Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017
Stati Uniti
Trump: l’uomo “nuovo” paracadutato dall’alto
In Europa, a destra e a “sinistra”, la vittoria di Trump è stata spiegata con questo ragionamento: i lavoratori che nel 2008, votando per Obama, avevano sperato di fermare gli effetti negativi sulle loro vite della crisi finanziaria, sono stati delusi; dopo aver atteso alcuni anni, essi si sono ribellati alle imposizioni dell’élite finanziaria e politica del paese e hanno imposto alla Casa Bianca, contro le regole della casta politica di Washington, un candidato indipendente, Trump appunto.
Anche chi da “sinistra” prevede, giustamente, che i lavoratori saranno amaramente delusi dalle promesse di Trump, vede nella elezione di Trump a presidente il risultato della rivolta dei “perdenti”, degli “ultimi”, dei lavoratori e degli strati popolari più disagiati. Per noi del “che fare” questa analisi è fasulla e pericolosa.
L’uomo “nuovo” Trump è stato confezionato in alto, in quei settori della borghesia statunitense (tra i quali è compresa un’ala della lobby sionista pro-Netanyhau) che non intendono accettare la limatura dei loro ristretti interessi prevista dall’accorto piano di rilancio dell’imperialismo Usa portato avanti da Obama. La squadra di governo proposta da Trump rivela più esplicitamente di qualsiasi discorso il referente sociale che, coperto dall’inno all’uomo qualunque, assume effettivamente il controllo delle leve del potere e la lava che, nei prossimi anni, dalla Casa Bianca arriverà sui lavoratori degli Usa (anche quelli bianchi “trumpisti”) e del resto del mondo.
La lotta contro questa offensiva, da condurre autonomamente e in contrapposizione all’ala della borghesia Usa in reale contrasto con Trump, richiede anche che si demistifichi la lettura “populista” della vittoria di Trump e si denunci l’aiuto che essa offre alla corsa verso destra in atto tra i lavoratori europei dietro il carro di Grillo, di Salvini, di Marine Le Pen, di Farage.
I lavoratori degli Usa e le due presidenze Obama
Partiamo con un dato di fatto ben noto, ma in questi tempi bui, più o meno in buona fede, dimenticato: è una leggenda metropolitana che fino alle elezioni presidenziali del 2012 la stragrande maggioranza degli operai bianchi votasse per il partito democratico e che con Trump si sia verificato una loro fuga di massa verso il partito repubblicano.
I lavoratori Usa tra astensione, voto ai democratici e voto ai repubblicani
È vero che per molto tempo la stragrande maggioranza dei lavoratori bianchi degli Usa ha fatto riferimento al partito democratico, ma questo è accaduto dagli anni trenta fino agli anni settanta, nell’epoca d’oro del fordismo e dell’incontrastato dominio tecnologico, finanziario e militare degli Usa sul mercato mondiale. Questo rapporto “monogamo” esprimeva la convinzione dei lavoratori statunitensi di poter tutelare i propri interessi immediati attraverso la conquista e il consolidamento del dominio mondiale da parte delle imprese e dello stato statunitensi, attraverso la conquista e il consolidamento di questo dominio sugli sfruttati afro-americani e sui popoli del Sud del mondo.
Il rapporto si incrinò negli anni settanta e ottanta. Non perché la base proletaria bianca del partito democratica si fosse resa conto che il programma social-imperialista democratico, oltre ad essere una catena al collo per i lavoratori afro-americani e degli altri paesi, era un boomerang per gli stessi lavoratori statunitensi bianchi.
Il rapporto tra i lavoratori bianchi e il partito democratico si incrinò perché il partito democratico apparve incapace ad una larga fetta dell’aristocrazia proletaria bianca di tenere a bada i processi sociali e politici che, entro i confini Usa e a livello internazionale, stavano erodendo il dominio mondiale degli Stati Uniti, come, ad esempio, la riscossa degli afro-americani e le rivoluzioni nazional-popolari dei popoli del Sud del mondo. Una parte della classe operaia bianca, tradizionalmente orientata a favore del partito democratico, trovò le proprie bandiere nel nixonismo e nel reaganismo, le politiche messe a punto dai centri di comando dell’imperialismo statunitense per affrontare il cosiddetto declino dell’impero americano.
Da allora la divisione dei voti operai bianchi alla coda dei due maggiori partiti della classe dominante degli Stati Uniti è una costante della vita politica statunitense, consolidatasi persino durante la parentesi delle due presidenze di Bill Clinton entro il lungo ciclo conservatore delimitato da Reagan e da Bush II.
Nelle elezioni presidenziali del 2016 non c’è stato alcuno spostamento elettorale di massa dei proletari dal partito democratico al partito repubblicano. Quello che si è verificato, è stato un lieve aumento dei voti a favore del candidato repubblicano negli stati industriali dei “Grandi Laghi”. Ma per intendere il senso sociale e politico di questo lieve incremento, che sicuramente ha consolidato ma non creato ex-novo la presa dei repubblicani sul loro tradizionale serbatoio proletario bianco, bisogna associarlo ad altri tre, numericamente anche più rilevanti, dati elettorali.
Primo. Il 45% dei cittadini Usa aventi diritto di voto ha continuato a non recarsi alle urne. Sono oltre 90 milioni di persone, il 30% in più dei votanti per ciascuno dei due partiti maggiori, e sono soprattutto proletari, rassegnati di non poter influire politicamente sulla loro pesante esistenza e di doversela sbrigare individualmente nella giungla della società Usa.
Secondo. La vittoria di Trump nel collegio dei grandi elettori non deve, poi, oscurare il fatto che Hillary Clinton ha raccolto 2.8 milioni di voti più di Trump (65.8 e 63.0 milioni di voti) e che Hillary Clinton ha quasi mantenuto il consenso raccolto nel 2012 da Obama (1) tra i lavoratori bianchi (in particolar modo tra quelli appartenenti alle due fasce di reddito inferiori ai 50 mila dollari annui, dove Trump è rimasto distanziato di oltre venti punti percentuali!) e soprattutto tra i lavoratori afro-americani e latinos.
In alcuni degli stati economicamente più avanzati e potenti, ad esempio la California, quelli da cui prese avvio la “controffensiva conservatrice” di Nixon, Trump, benché appoggiato da non pochi colossi della Silicon Valley in passato legati al partito democratico (2), ha raccolto un numero di voti nettamente inferiore a quello raccolto nel 2012 dal candidato repubblicano Romney e nel 2008 dal candidato repubblicano McCain e, rispetto ad allora, la distanza tra i due partiti è aumentata.
Anche negli stati industriali dei “Grandi Laghi”, se si guarda alle aree urbane a più alta densità proletaria, il partito democratico continua a stravincere.
Terzo. In questa conferma sostanziale a livello nazionale, Hillary Clinton ha raccolto negli stati dei “Grandi Laghi” un numero di voti lievemente inferiore a quello ottenuto da Obama nel 2012: -300 mila voti in Michigan, -250 mila voti nel Wisconsin, -50 mila voti in Pennsylvania, -400 mila voti in Ohio, -170 mila voti in Iowa. La causa?
Una fetta degli afro-americani e una fetta dei lavoratori bianchi legati all’ala sinistra del partito democratico, per motivi non del tutto coincidenti, non se la sono sentita di votare un candidato così legato a Wall Street e all’apparato statale bianco come Hillary Clinton, e hanno preferito non recarsi alle urne oppure, in lieve misura, hanno votato per la candidata indipendente dei Verdi Jill Stein (3) oppure per Trump.
La crisi economica del 2008 precipita la crisi del programma neocons
Questi risultati mostrano che, se consideriamo l’intera classe lavoratrice Usa (nelle sue tre componenti bianca, afro-mericana e latinoamericana) e non solo il suo segmento bianco, essa risulta profondamente divisa, accodata ai programmi delle due principali ali della borghesia Usa e ancora maggioritariamente legata, nella parte che si esprime elettoralmente, alla politica democratica di Obama e, seppur lievemente diversa, di Hillary Clinton.
Per noi marxisti, non poteva andare diversamente, dati il ciclo internazionale del capitale e il corso, da esso dipendente, dello scontro di classe (internazionale) tra capitale e lavoro salariato. Non poteva andare diversamente,
perché la grande maggioranza dei lavoratori democratici (bianchi, afro-americani e latinos) non ha vissuto la politica di Obama come una politica di attacco nei loro confronti.
Diciamo questo senza alcuna simpatia politica verso Obama. Nel 2008, quando in Europa tanti “sinistri” lo salutavano come il messia socialista, noi lo abbiamo denunciato per essere il portavoce e il nostromo di una politica interamente imperialista, che mirava e mira a rilanciare l’imperialismo Usa contro i tentativi compiuti all’inizio del XXI secolo dai lavoratori Usa e dai popoli del mondo musulmano e asiatico di non farsi stritolare dalla morsa della mondializzazione capitalistica. Non per questo, però, anzi proprio per favorire la risposta proletaria di classe alla Casa Bianca obamiana, abbiamo chiuso gli occhi sul fatto che il programma di Obama si prefiggeva e si prefigge di condurre in porto il suo obiettivo, non diverso strategicamente da quello neocons dei Bush, con una politica diversa, con una combinazione diversa di classi sociali all’interno degli Usa e a livello internazionale.(4)
Nel 2008, negli Usa, non ci furono solo una seria scossa finanziaria e una profonda recessione. Ci fu lo scricchiolio dell’egemonia del loro dominio sui popoli del mondo emergente e l’accumulazione di scontento e sfiducia tra la popolazione lavoratrice degli stessi Stati Uniti nei confronti dell’ordine a stelle e strisce, persino verso la bontà dell’arsenale ideologico che da Reagan in poi ne aveva legittimato la politica. Dobbiamo, forse, ricordare, la resistenza eroica del popolo dell’Iraq e di quello dell’Afghanistan? Egli effetti di essa sui marines Usa e sui veterani? Oppure la mobilitazione dei lavoratori cinesi contro il pugno di ferro delle multinazionali Usa (ed europee) nelle fabbriche legate ai loro cicli produttivi? Dobbiamo forse ricordare il grande sciopero nazionale degli immigrati negli Stati Uniti del 2006? O il fatto che la bolla dei sub-prime esplose anche perché una fetta di sfruttati che si era indebitata ipotecando la casa, non ha più voluto aumentare il proprio sfruttamento (estensivo e intensivo) per ripagare le rate?
I centri nevralgici dell’imperialismo Usa confermarono la convinzione già maturata negli ultimi anni
della presidenza di Bush II di dover mettere al centro del rilancio del loro ordine mondiale la funzionalizzazione agli Usa e ai suoi alleati dello sviluppo capitalistico della Cina e dell’Estremo Oriente, per strapparne i frutti ai lavoratori e alle borghesie locali e per utilizzare le risorse rese disponibili da questo saccheggio per puntellare (al ribasso) il compromesso sociale interno. Nel 2008, i vertici della classe dominante Usa si resero, però, conto che questo obiettivo non poteva essere conquistato seguendo la strategia neocons, contando solo sulla forza militare, sul tradizionale
puntello proletario bianco all’interno degli Stati Uniti e sull’alleanza con le élites dei paesi sottomessi e dominati.
Essi si resero conto che, per le trasformazioni strutturali avvenute nel processo planetario di produzione e circolazione capitalistica, il rilancio dell’imperialismo Usa era ed è impossibile senza l’allargamento, entro i confini Usa e a livello internazionale, della base di appoggio sociale e nazionale per la triade Wall Street – Casa Bianca - Pentagono.
Si trattava e si tratta di un programma ambizioso, che si intendeva e si intende finanziare con le risorse liberate dal recupero (almeno parziale) della tradizionale supremazia tecnologico-produttiva sul resto del mondo, dall’aumento della produttività del lavoro sprizzato da queste innovazioni tecnologiche, dall’intensificazione della prestazione lavorativa e, considerata l’insufficienza di tali manovre per tornare a disporre di ampi margini redistributivi, dalla limatura dei privilegi (già erosi dal reaganismo e dal clintonismo) del ceto medio bianco concresciuto durante l’epoca affluente post-seconda guerra mondiale, delle residue tutele dell’aristocrazia proletaria bianca e persino degli interessi specifici di alcuni settori del capitale Usa, ad esempio quelli del settore finanziario o quelli del settore medicofarmaceutico o quelli intrecciati più strettamente con le classi dominanti israeliana e saudita.
Dal 2009 al 2016 questo programma social-imperialista di allargamento delle basi sociali dell’egemonia mondiale degli Usa ha ispirato la politica della Casa Bianca. Esso non ha fatto fallimento.
Non ha fatto fallimento sul piano “immediato”, perché ha evitato che la crisi finanziaria si avvitasse in una prolungata recessione e nel ritorno dell’incubo (economico e politico) degli anni trenta del XX secolo. È vero che questo, al fondo, è accaduto perché lo stato di salute dell’economia mondiale nel suo insieme era meno compromesso di quanto sostenuto da coloro che, tra gli economisti ufficiali e tra quelli “critici”, si sono limitati a considerare solo quanto stava accadendo negli Usa e a tralasciare
La vitalità dell’accumulazione capitalistica nei paesi emergenti. È altrettanto vero, però, che la manovra soggettiva della Casa Bianca (in collaborazione con il Federal Reserve) ha favorito il tamponamento dell’emergenza finanziaria e poi il recupero (benché più lento e ridotto del desiderato)
dei livelli produttivi pre-2008 e della potenza tecnologico-industriale Usa rispetto agli altri paesi avanzati, come attesta la vicenda del settore, ancora centrale, dell’automotive.(5) La politica di Obama non ha fatto fallimento neanche sul piano della politica estera, come abbiamo discusso nei numeri precedenti del giornale parlando ad esempio dell’accordo con l’Iran e con Cuba e soprattutto del “Pivot to Asia”. (6) Essa è, infine, riuscita a portare a casa qualche risultato anche sul “versante sociale” interno.
Soffermiamoci su quest’ultimo aspetto e consideriamo, a tal fine, il caso particolare della riforma sanitaria promessa da Obama nel 2008.
La riforma sanitaria del 2010
Come abbiamo discusso nel n. 71 del che fare, il programma sull’assistenza sanitaria di Obama aveva
due obiettivi: da un lato, diminuire la quota sproporzionatamente alta della ricchezza nazionale incamerata dalle assicurazioni e dalle imprese del settore sanitario rispetto alle cure erogate (il 18% del pil, il doppio della media caratteristica degli altri paesi avanzati) e, così, ridurre l’impatto di questa palla al piede della competivitità del capitale statunitense nel suo complesso; dall’altro lato, anche usando una quota dei risparmi spremuti dalla spesa medicale e da un maggiore esborso richiesto ai lavoratori delle grandi imprese già coperti da un piano sanitario aziendale, ampliare il numero di proletari coperti dall’assistenza sanitaria (soprattutto tra gli afro-americani e i latinos) e costruire un ponte per estendere la collaborazione di classe patriottica in vista della preparazione dello scontro internazionale con la Cina.
L’opposizione dei repubblicani, le mobilitazioni del Tea Party, il lobbying delle imprese bio-medicali
e delle assicurazioni hanno impedito ad Obama di varare la riforma sanitaria da lui prevista inizialmente, che contemplava anche un’offerta di copertura statale in alternativa a quella delle assicurazioni private. I provvedimenti effettivamente introdotti, contenuti nell’Affordable Care Act (ACA) del 2010 e in altre leggi, non hanno mancato, però, di colpire, anche se parzialmente, nel segno.
Pestando anche i piedi delle assicurazioni e dei gruppi bio-medicali, i provvedimenti di Obama sulla sanità hanno favorito l’aumento dell’efficienza (capitalistica) della quota del pil destinata alla tutela (capitalistica) della salute pubblica. Aumentando di 23 milioni le persone coperte da un’assicurazione sanitaria, garantendo aiuti pubblici al 70% dei nuovi assicurati in modo da permettere loro le cure di base con un esborso mensile medio di 100 dollari, imponendo che l’assicurazione di un genitore copra
anche i figli fino al 26-simo anno di età, ampliando il numero di proletari fruitori dei servizi di Medicaid in 31 stati, eliminando alcune clausole ricattatorie imposte in precedenza dalle assicurazioni ai danni delle donne e delle persone affette da malattie, i provvedimenti sanitari varati da Obama hanno suscitato consenso in un’ampia fascia di lavoratori, soprattutto in quelli appartenenti alle minoranze nazionali.
Questo risvolto sociale-politico è così innegabile che lo stesso Trump, durante la sua campagna elettorale, ha promesso (campa cavallo!) che la sua revisione della riforma sanitaria di Obama ridurrà i costi per gli utenti, migliorerà la qualità del servizio e salvaguarderà alcuni aspetti dell’ACA, ad esempio la copertura assicurativa fino a 26 anni ai figli di un assicurato o l’obbligo delle assicurazioni di stipulare il contratto calmierato anche in presenza di malattie richiedenti cure dispendiose. Non sarà così, ovviamente, e la lotta contro la politica sanitaria di Trump a cui è chiamata l’intera classe lavoratrice degli Usa, deve essere l’occasione sia per superare la passività che negli anni cruciali della messa a punto della riforma di Obama (il biennio 2009-2011) ha permesso agevolmente al Tea Party e al partito repubblicano di condizionare i progetti iniziali dell’amministrazione Obama e sia per affrontare in avanti, con una parificazione delle tutele verso l’alto, le divisioni che l’ACA, diabolicamente, anche per effetto dell’accorto zampino repubblicano e del monopolio conservato dalle assicurazioni private, ha aggiunto tra le fila dei lavoratori, come risulta dai due seguenti esempi: i lavoratori (soprattutto bianchi) già coperti da piani sanitari aziendali sono stati colpiti dalle assicurazioni con premi più alti in risposta ai servizi che esse hanno dovuto erogare per le nuove polizze calmierate; non pochi giovani impiegati nei fast-food e coperti prima dell’ACA da una polizza scadente ma economica sono stati costretti a passare a un piano sanitario più solido ma più costoso, benché da loro non direttamente utilizzato, al momento, soprattutto se maschi, per la loro giovane età.(7)
Le “mezze e contraddittorie” misure di Obama non sono, quindi, “mezze e contraddittorie”. Rispondono coerentemente, pur se acciaccate rispetto all’originario disegno, ad un calcolo economico e politico borghese ben preciso, che è l’aggiornamento al XXI secolo di quello social-imperialista di
Roosevelt. Se esse hanno portato un sofferto vantaggio immediato solo per una parte, comunque non ristretta, dei lavoratori, ciò non è il frutto del “tradimento” di Obama, ma è il segno dei tempi, dell’erosione delle basi oggettive per un solido compromesso sociale negli Usa.
A noi sarebbe piaciuto che già queste “mezze e contraddittorie” misure varate da Obama in campo sanitario e le divisioni da essa suscitate tra gruppi di lavoratori fossero bastate per aprire gli occhi dei lavoratori Usa o di una loro esigua minoranza sulla vera natura della politica democratica, sull’impossibilità di conciliare (come promise Obama nel 2008) gli interessi del capitale con quelli degli sfruttati (magari sotto la guida accorta dello stato e la capacità di quest’ultimo di non farsi condizionare dagli interessi particolari di questo o quel settore borghese), sul contributo offerto da questa impossibile quadratura del cerchio allo spostamento politico di settori proletari verso la demagogia dell’estrema destra.
Le “mezze e contraddittorie” misure di Obama in campo sanitario non potevano però bastare per questa rottura politica, e non ci sorprende che i lavoratori, pur non completamente soddisfatti o addirittura scontenti per gli effetti dell’ACA sulla loro particolare famiglia, abbiano considerato questi provvedimenti, nella situazione per loro drammatica creata dalla crisi del 2008 e sotto la furia contraria delle assicurazioni e delle corporazioni medicali, come il male minore o un primo passo.
La cosa politicamente significativa è che nel 2015-2016 la delega al partito democratico sia stata rinnovata con una differenza rispetto al 2008. Come accenniamo nella scheda di pag. 4, in un settore proletario, per ora ristrettissimo in termini relativi, ci si è resi conto che le “mezze e contraddittorie”
misure dell’ACA e, più in generale, della politica “sociale” di Obama sono dipese anche dal fatto che dopo l’elezione di Obama, mentre la destra si mobilitava sotto la direzione del Tea Party, i lavoratori che avevano votato Obama erano rimasti passivi spettatori della partita. Durante la campagna elettorale del 2015-2016, questo settore ha, nello stesso tempo, espresso la volontà di non staccare più un assegno in bianco alla direzione democratica, al di là se questa volontà si è poi tradotta in un voto a Hillary Clinton, in un’astensione o, come è accaduto anche nella zona dei “Grandi Laghi”, in un voto alla candidata dei verdi Jill Stein.
La maggiore debolezza politica che rimane da colmare in questo settore proletario meno passivo, anche in chi spara a zero da sinistra sulla riforma sanitaria di Obama sulla base di un confronto economicistico con il New Deal di Roosevelt, è l’incapacità di cogliere la finalità politica dell’ACA,
il nesso dell’ACA con la politica estera degli Usa. Anche questo nesso, invece, dovrebbe trovar posto nella lotta contro le pietre che Trump si prepara a lanciare. In questa lotta si dovrebbe legare la difesa delle attuali tutele welfariste e il superamento delle esistenti stratificazioni nella loro erogazione alla denuncia della politica estera dell’amministrazione Obama, dell’obiettivo strategico (condiviso da Trump) di sottomettere la Cina posto al centro di questa politica estera e del servizio offerto a questa
strategia non solo dall’aggressione Obama-Targata alla Libia del 2011 o il supporto alla destra “arancione” in Ucraina nel 2014 ma anche dalle mosse apparentemente “pacifiste” di Obama, come il ritiro di 180 mila marines dal Medioriente nel 2011, l’accordo con Cuba e l’accordo con l’Iran, la
sigla (provvisoria) del Ttp.(8)
Il legame tra la politica interna e la politica estera di Obama
Considerazioni analoghe si possono svolgere sugli altri terreni di intervento economico-sociale della politica dell’amministrazione Obama.
È vero che i posti di lavoro “creati” a partire dal 2010 sono spesso precari e a basso salario, tant’è che molti lavoratori sono costretti a due-tre lavoretti e a orari lunghissimi in condizioni disagiate; è vero che coloro che hanno conservato il contratto fulltime a tempo indeterminato hanno subito (vedi la vicenda delle fabbriche automobilistiche) un forsennato aumento dei ritmi di lavoro; è vero che questo incremento dello sfruttamento dei lavoratori è uno dei segreti (non l’unico) della ripresa economica obamiana, ma è altrettanto vero che l’incubo profilatosi nel 2008 di scivolare nel precipizio della disoccupazione di massa come negli anni Trenta sembra, agli occhi dei lavoratori, allontanata e, per la mentalità riformista dominante al momento tra i lavoratori Usa, la ripresa strombazzata da Obama e quello che essa ha offerto loro non sono considerati risultati disprezzabili.
È vero che le disuguaglianze tra i redditi del 10% più ricco e quelli del rimanente 90% hanno continuato ad aumentare durante le due presidenze Obama, benché in misura molto meno rapida dal 2010 (9), ma è altrettanto vero che molti lavoratori, considerato quanto successo nei due decenni precedenti, hanno ritenuto che esse sarebbero aumentate maggiormente, se non fosse intervenuta la correzione fiscale in senso progressivo introdotta da Obama rispetto all’andazzo inaugurato da Reagan e proseguito fino a Bush II. È vero che la Casa Bianca non è riuscita a far passare, contro la maggioranza repubblicana al Congresso, l’aumento del salario minimo proposto, ma è altrettanto vero che essa ha varato un leggero ritocco verso l’alto e non ha messo il bastone tra le ruote, come invece hanno fatto il Tea Party e le amministrazioni locali repubblicane, alle rivendicazioni dei lavoratori dei fast-food e degli altri settori a basso salario.
È vero che la condizione degli immigrati è rimasta pesante, che l’apparato repressivo che fa gravare la mannaia dell’espulsione sui lavoratori immigrati irregolari è rimasto in piedi portando all’espulsione durante le due presidenze Obama di oltre due milioni di immigrati, ma è anche vero che agli occhi dei lavoratori immigrati non sono privi di valore il decreto varato da Obama nel 2014 (sfidando l’opposizione del Congresso) su una sanatoria (con permesso di lavoro triennale) per oltre 5 degli 11 milioni di immigrati irregolari degli Usa e il blocco dell’operatività del decreto da parte della Corte Suprema nel giugno 2016 dopo il ricorso di 26 governatori repubblicani di altrettanti stati (Texas in testa).
È vero che il peso di Wall Street sugli atti della Casa Bianca permane gigantesco, ma è anche vero che la legge Dodd-Franck, contrastata dal partito repubblicano e dal Tea Party, ha stabilito un controllo sulle attività finanziarie e sull’intreccio tra Wall Street e il Tesoro da parte del vertice statale federale e, quindi, da parte del centro che dovrebbe rappresentare l’interesse collettivo del capitale Usa e piegare ad esso anche gli interessi di questo o quel colosso finanziario. Se ne è avuta una riprova con la multa di 13 miliardi di dollari patteggiata dalla JpMorgan nel 2013 in conseguenza della frode da essa ordita sui mutui sub-prime. Tant’è che i colossi finanziari Usa non vedono l’ora di liberarsi della Dodd-Franck.
Per il peso inerziale delle tradizioni storiche e per le caratteristiche intrinseche del percorso di maturazione del proletariato dal riformismo alla rivoluzione, che può essere saltato solo da idealisti, agli occhi della stragrande maggioranza dei lavoratori democratici queste “mezze misure” non sono considerate, come effettivamente sono, il magrissimo e velenoso compenso riformista da pagare per il sostegno di una politica estera imperialistica che sarà una pietra al collo per gli stessi lavoratori Usa, ma il male minore o in taluni campi un primo passo verso un lavoro e un’esistenza meno precari. I vertici del partito democratico hanno giocato su questo sentimento per portare a casa nel 2016 un’altra vittoria presidenziale e continuare con Hillary Clinton la politica intrapresa da Obama. Essi hanno addirittura cercato di mettere a frutto a favore di questo obiettivo la stessa campagna elettorale di Bennie Sanders e la capacità di quest’ultimo di rinnovare la fiducia verso il partito democratico degli strati proletari più delusi e amareggiati.
Se questo calcolo dei vertici del partito democratico non è riuscito, è perché una fetta, limitatissima in termini percentuali ma significativa dal punto di vista politico ed elettorale, di lavoratori afro-americani e bianchi non è riuscita a turarsi il naso verso un candidato, Hillary Clinton, pappa e ciccia con l’oligarchia capitalistica statunitense, è rimasta disgustata dalle e-mail hackerate dai computer dei responsabili della campagna elettorale di Hillary e si è astenuta oppure ha dato il suo voto alla candidata dei Verdi Jill Stein o anche a Trump.
Questa fluttuazione, concentrata anche territorialmente in alcune aree in bilico tra democratici e repubblicani (gli stati del Midwest e la Florida), si è accoppiata, nelle stesse aree geografiche, a un lievo aumento dei voti raccolti da Trump e dal Tea Party, grazie alla capacità della loro macchina propagandistica di volgere contro gli immigrati, contro la Cina e ma) alla Casa Bianca le frustrazioni e lo scontento di una fascia di lavoratori bianchi messi sotto pressione dagli effetti della mondializzazione.
Le due fluttuazioni elettorali hanno portato nei tre stati del Wisconsin, del Michigan e della Pennsylvania a vantaggi di appena 20 mila, 10 mila e 45 mila voti a favore di Trump e, per i meccanismi istituzionali che reggono l’elezione del presidente degli Stati Uniti e che premiano le aree rurali e quelle più conservatrici a svantaggio delle aree urbane, alla conquista da parte di Trump della maggioranza dei seggi nell’assemblea dei grandi elettori, la quale (a prescindere dall’esito del voto popolare effettivo a favore di Hillary per 2.8 milioni di voti) ha eletto Trump come il 45-simo presidente degli Stati Uniti.
Note
(1) Inferiore di 4 milioni rispetto al numero di voti raccolti da Obama nel 2008.
(2) Nel 2008 il Pac della Microsoft distribuì il 60% dei suoi fondi ai democratici e il 40% ai repubblicani. Nel 2012 le due quote divennero 45-55 e nel 2016 sono diventate 35-65. I dipendenti della Microsoft, di Google, di Amazon, di Facebook sono rimasti invece maggioritamente orientati verso i democratici. Si veda l’articolo “Silicon Valley takes a right turn” sul New York Times del 12 gennaio 2017.
(3) Jill Stein ha preso 1.7 milioni di voti. Furono 470 mila nel 2012 quando si presentò con lo slogan “A Green New Deal for America”. Nel discorso di investitura alla convention dei Verdi di Houston ad
agosto 2016, il medico e attivista politico Jill Stein ha dichiarato: “Voglio dare la parole alla gente che ha partecipato con grande entusiasmo alla campagna di Sanders. E che si rifiuta di accettare che il movimento politico lanciato dal senatore muoia nel partito democratico. [...] Avete cambiato [voi “sandernisti, n.] completamente le dinamiche politiche, nulla sarà più come prima e niente vi fermerà fino a che non sarà raggiunto quel cambiamento che chiediamo a gran voce”.
(4) Il nostro giornale ha pubblicato sul programma e la politica di Obama i seguenti articoli: “Il sogno americano is over. Nessun Obama potrà resuscitarlo.” sul che fare n. 70 del gennaio 2009; “Le grandi ambizioni del piano Obama”, “I provvedimenti di «politica interna» varati o messi in cantiere da Obama” e “Lo scontro sulla riforma sanitaria” sul che fare n. 71 del novembre 2009; “Gli Usa dopo due anni di amministrazione Obama” e “Cosa prevede la riforma sanitaria approvata dal Congresso” sul n. 74 del che fare del giugno 2011.
(5) Vedi ad esempio il bilancio tratto da Martin Wolf sul Wall Street Journal del 10 gennaio 2017 nell’articolo “How Barack Obama rescued the Us economy”.
(6) Tra gli articoli sulla politica estera “pacifista” di Obama pubblicati sul che fare ricordiamo: “Asia, crocevia degli antagonismi del capitale mondializzato”, che fare n. 77 (dicembre 2012); “L’ordine capitalistico mondiale a guida Usa è ammalato. Dove conduce la cura messa in campo da Obama-Renzi?” e “I contrasti tra il Vietnam e la Cina nel mar Cinese e la lunga mano degli Usa” sul che fare n. 81 (dicembre 2014); “Dietro la politica di «distensione» di Obama verso Cuba e verso l’Iran”, che fare n. 82 (maggio 2015); “Gli Usa, la Ue e i loro alleati, in lizza tra loro, potenziano la loro aggressione al mondo musulmano per balcanizzarlo e, grazie a ciò, rapinarne le risorse naturali e umane” e “Il Giappone di Abe vara la sua prima portaerei e sostiene la politica promossa dagli Usa per accerchiare la Cina” sul che fare n. 83 (dicembre 2015).
(7) Il discorso è parzialmente diverso per le lavoratrici, vista la tutela della maternità inserita nell’ACA e in altri provvedimenti presi da Obama.
(8) Queste considerazioni rimandano ad un tema teorico di fondo che non possiamo svolgere in questo numero e che, però, non è male accennare. I provvedimenti nei confronti dei lavoratori varati da un governo non possono essere valutati limitandosi a considerare solo il loro aspetto economico.
Se ci si auto-confina a questa visione, è inevitabile riconoscersi nell’effetto immediato dei provvedimenti su questo o quel settore dei lavoratori. L’ACA verrebbe considerata allora positiva se analizzata dal punto di vista di un immigrato latinoamericano oppure negativa se analizzata dal punto di vista di un operaio bianco di una grande impresa del Midwest. Oppure l’ACA potrebbe essere liquidata con il giudizio, politicamente sterile, dettato da un astratto confronto tra l’ACA e il sistema sanitario “universale” francese (in via di smantellamento) oppure tra l’ACA e il piano sanitario della società socialista per la quale ci battiamo, mpossibile persino da immaginare da parte di chi considera il corpo umano come una macchina da spremere al servizio del profitto e da riparare o buttare in caso di guasto. La valutazione deve invece tener conto del rapporto che c’è stato tra il provvedimento e la mobilitazione dei lavoratori, i margini redistributivi concessi dalla fase del ciclo economico internazionale del capitale, il percorso politico compiuto dai lavoratori nel loro confronto-scontro con il governo, l’effetto di tale mobilitazione sui livelli di unità esistenti delle forze di classe. Guardando al futuro: se nella lotta a cui i lavoratori sono chiamati da Trump e che speriamo mettano in campo, i fosse un rafforzamento del senso di unità tra i lavoratori bianchi, afro-americani e latinoamericani e si aprisse un barlume sul legame tra la loro sorte e quella degli sfruttati degli altri continenti, l’esito dello scontro potrebbe essere considerato positivo anche in presenza di un taglio parziale delle tutele oggi esistenti imposto da Trump grazie ai rapporti di forza complessivamente favorevoli alla borghesia.
È il vecchio e più che mai attuale problema del senso politico delle lotte difensive o migliorative del proletariato, del rapporto tra queste lotte e la lotta prospettica di emancipazione sociale degli sfruttati.
(9) Vedi ad esempio lo studio del 2016 di T. Piketty, E. Saez, G. Zucman “Economic growth in the United States. A tale of two country”.
La sfida a cui sono chiamati i lavoratori Usa dalla Casa Bianca di Trump
Se nell’articolo precedente ci soffermiamo sugli effettivi risultati elettorali del novembre 2016 e mostriamo che essi non attestano alcuna fuga di massa dei lavoratori Usa da Obama a Trump, non è perché reputiamo Hillary Clinton meno peggiore di Donald Trump. Lo facciamo perché questo aiuta a stabilire dove effettivamente sta dal punto di vista politico la classe operaia degli Usa, in tutte e tre le sue componenti e non solo in quella bianca, e come impostare una battaglia politica in vista dei percorsi (differenziati) di riunificazione dietro la prospettiva del comunismo internazionalista dei tre segmenti che compongono la classe operaia Usa, quello bianco, quello afro-americano e quello latino-americano.
Il voto di tanti lavoratori bianchi a Trump segnala l’erosione dei tradizionali privilegi, ma segnala anche la loro (non eterna) dislocazione su posizioni che approfondiscono le divisioni nel proletariato, negli Usa e nel mondo, e non certo la loro disponibilità alla lotta di classe se solo si presentasse sul mercato politico un partito dei lavoratori capace di sciorinare un elenco di rivendicazioni “dure e pure”. Non accade qualcosa di sostanzialmente diverso, come abbiamo detto, per i lavoratori (non solo bianchi) democratici, ma sarebbe un delitto politico scansare il percorso specifico che sta interessando un settore minoritario di questi ultimi: anche per effetto delle lotte degli ultimi anni (ne parliamo a pag. 4), proletari bianchi, afro-americani e latinos si sono ritrovati gomito a gomito nel calderone rappresentato da Sanders; essi hanno rinnovato il loro voto ai democratici senza la delega in bianco del 2008 e in alcuni nuclei è emersa l’esigenza di contare su una (ancora primordiale) organizzazione politica separata. Anche sul piano generale rimane vero quello che abbiamo detto per il caso particolare della sanità a proposito della “cecità” di questo settore più avanzato rispetto al nesso tra la politica “sociale” e la politica estera dell’amministrazione Obama, ma sarà impossibile superare questo limite prima che i lavoratori Usa abbiano assaporato le conseguenze apocalittiche dello scontro in preparazione contro la Cina.
Le basi sociali del trumpismo
La vittoria di Trump non è il frutto, quindi, di nessuna rivolta degli sfruttati contro l’élite di Wall Street.
Magari le cose stessero così! Come accenniamo nella scheda di pag.5, il programma di Trump è nato in alto, in quei settori della borghesia statunitense (tra cui un’ala della lobby sionista pro-Netanyhau) che non intendono accettare la limatura dei loro ristretti interessi prevista dal lungimirante piano di rilancio dell’imperialismo Usa portato avanti da Obana. Il programma incarnato da Trump punta sull’eliminazione dei lacci welfaristi, fiscali, finanziari e ambientali introdotti da Obama in politica interna, sulla sostituzione dell’attuale sistema di assistenza (Medicaid, Medicare, ACA) con un sistema a base di voucher, sul rafforzamento dell’industria Usa attraverso barriere protezionistiche più che attraverso la modernizzazione e l’efficientizzazione tecnologica, su un più stretto raccordo con Israele in Medioriente, sulla contrapposizione con l’Iran, sulla precipitazione dello scontro con la Cina, per la cui conduzione non viene ritenuta necessaria la grande coalizione (interna e internazionale) tessuta da Obama ma solo lo sganciamento di Mosca da Pechino (peraltro previsto anche dalla strategia di Obama ma in una forma più accorta, anche per la preoccupazione imperialisticamente sana di rinsaldare il legame di Washington con Berlino).
Per alcuni anni il programma di Trump è rimasto minoritario all’interno della borghesia Usa, alle prese con l’emergenza finanziaria, timorosa che la crisi economica del 2008 portasse ad una polarizzazione politica interna e attenta a recuperare (con l’aiuto di Obama) la diffidenza verso le magiche doti del mercato suscitata tra la gente comune dal crollo dei subprime.
Se nel 2016 Trump è riuscito a strappare la Casa Bianca, in contrasto con la volontà della potente ala dell’oligarchia capitalista Usa sostenitrice di Hillary Clinton (10), ciò è accaduto in virtù della combinazione di tre “contingenze”.
1) Dal 2012 in poi, gli interessi medio e alto borghesi in contrasto con Obama rappresentati nel Tea
Party hanno ripreso fiato, anche per il superamento, agevolato dalla politica di Obama, dell’emergenza del 2007-2009 e del diradarsi delle preoccupazioni politiche suscitate da essa tra gli stessi capitalisti. Questa ripresa e il parallelo spostamento verso i repubblicani anche di alcune grandi
imprese (quelle ad esempio della Silicon Valley) tradizionalmente vicine ai democratici(2), hanno permesso al Tea Party e al partito repubblicano di allargare il loro peso nel Congresso nelle elezioni di medio-termine e, soprattutto, di allargare la presa elettorale sulla loro tradizionale base proletaria bianca, anagraficamente meno giovane di quella media e preoccupata che la redditività dei fondi pensione fosse messa a rischio dalla riforma sanitaria e dai lacci all’attività finanziaria speculativa introdotti da Obama, illusa di poter tutelare la propria condizione lavorativa con il protezionismo e con la rimessa in riga degli immigrati e degli sfruttati dei paesi emergenti.
2) I centri di comando dell’imperialismo Usa orientati a favore del programma democratico hanno ritenuto di non dover affossare il programma Trump, ma di poterlo-doverlo allisciare per mitigare gli interventi “sociali” di Obama e per bilanciare l’effetto sulla politica di Hillary Clinton della mobilitazione popolare coagulata attorno alla campagna di Sanders (anche al prezzo di entrate a gamba tesa per le stesse regole democratiche come la riapertura dell’inchiesta su Hillary Clinton ad opera del capo della Cia, Comey, pochi giorni prima delle elezioni del novembre 2016).
3) Le conseguenze politiche delle due manovre tra i lavoratori e la loro rifrazione istituzionale attraverso le regole del gioco elettorale Usa hanno prodotto un effetto non voluto dall’ala più accorta della borghesia Usa: pur portando a casa 2.8 milioni di voti in meno di Hillary Clinton, con un distacco vistoso e crescente in alcune tra le aree capitalisticamente avanzate del paese, tra cui la California, ad arrivare alla Casa Bianca è stato Trump, non il candidato atteso dall’ala del grande capitale più attento agli interessi complessivi dell’imperialismo Usa e alla stabilità dell’ordine capitalistico internazionale.
Dal partito democratico non verrà nessun aiuto alla lotta contro Trump. Anzi.
Non è difficile prevedere l’attacco profondo che Trump intende sferrare contro i lavoratori. Basta scorrere la lista dei ministri di Trump, per farsi un’idea della natura del populismo di Trump e da chi sia costituito il popolo a cui Trump afferma di aver conferito il potere. La natura della politica della Casa Bianca di Trump non cambierà di una virgola se Trump riuscirà ad offrire qualche posto di lavoro iperselezionato grazie all’introduzione di dazi protezionistici, grazie al ricatto a questa o quella ditta dipendente da commesse statali per consigliare una limatura dei piani produttivi (almeno provvisoriamente) nel nome del ritorno dei posti di lavoro delocalizzati (11) e grazie all’avvio del promesso piano di revisione delle infrastrutture. (Questo piano era stato già predisposto da Obama e bloccato dall’opposizione repubblicana al Congresso. Ora Trump lo ripropone su basi diverse, non più funzionali, come accadeva con Obama, all’organico rilancio della produttività del capitale Usa nel suo insieme sotto la guida dello stato centrale ma ai semplici appetiti di questa o a quella corporation.)
I lavoratori più lungimiranti e combattivi sono chiamati a denunciare senza tentennamenti quello che si prepara (anche se con la giustificazione di donare buoni posti di lavoro ai lavoratori degli Usa) e a contrastare le offerte di collaborazione che dai vertici dell’Afl-Cio e dell’Uaw o dallo stesso Sanders sono state lanciate a Trump affinché egli mantenga fede alle promesse rivolte ai lavoratori durante la campagna elettorale.
Questa opera di denuncia e l’organizzazione della mobilitazione non dovranno inoltre farsi condizionare dalla preoccupazione di giocare di sponda con i contrasti tra l’ala trumpista e quella democratica della classe dirigente Usa.
Questi contrasti non sono un gioco delle parti. Sono profondi. L’insediamento di Trump alla Casa Bianca è visto con preoccupazione dai circoli più avveduti dell’imperialismo Usa.
Essi stanno tentando di smussarne le “ristrettezze” e di “hillarizzarlo”, anche attraverso la mediazione dell’ala moderata del partito repubblicano, ancora ben rappresentata nei due rami del Congresso e persino in alcuni neoministri, come ad esempio il generale Mattis e lo stesso Tillerson. Può darsi che vi riescano, soprattutto nel campo del commercio internazionale con i paesi asiatici e americani, in cui l’eventuale affossamento del Nafta e del Ttp auspicato da Trump avrebbe, tra l’altro, l’effetto di offrire alla Cina un campo di intervento agevolato per la propria espansione economica e geopolitica.
La riuscita di questo tentativo è, però, tutt’altro che scontata. Se esso fallisse, si aprirebbe, ben oltre le linee di frattura odierne, una spaccatura verticale e geografica nella borghesia statunitense, suscettibile di conseguenze profonde nelle relazioni tra le classi negli States e nei rapporti internazionali. Per ora si può rilevare che la presunzione di poter manovrare a proprio piacimento, come avveniva nell’epoca delle vacche grasse, gli attori sociali e i contrappesi istituzionali ha giocato un brutto tiro ai vertici dell’imperialismo Usa. Questa presunzione può essere il sintomo di un indebolimento strutturale della capacità dell’imperialismo Usa di affrontare le crepe apertesi nella stabilità dell’ordine capitalistico mondiale ma potrebbe anche essere solo una parentesi destinata a rilanciare, su basi più solide entro la stessa borghesia Usa, la strategia di Obama, in una forma moderata o in una forma sandersiana.
Chi intende opporsi da un punto di vista proletario al programma di Trump non potrà trovare un lleato
nell’ala liberal della borghesia Usa, i cui assi strategici, come visto con Obama, anche quando socialmente “progressisti”, sono politicamente antitetici agli interessi proletari e conducono, pur se su un cammino diverso da quello di Trump, allo stesso scontro fratricida con i lavoratori della Cina e con altri popoli. Va invece portato avanti il tentativo di mettere in piedi una rete organizzata autonoma
dai caucus democratici, di cui forse si manifesta l’esigenza nella fondazione di Our Revolution da parte di Bennie Sanders o del Black Lives Matter. Il percorso di maturazione politica di un nucleo proletario Usa potrebbe fare dei passi in avanti entro questa rete sociale-politica non per le piattaforme
che vi circolano e che riscodellano versioni diverse del programma social-imperialista democratico, ma per l’apertura di ambiti di discussione politica collettivi sotto lo stimolo delle iniziative di lotta immediate che punteggiano il panorama degli Usa e che probabilmente saranno alimentate dalla politica di Trump. Su questa base e in queste iniziative sarà vitale rivolgersi anche verso i lavoratori che hanno votato Trump, chiamandoli a difendere le postazioni immediate messe nel mirino dalla squadra di governo di Trump e mostrando loro, in questa lotta comune, che la difesa dagli effetti della mondializzazione capitalistica e della concorrenza tra lavoratori di paesi e continenti diversi passa per una strada completamente diversa da quella proposta da Trump a colpi di dazi protezionistici, di
espulsioni di massa degli immigrati e di provocazioni nei confronti del popolo cinese.
Verso i lavoratori che hanno votato Trump
Dal ragionamento svolto fin qui risulta chiaro che il nostro rigetto della chiave di lettura “populista” della vittoria di Trump non significa considerare perduti alla causa proletaria i lavoratori che hanno votato per Trump o che non ci si debba impegnare in una specifica propaganda nei loro confronti. Tutt’altro. Questa iniziativa deve confrontarsi con le istanze di classe che, in forma mistificata, si esprimono nel voto per Trump, ben sapendo che la contraddizione tra esse e l’impianto politico del nuovo presidente non esploderà in virtù della semplice propaganda, per quanto ben orchestrata e basata su fatti reali, ma richiederà il terremoto generato dallo scontro mondiale con la Cina che si
annuncia all’orizzonte, qualunque sia il timoniere (democratico o repubblicano) della Casa Bianca.(12)
I lavoratori Usa che hanno votato per Trump sono preoccupati di difendersi dalla “concorrenza sleale”
dei lavoratori cinesi. Bene: un passo realmente efficace in questa direzione sarebbe quello di sostenere il percorso di organizzazione, iniziato più di dieci anni fa, dei lavoratori cinesi per migliorare
le loro tutele; sarebbe quello di opporsi all’offensiva contro questo percorso condotta dalle multinazionali occidentali, tra cui quelle del mondo rappresentato da Trump, dai fratelli Koch, da Fox News, da Ford, da Amazon... e dalle tante imprese che, odorando la pioggia di tagli fiscali e di deregulation ambientale che potrebbe arrivare dalla nuova Casa Bianca, ora fa le fusa a Trump. Il passo da fare è, quindi, quello verso la parificazione al rialzo delle condizioni dei lavoratori dei due continenti e la costruzione di un’organizzazione di lotta comune. Il protezionismo di Trump, anziché uni-re i lavoratori degli Usa e della Cina, li divide, li spinge a “bloccare” con i rispettivi padroni nella spirale della concorrenza che li soffoca.
Una considerazione analoga vale per i lavoratori immigrati negli Stati Uniti dall’America Latina o da altri paesi. Non hanno anch’essi iniziato nel primo decennio del XXI secolo un percorso di lotta e di organizzazione per conquistare il permesso di soggiorno e diventare meno ricattabili di fronte alle direzioni aziendali? E questa battaglia non è vantaggiosa anche per i lavoratori statunitensi che si vedono usare i lavoratori immigrati come arma (involontaria) di ricatto dalle forze padronali? La politica di Obama sull’immigrazione va denunciata e lottata non perché la Casa Bianca è stata costretta a concedere qualcosa alle rivendicazioni degli immigrati, ma perché tali interventi sono stati parziali e interni ad una politica nell’insieme destinata a irregimentare i lavoratori immigrati al servizio della macchina dello sfruttamento Usa.
Con i muri e le espulsioni promessi da Trump la ricattabilità e il supersfruttamento dei lavoratori immigrati aumenteranno.
Nella propaganda verso i lavoratori che hanno votato Trump va inoltre messo in rilievo che la demagogia di Trump sul Nafta e sul Ttp sorvola su un altro punto fondamentale. Gli arretramenti dei lavoratori Usa non nascono solo dalla cosiddetta delocalizzazione, ma anche dall’automazione (introdotta dai capitalisti per aver manodopera ricattabile e per arginare il percorso di organizzazione dei lavoratori) e, più in generale, dall’erosione delle basi oggettive (interne agli Usa e internazionali) del compromesso sociale tra capitale e lavoro salariato siglato nel novecento. Questo compromesso
non potrà rivivere, non importa quante volte Trump ripeterà che la sua Casa Bianca tornerà a far grande l’America e, con essa, la classe operaia bianca, un po’ come accadeva negli anni d’oro del novecento.
Quel compromesso non potrà rivivere neanche in presenza dell’aggressione promessa da Trump contro la potenza capitalistica ascendente cinese e contro i lavoratori cinesi.
Questo scontro, di cui i dazi protezionistici anti-cinesi di Trump e la telefonata tra Trump e il presidente di Taiwan sono un anticipo, apporterà, infatti, ai lavoratori Usa un diluvio di sacrifici e di barbarie perché la Cina, la Cina borghese e la Cina proletaria, non accetteranno di farsi mettere i piedi in testa. Già all’indomani della seconda guerra mondiale, gli Usa toccarono con mano di cosa sono capaci il popolo e gli sfruttati cinesi e furono costretti ad abbandonare il loro sogno di colonizzare l’immenso paese attraverso il loro burattino (poi rifugiato a Taiwan) Chiang Kai-shek.
Figuriamoci cosa accadrà nel prossimo futuro! D’altra parte basterebbe dare un’occhiata agli editoriali degli organi di stampa cinesi per rendersene conto.
Nessuna contrapposizione, dunque, con i lavoratori della Cina e con i lavoratori immigrati. Solidarietà con le loro lotte, da conoscere e socializzare.
Rottura della solidarietà, invece, con i proprio padroni, con quelli democratici e con quelli repubblicani. Questo sì che farebbe respirare i lavoratori degli Usa, soprattutto perché, in questa battaglia, un nucleo di essi, l’avanguardia di questa classe dalle tradizioni storiche di lotta vigorose, si aprirebbe all’intuizione che al di sotto dei problemi del presente c’è la vecchia contraddizione tra la socializzazione delle forze produttive e l’appropriazione privata capitalistica di essa e che l’unica via d’uscita realistica da questa tenaglia è quella rivoluzionaria indicata dalla dottrina marxista: l’instaurazione di un’altra organizzazione sociale, quella comunista, sulle ceneri del sistema capitalistico.
Note
(10) Questa volontà è stata ben rappresentata dalle posizioni pro-Hillary Clinton assunte dal New York Times e dal Washington Post, e dall’endorsement di Hillary Clinton da parte di un repubblicano come Kissinger.
(11) Prima delle elezioni presidenziali di novembre, Carrier, un’impresa che costruisce condizionatori d’aria che fa parte di un gruppo che riceve succose commesse dal Pentagono, aveva annunciato di trasferire duemila posti di lavoro dall’Indiana in Messico. Agli inizi di dicembre 2016, l’allora presidente-eletto Trump si incontra
con i dirigenti dell’azienda e ottiene il mantenimento in Indiana di 850 posti di lavoro. Trump presenta il caso come un esempio della sua politica presidenziale di rientro dei posti di lavoro delocalizzati. Qualche giorno dopo un rappresentante sindacale dell’Indiana, Chuck Jones, denuncia che gli 850 posti di lavoro sono a tempo. Su alcuni quotidiani statunitensi, tra cui lo stesso Wall Street Journal, emerge inoltre che, per convincere i dirigenti aziendali Carrier, Trump ha promesso sgravi fiscali per 7 milioni di dollari e probabilmente qualche altro do ut des con il Pentagono, di cui Carrier è fornitrice. Trump se la prende con il rappresentante sindacale e scrive: rappresentare sindacalmente i lavoratori non è un bel lavoro e Mr. Jones farebbe meglio a parlare di meno e a lavorare di più.
(12) Il 16 settembre 2016, quasi due mesi prima delle elezioni presidenziali, in un articolo sul Wall Street Journal intitolato “Sizing-up the next Commanderin-Chief”, Robert Gates, ex-capo del Pentagono sotto Bush II e sotto Obama, scrisse che la prima grave crisi che il nuovo presidente, Hillary Clinton o Trump, sarà chiamato ad affrontare sarà internazionale. “Seguendo la campagna presidenziale non si direbbe, ma la prima grave crisi cui il nostro nuovo presidente si troverà a fronteggiare molto probabilmente sarà internazionale. La lista delle possibilità è lunga, più lunga di quanto essa non fosse otto anni fa.” Per Gates, in testa a queste sfide c’è quella con la Cina. “Ogni aspetto del nostro rapporto con la Cina sta diventando più impegnativo. Oltre alcyber-spionaggio cinese e al furto della proprietà intellettuale, molte aziende americane in Cina stanno incontrando un crescente ambiente ostile. La determinazione nazionalista cinese per affermare la sovranità sulle acque contese e sulle isole nel Est e nel Sud dei mari della Cina sta costantemente incrementando il rischio di un confronto militare. Più preoccupante, dato il loro storico astio, è l’escalation di un confronto fra Cina e Giappone. In qualità di partner legati da un trattato con il Giappone, noi saremmo obbligati ad aiutare Tokyo. La Cina intende sfidare gli Usa per il dominio regionale nell’Asia Orientale sul lungo termine. [...] Rapportarsi efficacemente con la Cina richiede un presidente con acume e visione strategica, nuance, abilità diplomatiche e politiche, prontezza di valutare quando sfidare, quando rimanere in silenzio o quando fare compromessi o essere partner.”
Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA