura azione di pressione verso le ali più di “sinistra” del partito democratico. Questo è un rischio concreto.

Ma, a prescindere da questi pericoli, l’esistenza di una rete (di dibattito e di iniziativa politica) strutturata nazionalmente che vede il protagonismo politico attivo di tante giovani energie provenienti dagli strati più poveri e marginalizzati della popolazione afro-americana, non di rado impegnati anche nelle lotte sindacali come quelle per l’aumento del salario minimo, è comunque di grande importanza. Segnala la volontà di reagire in prima persona all’oppressione razziale che pervade dalle radici la struttura capitalistica e statuale statunitense, e, a date condizioni, può rappresentare un fertile terreno su cui almeno una parte di queste energie potrà sperimentare concretamente come la battaglia contro l’oppressione di razza debba essere intimamente connessa alla battaglia contro le fondamenta stessa dell’imperialismo a stelle e strisce e come, per sostenerle, siano necessari un programma e una politica completamente indipendenti e contrapposti a quelli democratici, anche quando questi ultimi si presentano “in formato Sanders”.

* * *

La terza iniziativa a cui vogliamo accennare è quella dei braccianti immigrati negli stati orientali degli Usa. Ne è un esempio la lotta che si è svolta tra il 2013 e il 2016 nello stato di Washington, di cui è stata protagonista una piccola e giovane organizzazione sindacale: Familias Unida por la Justicia (FUJ).

FUJ nasce nel luglio 2013 sull’onda degli scioperi che si sviluppano nella zona di Burlington tra le centinaia di lavoratori impiegati nella Sakuma Brothers Farm, un colosso nella coltivazione e produzione di frutti di bosco. I braccianti in sciopero rivendicano aumenti salariali, migliori condizioni abitative e la fine delle intimidazioni ad opera dei supervisori.

A seguito del fallimento delle trattative con l’azienda e del licenziamento di alcuni dei suoi attivisti più rappresentativi, FUJ ha portato avanti la lotta anche con una campagna di boicottaggio verso i consumatori dei prodotti della Sakuma Bros e poi della più grande Driscoll Strawberry Associates,

che monopolizza la distribuzione dei frutti di bosco con l’ausilio di investimenti privati e governativi.

La mancanza di un contratto collettivo permette alle aziende agricole di decidere come e quanto pagare i lavoratori, come e quando farli lavorare a seconda delle stagioni e delle condizioni dei raccolti, come utilizzare nuova forza lavoro di recente immigrazione per ricattare i vecchi lavoratori già impiegati e minarne l’organizzazione e le lotte.

Nella Sakuma Bros il sistema di pagamento funziona secondo un meccanismo che lega strettamente il salario ai livelli produttivi.

Semplificando, la paga oraria è intorno ai 10$, a patto però che si raccolgano almeno 50 libbre (22 chilogrammi) di frutta; ogni 5 libbre in più è previsto un bonus. Questo modello incoraggia i lavoratori ad essere sempre più veloci, spesso spingendoli a rinunciare al riposo all’ombra, all’acqua o alle pause per il bagno. A questo contribuisce anche lo stato di costante incertezza sul futuro, perché il datore di lavoro può decidere da un giorno all’altro quali e quanti lavoratori agricoli impiegare.

All’inizio dell’estate 2016, alla vigilia della stagione di raccolta delle fragole, i lavoratori della Sakuma Bros hanno abbandonato i campi chiedendo che la paga di 24 centesimi per libbra fosse alzata. Qualche mese dopo è stato il turno dei lavoratori dei campi di mirtilli, ai quali la paga per libbra era stata decurtata di 4 centesimi da un giorno all’altro (da 60 a 56 centesimi). Gli scioperi hanno permesso di tornare alla carica con la richiesta di riconoscere il sindacato aziendale e di aprire la trattativa contrattuale.

Alla fine, nel mese di settembre 2016, i lavoratori sono stati chiamati a votare, per decidere se trasformare o meno l’associazione FUJ in sindacato riconosciuto nell’azienda.

La FUJ ha strappato la vittoria, con il 77% dei consensi. La prima iniziativa del sindacato è stata quella di riprendere il processo di negoziazione per l’ottenimento di un contratto.

I lavoratori FUJ e le loro rappresentanze si aspettano che il loro movimento si muoverà di là dei confini delle proprietà della Sakuma Brothers. “Abbiamo già membri in altri ranches”, ha dichiarato Torres, il presedente del FUJ,“che vogliono le stesse cose”.

* * *

Queste ed altre iniziative molecolari (1) hanno trovato un parziale momento di coagulo politico nella campagna elettorale di Bennie Sanders. Non siamo stati e non siamo sandernisti. Noi riteniamo che il sandernismo sia una versione leggermente più sbilanciata a sinistra della politica di Obama, e che, come quest’ultima, funzionalizzi e faccia dipendere la tutela degli interessi proletari dalla politica di rilancio dell’imperialismo Usa. (2) L’accentuazione compiuta nella propaganda di Sanders sui temi sociali e il sostegno a questa propaganda basato talvolta sulla mobilitazione in prima persona (di cui è un riflesso anche la decisione di Sanders nell’estate 2016, al momento dell’endorsement per Hillary, di costituire un’organizzazione separata, Our Revolution, entro il partito democratico) ci sembrano tuttavia forieri, in un panorama sociale in cui i margini riformisti per la massa proletaria si vanno riducendo e con all’orizzonte un nuovo conflitto mondiale, di potenziali positivi sviluppi.

Il fatto che quest’area proletaria sia arrivata alle elezioni di novembre 2016 con questo atteggiamento, a prescindere dalle successive scelte elettorali, e soprattutto che in questa mobilitazione molecolare si siano aperti spazi di discussione politica sul destino dei lavoratori entro la società capitalistica e si sia incrinato il tradizionale ostracismo verso il tema del socialismo (come ha osservato, allarmato, il Wall Street Journal), ci sembra un avvenimento politico importante verso l’inizio (ancora di là da venire) della frattura, a cui lavoriamo come internazionalisti, con l’impianto

social-imperialista di Hillary Clinton, di Obama e di Sanders. Ad essa dovrà concorrere la volontà dei militanti proletari più combattivi di legare la difesa degli interessi immediati presi di mira da Trump con l’opposizione alla politica estera della Casa Bianca, sia nella veste frettolosa e arronzata di Trump che in quella imperialisticamente più saggia di stampo democratico.

 Note

(1) Ad esempio la lotta iniziata nel 2011 dei 250 mila dipendenti pubblici del Wisconsin contro i tagli salariali e l’eliminazione della contrattazione sindacale voluti dal governatore repubblicano, lo sciopero dei lavoratori della scuola di Chicago nel 2012 e poi nel 2016 contro i tagli alla scuola pubblica, la mobilitazione contro la pipeline Keystone XL dal Canada al golfo del Messico che ha condotto nel 2015 la Casa Bianca a bloccare

il progetto e quella degli studenti universitari oberati dai debiti e dall’esistenza precaria a cui spesso non li sottrae, come avveniva in passato, la laurea.

(2) Si vedano ad esempio i comizi di Sanders riportati nell’antologia curata da R. Fioravante “Bernie Sanders. Quando è troppo, è troppo”, Lit Edizioni, Roma, 2016.

 

Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017

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