Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017
Europa, Italia
La vittoria del “no” al referendum di dicembre
non segna alcuno scampato pericolo.
L’opera anti-proletaria del governo Renzi è portata avanti, con più accortezza e
con la collaborazionetra destra e “sinistra”, dal governo Gentiloni.
La vittoria elettorale del “no” segna un punto a favore del proletariato nello scontro di classe in Italia tra borghesia e proletariato?
Se si considerano la sostanza della riforma costituzionale e la netta prevalenza del “no” tra i lavoratori, si potrebbe essere tentati di rispondere affermativamente alla precedente domanda. Eppure non è questo il senso politico della vittoria del “no”, non è questa la dinamica politica in corso nelle fila proletarie.
A nostro avviso il referendum ha confermato che nel proletariato si stanno accentuando le contrapposizioni e il suo accodamento alle due-tre-quattro prospettive politiche borghesi di destra presenti sulla piazza politica italiana incarnate dal “si” e dalle diverse opzioni operanti nel “no”.
Sappiamo bene che non sono mancati lavoratori che hanno voluto esprimere con il loro “no” il rigetto della politica di Renzi, il rigetto di fasulle opposizioni (M5S, Lega Nord) e l’aspirazione a voltare pagina nella difesa di classe.
Affinché il “no” espresso da questo settore minoritario di lavoratori funga da reagente contro la deriva a destra e lo sfrangiamento in corso tra le fila del proletariato d’Italia, occorre prendere atto dell’effettivo senso del risultato referendario, evitare di cullarsi nell’illusione di aver ridotto il danno, risalire dai problemi che erodono la condizione proletaria alla loro causa, il sistema capitalistico internazionale, individuare l’unico mezzo di difesa nella lotta e nella battaglia per l’unificazione dei lavoratori in Italia e a livello internazionale. Questa battaglia ha un suo tassello fondamentale nella lotta contro il razzismo.
Nei mesi precedenti il referendum del 4 dicembre 2016 i giornali e le tv del “fronte del no” hanno dato ampio rilievo a un documento del 2013 della banca d’affari statunitense JpMorgan e all’intesa stabilita tra la banca Usa e Renzi con la triangolazione di Blair.
La vicenda, che riassumiamo nella scheda, è istruttiva. Essa mostra, senza fumosi giri di parole, quale fosse il vero obiettivo della riforma costituzionale di Renzi e della legge elettorale maggioritaria accoppiata con essa: ferreo accentramento del potere nelle mani del governo per rendere rapidamente operativi i provvedimenti (in politica interna e in politica estera) richiesti dal soggetto da cui il governo prende ordini, i grandi poteri capitalistici.
La politica per compiere questa ristrutturazione autoritaria dello stato non comincia, però, con Renzi, ma all’inizio degli anni novanta del XX secolo. In quegli anni i vertici della borghesia italiana e atlantica presero atto che, per utilizzare a proprio vantaggio
la mondializzazione capitalistica in corso e la conquista degli spazi vitali apertisi all’Est con la caduta dei muri e il decollo capitalistico cinese, era ed è necessario mettere fine al compromesso sociale siglato in Italia durante il secondo dopo-guerra, sotto l’impeto delle lotte proletarie.
Al centro di questa ristrutturazione istituzionale, che l’Organizzazione Comunista Internazionalista non ha scoperto nel 2016 quando è emerso il documento della JpMorgan ma ha analizzato e lottato sin dai suoi primi passi (1), vi erano e vi sono tre operazioni sociali.
La ristrutturazione autoritaria della repubblica non comincia con Renzi.
Prima di tutto, vi erano e vi sono lo sgretolamento del potere di difesa collettiva dei lavoratori, la riduzione-eliminazione delle conquiste proletarie del secondo dopoguerra (Statuto dei Diritti dei Lavoratori, pensioni, sistema sanitario nazionale, contratto nazionale di lavoro, ecc.), la totale subordinazione dei lavoratori (atomizzati) alle esigenze di competitività delle aziende e del sistema-Italia.
In secondo luogo, vi erano e vi sono il dimagrimento delle clientele e del tessuto di piccole imprese coltivati nel secondo dopoguerra dai magnati dell’industria e della finanza italiani e dai loro protettori statunitensi per bilanciare in senso moderato la forza del movimento operaio organizzato.
Il rafforzamento della competitività dei monopoli industriali e finanziari italiani, dell’Azienda-Italia e dell’Azienda-Europa richiedeva e richiede l’accentramento nelle mani delle grandi banche e delle grandi imprese della ricchezza detenuta da questo ampio strato di ceti medi, il taglio degli addentellati istituzionali di questo ampio serbatoio entro il parlamento e le regioni, l’attivizzazione di questi strati sociali contro il mantenimento delle tutele collettive dei lavoratori.
In terzo luogo, la ristrutturazione autoritaria della “repubblica uscita dalla resistenza” avrebbe dovuto portare, nei progetti di lor signori, alla formazione di un unico partito
della nazione asservito alle compatibilità capitalistiche e articolato in due tronconi, quello democratico e quello conservatore, da mandare a turno nella stanza dei bottoni a seconda delle situazioni e da mantenere in velenosa concorrenza reciproca per ridurre la tendenza della sfera politica di coltivare interessi di bottega a svantaggio di quelli della complessiva stabilità dell’edificio borghese.
Benché rallentata dalle lotte che dagli inizi degli anni novanta per oltre un decennio seppe mettere in campo la classe lavoratrice in Italia, dall’inizio degli anni novanta del
XX secolo al 2012 l’attuazione del programma dei re dell’industria e della finanza, italiani e atlantici, ha compiuto enormi progressi. Cominciò il picconatore Cossiga. Continuò il duo Amato-Ciampi con i primi colpi d’ascia alle tutele previdenziali.
Il pallino passò poi (attraverso la rottamazione di Andreotti e di Craxi via Tangentopoli) nelle mani del trio Berlusconi-Bossi-Fini, al loro assalto (frenato) al sistema pensionistico e al loro tentativo (non riuscito) di riforma autoritaria dello stato del 1995 (Lega Nord ben ligia nel mazzo!).
Frenata nella sua versione berlusconiana dalla levata di scudi proletaria del 1994-1995, l’offensiva continuò attraverso il governo “tecnico” di Dini e poi quelli di centro-sinistra (Prodi, D’Alema e Bertinotti), con una nuova tosatura sulle tutele pensionistiche, con l’ingresso nell’euro, con la partecipazione all’aggressione Nato alla Jugoslavia e con l’aratura del terreno per il ritorno del centrodestra di Berlusconi-Bossi-Fini. Che puntualmente arrivò nel 2001. Giusto in tempo per dare il benvenuto alle manifestazioni di Genova anti-G8.
Degnamente seguito dalla tentata spallata all’articolo 18 (portata a termine da Renzi dopo 10 anni), dalla partecipazione all’aggressione finale neocons all’Iraq, dal tentativo di accelerare i lavori Tav in Val di Susa e, incassato l’effetto narcotizzante sulle mobilitazioni difensive dei lavoratori da parte della seconda parentesi prodiana nel 2006-2008, dalla riforma della scuola a firma Gelmini, da altri rosicchiamenti al welfare, dalla ricostruzione a firma Bertolaso dell’area colpita dal sisma del 2009 in Abruzzo, dalla partecipazione all’aggressione contro la repubblica libica di Gheddafi,
dall’articolo 8 di Sacconi sulla deroga dei contratti aziendali rispetto a quelli nazionali e dal passaggio del testimone al governo “tecnico” di Mario Monti e all’ascia previdenziale della legge Fornero.
L’opera svolta dai vertici della sinistra, politica e sindacale
L’avanzata delle ruspe governative italiane (di destra, di sinistra e “tecniche”) è stata favorita dall’opera di smobilitazione del tessuto militante proletario incorporato entro la sinistra italiana. Quest’opera è stata guidata, con percorsi diversi ma convergenti, da Occhetto-D’Alema-Veltroni-Renzi, da Cossutta-Bertinotti e da Trentin-Cofferati-Epifani-Camusso, ed ha portato alla liquefazione dei tronconi dell’ex-Pci e dell’attività
sindacale di base entro il mare magnum della liberaldemocrazia di Blair, assunta a stella polare della sinistra italiana da D’Alema ben prima che il bugiardo lib-lab britannico (divenuto nel frattempo consulente JpMorgan) scegliesse come interlocutore nostrano Renzi (2).
Questa liquidazione del tessuto militante incorporato entro il riformismo italiano è stata oliata dalla propaganda contro la “forma-partito” orchestrata dai mezzi di informazione e dai vertici della sinistra, dall’invito rivolto ai lavoratori a liberarsi da questo presunto mostro-partito in nome del qualunquistico rigetto della cosiddetta “casta”, ovviamente per far così diventare i lavoratori facili prede (una volta sciolti nell’acido della “società
civile” e atomizzati) del partito più organizzato che mai dei capitalisti, con i suoi centri-studi, le sue tavole rotonde, le sue “cene di lavoro”, i suoi raduni, la sua martellante campagna televisiva, la sua corte di parlamentari e di magistrati amici, il suo manipolo
di inamovibili “alti servitori dello stato” ai vertici della pubblica amministrazione,
il maneggio dei tentacolari apparati burocratici agli ordini di questi ultimi.
Anche su questo terreno, Renzi, con le sue tirate blairiane per superare le deleterie “vecchie ideologie” e gli ingessati apparati sindacali e partitici, si è limitato a imitare chi lo ha preceduto.
Ad esempio l’ex-segretario del Partito Democratico della Sinistra (1994-1998) poi ex-primo ministro guerrafondaio (1998-1999) ed exblairiano avente nome D’Alema, oggi
scandalizzato della coerenza con cui il suo figlioccio, Renzusconi, porta avanti con coerenza i presupposti della svolta della Bolognina e ne mostra la convergenza-affinità con il berlusconismo.
Riflettano attentamente su questa storia i giovani lavoratori attratti da Grillo e dalle sue tirate contro la forma-partito e per il superamento delle distinzioni “destra-sinistra”!
Nel 2012 il grande capitale italiano e atlantico assegnò al governo Renzi il compito di raccogliere i frutti di questa opera ventennale e di completarla.
Il governo Renzi è riuscito nel suo intento sul terreno del “Jobs Act” e della “Buona Scuola”, grazie al fatto che, per l’opera dei suoi predeccessori, non ha incontrato la resistenza sindacale che anni prima aveva frenato Berlusconi e Luigi Berlinguer. Dopo
la vittoria sul mercato del lavoro e sulla scuola, il governo Renzi e i suoi padrini si aspettavano di far filotto con le due contro-riforme istituzionali. Si aspettavano di assemblare un’ampia maggioranza, come quella che nel 2011-2012, contando sul sostegno dei tanti fautori del “no” al referendum del 4 dicembre 2016, aveva votato la revisione, proposta da Tremonti, di quattro articoli costituzionali per inserire il principio del pareggio del bilancio nella costituzione italiana.
Il filotto non c’è stato. Non che il “sì” non abbia raccolto un ampio sostegno sociale sia tra i borghesi che tra i lavoratori. A favore di Renzi si sono schierati i proprietari delle imprese legate alle esportazioni (soprattutto come fornitrici dell’industria tedesca) e di quelle che nell’ultimo ventennio sono riuscite a internazionalizzarsi dislocando fasi della lavorazione o stabilimenti di montaggio nell’Europa dell’Est e nei
paesi dell’Africa settentrionale.(3)
Per queste imprese i residui lacci della prima repubblica italiana (soprattutto la dispersione delle risorse in una pubblica amministrazione inefficiente e la permanenza di un sistema sanitario pubblico che assorbe oltre 100 miliardi di euro all’anno) sono un ostacolo per surfare vantaggiosamente sull’onda della mondializzazione e tenere il passo con la doppia morsa dell’ascesa della Cina e del recupero dell’industria statunitense compiuta durante e grazie alla doppia presidenza Obama. A favore di Renzi si sono schierati anche tanti lavoratori, soprattutto del centro nord, quelli legati, direttamente o indirettamente, alla rete di imprese che sono riuscite a modernizzarsi e a rilanciarsi negli ultimi anni, convinti di trarre vantaggio come lavoratori, insieme alle loro imprese, dall’aumentata efficienza della macchina statale.
Questo doppio appoggio sociale, a cui si è sommata una quota di voto di scambio da parte dei pensionati per l’obolo riservato loro dalla finanziaria 2017 e dai ceti medi impelagati nel dissesto delle banche e abbacinati dal piano di risanamento Padoan-JpMorgan, non è stato però sufficiente per assicurare a Renzi lo sprint finale.
Negli ultimi due anni è, infatti, cresciuto un fronte sociale e politico composito che si è orientato contro la riforma costituzionale e contro la riforma elettorale.
Il composito fronte del “no”
Il via via più ampio fronte del “no” ha compreso strati sociali e sentimenti politici diversificati. Ha compreso gli strati borghesi e popolari abbarbicati al sistema clientelare della prima repubblica o colpiti dalla riduzione del peso delle regioni implicato dalla sostituzione del centrifugo “Senato delle regioni” di calderoliana memoria con quello tendenzialmente accentratore di Renzi-Boschi.(4) Ha compreso i piccoli e i medi industriali rimasti confinati in segmenti protetti del mercato nazionale,
e polemici con Renzi per due motivi: un’insufficiente opposizione alla politica centralizzatrice della Ue e una politica ritenuta incapace di ridurre in catene la gallina dalle uova d’oro per i loro affari rappresentata dai lavoratori immigrati. Il fronte del “no” ha compreso, poi, ampi settori popolari giovanili alle prese con la precarietà, disgustati dalla falsità spudorata della luccicante rappresentazione della realtà italiana propagandata da Renzi e inviperiti da una politica governativa considerata troppo debole verso chi è visto da quegli stessi giovani come la causa delle proprie difficoltà, i lavoratori immigrati. Il fronte del “no” ha infine compreso anche ristretti gruppi di lavoratori impegnati nella residua attività sindacale esistente in Italia e, dopo la sconfitta sul “Jobs Act” e sulla “Buona Scuola”, intenzionati con il loro “no” a mandare a Renzi un segnale elettorale di protesta, pur senza avere la volontà e la forza, purtroppo, di prendere posizione nettamente contro le posizioni sull’Europa e sugli immigrati dell’estrema destra e del M5S e senza iniziare a mettere in discussione le basi (teoriche, politiche e organizzative) dell’attuale dissesto politico proletario.
Resosi conto della crescita di questa multiforme opposizione e della possibilità di non mettere a frutto la nuova legge elettorale maggioritaria per il calo dei consensi al partito democratico, Renzi, dall’estate 2016, ha iniziato a rincorrere il cosiddetto “populismo”:
ha alzato i toni con la Ue, anche per ricevere i favori promessi dagli Usa dopo la promozione dell’Italia a principale cavallo di Troia nella Ue al posto del Regno Unito post-Brexit; ha allentato i cordoni della spesa pubblica in un’ottica clientelare da prima
repubblica verso settori selezionati del pubblico impiego e dei pensionati (vedi alcuni articoli della legge finanziaria del 2017 e vedi le istruzioni del governatore della Campania De Luca ai suoi amministratori); ha cercato di ricucire con la Cgil, orientata a favore del “no”, incoraggiando la chiusura delle vertenze contrattuali aperte nel pubblico impiego e il varo della inconsistente legge sul caporalato (ne parliamo a pag.16); ha messo in ombra nella propaganda referendaria governativa l’effettiva finalità delle riforme istituzionali a vantaggio di aspetti marginali e demagogicamente
attraenti.
Questa campagna del governo non ha, però, sottratto consensi al coagulando fronte del “no”. Lo ha semmai incoraggiato. Ha invece cominciato a preoccupare l’ala del grande capitale italiano (schierata con il “sì”) più attenta al valore strategico, per i suoi interessi, della costruzione europea, contrariata dalla deriva clientelare di Renzi e dalla cessione di pezzi importanti dell’apparato bancario e industriale italiano agli Usa, come
indicato dalla vicenda Monte dei Paschi di Siena. Questa preoccupazione è stata espressa da alcuni editoriali del Corriere della Sera e da alcune prese di posizione di Mario Monti sul Corriere della Sera e sul Financial Times (5). “[Nella riforma costituzione di Renzi] ci possono essere risparmi nel costo della politica in senso stretto, dichiara il senatore Mario Monti il 18 ottobre 2016 al Corriere della Sera, ma il vero costo della politica non è quello dei senatori. È nel combinato disposto fra la Costituzione, attuale o futura, e il metodo di governo con il quale si è lubrificata da tre
anni l’opinione pubblica con bonus fiscali, elargizioni mirate o altra spesa pubblica perché accettasse questo. Ho riflettuto a lungo in proposito. [E ho concluso che] votare Sì al referendum significherebbe votare Sì al tenere gli italiani dipendenti da questo tipo di provvidenza dello Stato. [...] Se prevarrà il Sì avremo una Costituzione riformata, forse leggermente migliore della precedente, ma avremo con essa l’approvazione degli italiani a un modo di governare le risorse pubbliche che pensavo il governo Renzi avrebbe abbandonato per sempre, come ha fatto meritoriamente con
gli eccessi della concertazione tra governo e parti sociali [“Jobs Act” e “Buona Scuola”, n.].”
La gran parte dell’alta borghesia italiana ed europea ha continuato a optare per il “si”, pur turandosi il naso, e ha rivendicato un’azione di governo coerente con il programma
iniziale di Renzi. In alcuni casi esponenti significativi di questa cupola alto-borghese come Mario Monti hanno invece optato per la vittoria del “no” come mezzo per far fuori Renzi e, senza andare alle elezioni, mettere in sella un esecutivo ricalibrato, anche
contando sulle divisioni e debolezze delle opposizioni. Il che è quello che si è verificato con la nascita del governo Gentiloni.
La gran parte dei “sì” e la gran parte dei “no” hanno espresso quindi prospettive politiche anti-proletarie di centro-destra e di destra. I voti raccolti dai due fronti hanno rivelato un asse politico spostato a destra, in un contesto europeo a sua volta spostato a destra (vedi la formazione del governo May in Uk e vedi i tre candidati più quotati alle presidenziali francesi Fillon, Marine Le Pen e Macron) e con i lavoratori purtroppo
accodati ai fronti borghesi in lizza. A conferma di questa deriva politica, per chi continua a chiudere gli occhi sul vero senso politico del risultato referendario, vi sono poi tanti altri allarmanti segnali: la firma del contratto dei metalmeccanici da parte della
Fiom qualche settimana dopo il 4 dicembre 2016 (v. articolo a pag. 13); l’approvazione dell’ipotesi d’accordo contrattuale metalmeccanico con l’80% dei voti operai; la passività dei lavoratori, persino dei lavoratori del settore telecomunicazioni, di fronte
alla chiusura della sede romana di Almaviva e il licenziamento in tronco di 1666 lavoratori; la simpatia o l’acquiescenza della gente comune verso le aggressioni o le iniziative razziste contro i lavoratori immigrati (vedi ad esempio l’opposizione a dicembre 2016 delle famiglie di un caseggiato a San Basilio contro l’assegnazione di un appartamento ad una famiglia immigrata); l’isolamento o l’ostilità verso le iniziative dei lavoratori immigrati contro il razzismo e contro il super-sfruttamento; la sostituzione del governo Renzi con un governo, quello Gentiloni, che marcia nella stessa direzione del precedente.
Il compito assegnato al governo Gentiloni
Per dichiarare questo governo nemico giurato dei lavoratori, basterebbero la volontà di Gentiloni di raccogliere e applicare la finanziaria Renzi-Padoan del 2017 (con, ad esempio, il suo incentivo a favorire i contratti aziendali e il welfare azien- dale a danno del contratto nazionale e delle tutele “universali”), la collaborazione del governo Gentiloni con la direzione Almaviva per mettere nell’angolo i lavoratori e far loro trangugiare un drastico peggioramento o il licenziamento, la continuazione delle manovre di conquista neo-coloniale della Libia attraverso la marionetta Serraj. Ma oltre a ciò, il governo Gentiloni si appresta a compiere un’operazione che rappresenta un affondo politico contro i lavoratori, anche se essa si presenta nella forma melliflua dell’apertura del dialogo con le “opposizioni” e con il sindacato.
I centri dominanti del capitale italiano ed europeo hanno, infatti, assegnato a Gentiloni anche il compito di favorire la selezione entro il fronte del “sì” ed entro il fronte del
“no” delle forze disposte e capaci a sostenere il completamento della modernizzazione
italiana e ad aggregarsi-riconoscersi come ala democratica e come ala conservatrice del partito della Nazione inseguito dai borghesi italiani da più di vent’anni. A tal fine, il governo Gentiloni, anche attraverso l’elaborazione di una nuova legge elettorale semi-proporzionale o semi-Mattarellum, punta a favorire il riavvicinamento di Berlusconi verso la destra “responsabile” di Parisi e la formazione, dopo le prossime elezioni, di una “grande coalizione” tra il centro-destra e il centro-sinistra per il completamento delle “riforme strutturali”.
La debolezza di questo piano politico sta nella difficoltà di entusiasmare la comune popolazione lavoratrice, a meno che non riesca ad agganciare la componente istituzionale del M5S, al momento deposito di simpatie popolari.
Se ne vede qualche esperimento nella giunta Appendino a Torino, con fior di agganci del sindaco ai grandi capitalisti della regione e con i lavoratori alla coda del programma, diretto dalla collina torinese, del rilancio della competitività delle imprese.
Non è detto che il programma del grande capitale italiano-europeo vada in porto. Giocano a sfavore la frammentarietà del panorama politico italiano, la vischiosità delle reti burocratico-clientelari, la gravità della base strutturale di questa frammentarietà e
di questa vischiosità e cioè l’indebolimento delle grandi imprese italiane e lo sfarinamento del loro controllo sul tessuto economico nazionale (6).
Gioca a sfavore, inoltre, l’oculato intervento anti-europeista degli Stati Uniti, fluidificato anche dalla “scienza economica accademica progressista”, come accade con i libelli anti-euro del faro della “sinistra” europea, anche estrema, di nome Stiglitz.
Ma attenzione. In presenza del fallimento del programma europeista, senza una discesa in campo autonoma del proletariato, l’alternativa offerta dalla politica ufficiale non è certo migliore della morsa di Bruxelles: avremmo probabilmente la crescita del M5S e delle forze leghiste (nordiste e sudiste), l’acuirsi delle divergenze tra le regioni settentrionali e quelle meridionali, la crescita della distanza tra i lavoratori del Nord e quelli del Sud dell’Italia, il loro accodamento a politiche di stampo anti-europeo piccolo-borghesi inclini ad affittarsi al blocco mitteleuropeo o a quello anglosassone.
Nessuno scampato pericolo, dunque, per i lavoratori. Affinché il “no” espresso da un settore minoritario di lavoratori possa fungere da reagente contro la deriva politico in atto tra i lavoratori, occorre prendere atto dell’effettivo senso del risultato refendario,
evitare di cullarsi nell’illusione di aver ridotto il danno, denunciare la natura anti-proletaria del governo Gentiloni, opporsi alle aperture di credito del vertice Cgil al governo Gentiloni, individuare l’unico mezzo di difesa nella lotta e nella battaglia per l’unificazione dei lavoratori stessi, mettere a nudo il disastro a cui conducono le forze politiche “populiste”, rispedire al mittente la fetida campagna anti-partito che oggi trova il suo veicolo più popolare nel Movimento Cinque Stelle e porre, al contrario, all’ordine del giorno il lavoro per l’unica “riforma istituzionale” che interessi davvero ai lavoratori: quella per preparare il terreno alla formazione di un autentico partito dei lavoratori incardinato sulla dottrina marxista.
Note
(1) Si vedano ad esempio i seguenti articoli sul nostro giornale: “Scenda in campo la classe operaia contro la riorganizzazione reazionaria dello stato”, che fare n. 23 (febbraio 1992); “Dossier: Dove va
l’Italia?”, che fare n. 29 (gennaio 1994); “Mani sporche sul proletariato”, che fare n. 44 (settembre 1997).
(2) Sul nostro sito sono consultabili gli articoli che il che fare ha pubblicato dal 1985 al 2007 sulla parabola dal Partito Comunista Italiano (PCI) al Partito Democratico della Sinistra (PDS) e al Partito
della Rifondazione Comunista (PRC) e poi, da qui, verso il Partito Democratico.
(3) Informazioni aggiornate su questa realtà sono fornite dai documenti della Banca d’Italia, del Centro Studi di Mediobanca, dell’Istituto per il Commercio Estero, dell’Istat e di Eurostat (il centro
statistico dell’Unione Europea).
(4) In un editoriale del Corriere della Sera del 10 maggio 2016 firmato da Panebianco è scritto: “Ci sono interessi, politici e corporativi, che, motivi ideali a parte, alimentano la «coalizione del no». In primo luogo, sono ostili diverse Regioni le quali preferiscono di gran lunga tenersi poteri e competenze regalate loro dalla riforma del titolo V, fonti di tante «insane» politiche clientelari, piuttosto che puntare su quell’influenza sana, pulita, che il costituendo Senato delle Regioni consentirebbe loro di esercitare in difesa dei rispettivi territori.”
(5) In un editoriale sul Corriere della Sera del 31 ottobre 2016 a firma ancora di Panebianco leggiamo: “I tentativi della politica di rintuzzare la sfida dell’antipolitica sono fiacchi, controproducenti, spesso corrivi, culturalmente subalterni al nemico. Come quando, ad esempio, a proposito della riforma costituzionale, si liscia il pelo al gatto dell’antipolitica presentando come una delle virtù principali della riforma la riduzione del numero dei parlamentari e dei costi della politica, un aspetto secondario rispetto a quelli che davvero contano: fine del bicameralismo paritario, indebolimento dei (oggi fortissimi) poteri di veto, maggiore stabilità e maggiore capacità decisionale dei governi.”
(6) Questo declino della forza dell’industria e del capitale italiano (su si trovano dati aggiornati nella documentazione indicata nella nota 3) è così profondo che persino l’allarme lanciato il 9 gennaio 2017 dal direttore del Sole24 Ore su un aspetto fondamentale di questo declino (l’acquisizione di importanti aziende italiane da parte delle consorelle tedesche e francesi) ne omette una componente cruciale (la crescente presa dei colossi finanziari statunitensi come JpMorgan o Blackrock) e inclina verso la dismissiome dell’unica dimensione in cui la borghesia italiana potrebbe continuare a giocare il suo ruolo storico, quella europea-europeista. Scrive il direttore del quotidiano della Confindustria, Roberto Napoletano: “Non smetteremo mai di ringraziare il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, per essere riuscito a far votare dal Parlamento in un giorno e mezzo la legge di stabilità e per avere dato in sette giorni al Paese un governo nella pienezza dei poteri, quello possibile ovviamente non il migliore dei governi possibili. I partiti, quelli tradizionali, continuano a occuparsi di distribuzione del potere, ma non si accorgono che quel potere è diventato un guscio vuoto, lottano tra di loro ma non avranno nulla in mano e perdono il contatto con l’anima popolare del Paese e il disagio sociale che lo attraversa. Non si occupano del rischio di essere tutti travolti dal «superpotere tedesco» o da quello francese altrettanto presente ma più mimetizzato, e si avviano a fare la fine dei capponi di Renzo di manzoniana memoria che si beccavano tra di loro invece di pensare a salvarsi dalla padella un po’ come avveniva prima dell’unificazione nazionale tra mazziniani, azionisti, fautori dei Savoia e così via. [...] Che cosa è stata la Brexit se non un moto di protesta degli inglesi (giusto? sbagliato? di sicuro rischioso) che non ne vogliono sapere più di stare dentro un club dove i padroni sono i tedeschi in condominio con i francesi. A guardarsi intorno, senza veli e giri di parole, i fatti e le cose si mostrano a occhio nudo e sono, a volte, più agevoli da capire. Chi si è accorto che la Cina è balzata al secondo posto, dopo gli Stati Uniti, per la spesa nella difesa militare? Non è ancora un’economia di mercato, a un problema gigantesco di democrazia, ma vuole giocare sempre di più la sua partita geopolitica, vorrà dire qualcosa certo, ma soprattutto bisognerà tenerne conto. Assistiamo al ritorno della Russia, via Trump e via Erdogan, come superpotenza globale e, in un anno, ha riconquistato Aleppo e offre alla comunità internazionale un cessate il fuoco. Non si sa quanto durerà, ma la Russia ha fatto la sua parte. Tutto cambia, l’Europa resta immobile, si prepara a una tornata di elezioni politiche nazionali, forse solo per questo sarebbe bene che l’Italia restasse fuori da tale quadro di incertezza politica. Il vecchio club non regge più e, da europeisti convinti, diciamo che la musica deve cambiare, dalle banche alla politica estera, fino agli investimenti. [...] Questa è l’Europa che la politica italiana non può più accettare perché alla fine di tale circolo vizioso lo scenario più probabile è che le banche francesi si comprino quelle italiane, finanzino, ben pagando, l’acquisto di Made in Italy e, magari, mobilitando unitariamente il sistema francese, fatto di credito, compagnie assicurative, tecnocrati e politica, arrivino a stringere il collo anche alle Generali.”
Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA