Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017
Metalmeccanici: la Federmeccanica e il governo Renzi-Gentiloni assestano un altro colpo al
contratto collettivo nazionale dei lavoratori.
Alla fine del 2016 (dopo un anno di trattative e 20 ore di sciopero) è stato stipulato l’accordo per il rinnovo del contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici. Firmatari tutti e tre i sindacati, Fim, Fiom e Uilm.
Vediamo in sintesi cosa prevede tale accordo che avrà validità triennale.
1) Per il 2016 vengono confermati i minimi contrattuali raggiunti a gennaio 2015. I lavoratori non vedranno, quindi, alcun aumento salariale, esattamente come richiesto dall’ex presidente degli industriali Squinzi a novembre 2015 durante un’assemblea di Confindustria. A marzo 2017 verrà erogata un’una tantum di 80 euro lordi quale riconoscimento economico per l’intero anno 2016 e tale somma sarà esclusa dalla base di calcolo del trattamento di fine rapporto.
A partire dal giugno 2017 i minimi contrattuali saranno adeguati “sulla base della dinamica inflattiva consuntiva misurata con l’IPCA” (ovvero secondo l’indice dei prezzi al consumo armonizzato per i paesi dell’Unione europea) “al netto degli energetici importati”. (Negli anni, in base a tale calcolo, l’inflazione calcolata è generalmente inferiore all’inflazione reale.) In pratica, l’aumento salariale complessivo previsto per il triennio 2017-2019 si traduce in poche decine di euro al mese. Nell’accordo contrattuale precedente, non firmato dalla Fiom, era stato riconosciuto un aumento salariale nei tre anni di contratto pari a 81,25 euro per il primo livello e di 170,00 euro per il settimo livello. Una parte dell’aumento (13 euro al mese) può essere erogata come versamento per il fondo integrativo sanitario “mètaSalute”. L’ipotesi di contratto non prevede alcun recupero salariale a favore di coloro che decidessero di rinunciare alla copertura sanitaria integrativa. In sostanza si avrà il dirottamento di una parte di salario spettante ai lavoratori nelle casse della sanità privata.
2) L’accordo introduce e rafforza i cosiddetti “flexible benefits aziendali”, ovvero interventi a favore del cosiddetto “welfare d’impresa” erogati medianti buoni spesa, buoni benzina e via dicendo. Il padronato potrà riconoscere al lavoratore, in sostituzione di aumenti salariali, benefits del valore pari a 100 euro per l’anno 2017, a 150 euro per l’anno 2018 e a 200 euro per l’anno 2019 (con grande vantaggio fiscale per le imprese). Quanto ai premi di risultato viene introdotto il criterio “di non determinabilità a priori” del loro importo il quale sarà “totalmente variabile in funzione dei risultati conseguiti dalle aziende e verrà calcolato secondo criteri e modalità aziendalmente definiti dalle parti”.
3) Anche sul piano normativo, ci sono pesanti “novità”. Le aziende potranno definire con le RSU in sede aziendale una serie di soluzioni che “in una logica di miglioramento dell’efficienza e di orientamento al risultato” consentiranno di allungare di fatto l’orario di lavoro (in alcuni casi, grazie alle nuove tecnologie, si potrà essere costretti a lavorare anche durante il percorso casa-lavoro o nell’arco di tempo necessario allo spostamento dalla sede principale ad altre sedi e viceversa) e di scaricare sulle famiglie dei lavoratori i progressivi tagli della sanità e della previdenza pubblica.
Viene innalzata, inoltre, l’età oltre la quale i lavoratori non possono essere trasferiti presso sedi diverse da quella originaria: essa passa da 50 a 52 anni per i maschi e da 46 a 48 anni per le donne.
Infine, in caso di decesso di un familiare o di un convivente il lavoratore potrà godere dei giorni di permesso retribuiti entro sette giorni dall’evento.
L’accordo precedente prevedeva il termine di 15 giorni dall’evento per il lavoratore italiano e di 30 giorni per il lavoratore immigrato. Tale differenziazione è sparita nel nuovo accordo. Aver cancellato la differenziazione e aver ridotto a sette giorni per tutti il termine entro il quale usufruire dei permessi retribuiti significa nei fatti negare tale diritto alla grande maggioranza degli operai immigrati.
Si tratta insomma di un pessimo accordo. Non solo per la risicatezza degli aumenti salariali, ma soprattutto perché, spingendo verso l’aziendalizzazione della contrattazione, contribuisce ad andare nella direzione dello svuotamento del contratto nazionale, indebolisce la residua capacità di resistenza unitaria dei lavoratori e li lega in modo ancor più ferreo alle esigenze delle imprese, della nazione e dei mercati.
In tal senso ha ragione il presidente della Confindustria, Boccia, quando commentando positivamente l’intesa, dichiara che “l’accordo conferma l’idea che il contratto nazionale diventa un contratto con una dimensione regolatoria, spinge sui contratti aziendali legati molto alla produttività e verso un metodo che è la collaborazione per la competitività interna alle fabbriche” (Il Sole24Ore, 17 novembre 2016).
La firma del pessimo accordo anche da parte della Fiom non ha impedito a una quota minoritaria ma significativa di lavoratori di respingere l’ipotesi. Al referendum organizzato dalle federazioni sindacali alla fine del 2016 ben il 20% dei lavoratori ha votato contro l’ipotesi. Il “no” si è concentrato soprattutto in varie fabbriche grandi e medio-grandi del centro-nord, non a caso dove la capacità di organizzazione e resistenza dei lavoratori registra ancora un relativo grado di tenuta.
Affinché dal più che legittimo malumore evidenziato nelle urne possano emergere elementi per una sostanziale ripresa dell’iniziativa operaia e proletaria su un terreno di reale difesa di classe è però necessario cominciare a rendersi conto che non c’è stato nessun “tradimento” da parte della dirigenza Fiom, ma che, al contrario, l’accordo firmato è coerente con l’impostazione di fondo della federazione guidata da Landini.
Infatti legare (come fa anche la Fiom) la tutela delle condizioni operaie al buon andamento delle aziende, gira e rigira, non può che portare ad un progressivo e crescente assecondamento delle esigenze di “produttività e di competitività” delle imprese e del “sistema paese”. Non può che portare ad uno svuotamento più o meno accelerato della contrattazione nazionale e alla stipula di accordi sempre più ritagliati sulle specifiche necessità di ogni singola azienda. In una parola non può che portare ad una frammentazione (e quindi a un indebolimento) ancora più accentuata dell’intero mondo del lavoro salariato. Anche per questo la recente vicenda contrattuale dei metalmeccanici segnala quanto sia necessario che, sia pur tra piccolissimi nuclei di lavoratori, inizi ad emergere la consapevolezza che la subordinazione alle compatibilità capitalistiche non si può sposare in alcun modo con la coerente tutela delle condizioni operaie. Così come è fondamentale che si inizi a vedere quanto e come sia decisivo alzare lo sguardo oltre l’importante, ma limitato orizzonte di categoria e sindacale. Durante la vertenza contrattuale la Federmeccanica è stata spalleggiata non solo dall’intero padronato italiano, ma anche dal governo e dalle istituzioni internazionali.
Ad esempio, le agevolazioni governative agli accordi aziendali previste dalla Finanziaria 2017 non hanno forse favorito la piega assunta dalla vertenza? Non è forse vero che le politiche razziste governative e gli interventi governativi finalizzati a rendere più precario il mondo del lavoro, sono serviti anche a circondare e ad assediare i metalmeccanici? Qualcosa del genere accade anche con lo schiacciamento di interi popoli mediante le guerre cosiddette umanitarie e gli interventi di pace come quelli portati avanti dall’Italia in Libia o in Medioriente: queste iniziative di politica estera non hanno, forse, tra i loro principali obiettivi quello di mettere a disposizione delle aziende nostrane una abbondante manodopera ultraricattabile da utilizzare anche come arma di (involontaria) pressione contro i lavoratori d’Italia e d’Europa?
Di fronte a un simile schieramento, come si può pensare di difendersi efficacemente rimanendo recintati entro la propria categoria o la propria azienda?
Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA