Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017
Sulle lotte dei lavoratori, soprattutto immigrati,
del settore logistico in Italia
Il 14 settembre 2016, nel corso di una lotta al magazzino Gls di Piacenza, è stato assassinato uno dei lavoratori in sciopero davanti ai cancelli dell’impresa, l’immigrato egiziano Abd Elsalam.
A colpirlo non è stato un rigurgito ottocentesco o il gesto sconsiderato di un camionista distratto.
A colpirlo è stato il fisiologico funzionamento della iper-moderna e ultra-accentrata macchina dello sfruttamento capitalistico mondializzato del XXI secolo e l’armatura di leggi e apparati burocratici con cui gli stati, quelli occidentali in testa, garantiscono alle multinazionali del settore logistico la disponibilità di un esercito di lavoratori, spesso immigrati, ricattati e a buon mercato.
Lo sciopero cui stava partecipando Abd Elsalam era una delle mobilitazioni con cui, da più di dieci anni, i lavoratori del settore logistico, soprattutto immigrati, stanno tentando di affrontare questa piovra anche in Italia.
È interesse di tutti i lavoratori, immigrati e italiani, socializzare questo percorso di lotta, sostenerlo e battersi affinché esso, al pari di altre iniziative anche locali e discontinue di resistenza sindacale, diventi un momento della maturazione politica per il settore più combattivo e lungimirante della classe lavoratrice.
Al servizio della fabbrica mondializzata
Nel funzionamento dell’economia capitalistica le attività logistiche (cioè l’insieme di operazioni che riguardano il trasporto e lo stoccaggio delle merci) non sono mai state marginali e di marginale importanza. Senza di esse le fabbriche non sarebbero continuamente rifornite delle materie prime e dei semi-lavorati da trasformare in prodotti “finiti”. Senza di esse, poi, i prodotti “finiti” non sarebbero trasportati e immessi sul mercato a disposizione dei consumatori. La logistica è stato sempre, quindi, un ramo cruciale del processo capitalistico, una sfera di investimento per i detentori di denaro e la continuazione del processo di produzione entro il processo di circolazione e per il processo di circolazione.
Questo ruolo del settore logistico è diventato gigantesco tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI secolo in connessione con l’estensione della scala di socializzazione della produzione capitalistica a livello planetario e l’organizzazione della produzione entro una fabbrica che ha i suoi reparti dislocati nei cinque continenti.
Si pensi a quello che succede in due settori economici chiave, quello automobilistico
e quello agro-alimentare, che insieme in Europa contribuiscono al fatturato del comparto logistico per più del 40%.
Oggi i grandi stabilimenti come Melfi o Mirafiori sfornano vetture assemblando a ritmi forsennati componenti prodotte in decine e decine di paesi differenti. Spesso una “singola” componente è composta da varie altre componenti a loro volta assemblate in
luoghi diversi. Delocalizzando i vari passi della produzione laddove è più conveniente (cioè dove spesso i salari e i diritti dei lavoratori sono ridotti all’osso), le grandi multinazionali delle quattro ruote possono meglio difendere ed accrescere i propri profitti.
Così l’operaio di un super-tecnologico stabilimento Fca si può trovare a trattare i fili di rame inguainati a mano da un fanciullo in un oscuro laboratorio situato in un angolo dell’America Latina, dell’Africa o dell’Asia.
Lo stesso si può dire per il settore agro-alimentare. I pomodori raccolti dai super-sfruttati lavoratoti immigrati della Campania e della Puglia, così come le fragole raccolte dai braccianti (spesso bambini di neanche otto anni) in California, per poter trattate industrialmente e smerciate nei più remoti angoli del globo, magari a farcire la torta offerta su una luccicante vetrina delle vie dei centri cittadini, necessitano anch’essi di un sofisticato supporto che integri trasporto, conservazione e smistamento.
Per funzionare adeguatamente, questo meccanismo produttivo mondializzato deve essere “servito” da un supporto logistico efficiente, veloce ed economico, che leghi e interconnetta tutte le frastagliate fasi della produzione come un grande “nastro trasportatore” intercontinentale. Questo supporto logistico è stato messo a punto negli ultimi decenni del XX secolo, man mano che emergevano l’esigenza capitalistica e le condizioni tecnologiche della fabbrica planetaria, e ha trovato il suo punto di svolta
nell’invenzione e nella diffusione del container (1). Il container ha avuto ed ha tanto successo perché è uno strumento flessibile e “sicuro”: può trasportare innumerevoli tipi di prodotti (2), può essere spostato agevolmente da un vettore ad un altro (per esempio da una nave a un treno o a un tir) e grazie ai moderni sistemi Gps può essere monitorato e “controllato” durante il suo percorso.
Per mettere a frutto le potenzialità del container e organizzare un apparato logistico all’altezza della fabbrica planetaria, è stato anche necessario trasformare l’intero “sistema logistico” internazionale: ad esempio introdurre le gigantesche super-gru di nuova generazione che operano in tutti i più grandi hub portuali del pianeta, le navi cosiddette post-Panamax (cioè troppo grandi per attraversare il canale centro americano) a basso consumo di carburante capaci di trasportare circa 18 mila container (3), i porti dalla fonda appropriata, le banchine sconfinate.
Queste attività hanno offerto l’opportunità di incamerare profitti giganteschi a chi fosse riuscito a mettere in campo le gigantesche capacità organizzative e i giganteschi capitali liquidi richiesti. Non è, quindi, sorprendente che il comparto logistico sia controllato da un pugno di monopoli, che un terzo dei 751 miliardi di dollari di fatturato del comparto del 2015 sia stato movimentato da sole 50 aziende, che nel settore siano in atto da qualche anno fusioni e acquisizioni a cascata e che, per resistere alla concorrenza, sia serrato il ritmo dell’innovazione tecnologica. Nel 2015 la statunitense
FedEx ha acquisito per 2 miliardi di dollari la concorrente Genco e, poi, nel 2016 ha acquistato il gigante olandese Tnt tramite un’operazione da 4 miliardi e mezzo di euro. Nel 2016 la tedesca Dhl (4), leader mondiale del comparto, per difendere e consolidare
la propria posizione, ha investito 230 milioni di euro nel suo magazzino centrale di Lipsia per introdurre una nuova tecnologia di smistamento (la prima nel suo genere) delle merci (5).
La forza-lavoro richiesta dalla logistica capitalistica
Le caratteristiche del sistema logistico del XXI secolo, la ricerca della profittabilità delle attività logistiche e di quelle da esse servite, il mantenimento della fluidità dell’intera catena della riproduzione capitalistica richiedono, a loro volta, una gestione
appropriata della forza lavoro occupata nel settore logistico, il 20% della forza lavoro mondiale.
Il problema delle direzioni aziendali non è solo quello di far trottare i lavoratori al ritmo forsennato imposto dall’accumulazione mondiale e quello di ridurre il più possibile il monte salari pagato. Il loro problema è anche quello di evitare che, per l’inter-connessione generale delle reti, il blocco in uno snodo, per eventi fisiologici nello sfruttamento capitalistico quali gli scioperi, porti alla paralisi dell’attività generale. Questi obiettivi sono ottenuti con la voluta differenziazione dei lavoratori tra uno strato, spesso qualificato, dipendente direttamente dalle multinazionali e un altro settore assunto indirettamente attraverso una miriadi di piccole e medie aziende e un sistema opaco di appalti e sub-appalti.
L’Italia (quarto mercato logistico europeo) è un esempio di questo dualismo e di questa polverizzazione al servizio della centralizzazione. Gli occupati nel settore sono circa un milione (di questi almeno 850 mila sono dipendenti salariati), le imprese dominanti
sono una decina ma nel settore operano ben 160 mila aziende (composte spesso dal singolo auto-trasportatore o da una piccola cooperativa) e le piccole imprese occupano oltre il 50% della manodopera. L’apparente e formale polverizzazione in tante “aziendine” serve al contenimento dei costi salariali (con micro-imprese, spesso formalmente cooperative, che non applicano i contratti nazionali), ad avere a disposizione manodopera flessibile (da spostare e da utilizzare a gradi di intensità variabili e fortemente mutevoli in base alle cangianti necessità del mercato e all’andamento della produzione industriale) e a contrapporre, per ricattare e controllare, i lavoratori gli uni contro gli altri. Si va dalla massa iper-ricattabile dei lavoratori immigrati (che nel Nord Italia costituiscono tra “regolari” e “irregolari” circa il 90% della forza lavoro operante nei magazzini di stoccaggio) impiegati per lo più nelle fondamentali mansioni di facchinaggio e dipendenti da piccole e piccolissime ditte d’appalto, ai lavoratori “con garanzie contrattuali rispettate e più solide” delle grandi catene della logistica e della distribuzione. Grazie a questa frammentazione, i più sofisticati e moderni metodi di spremitura della manodopera (sul tipo di quelli adottati
nelle moderne fabbriche robotizzate) cooperano con le più “antiquate” forme di sfruttamento padronale. Le più antiche forme di caporalato (fino alla costrizione fisica) si integrano perfettamente con l’utilizzo dei più spinti sistemi satellitari adibiti al controllo degli spostamenti delle merci e al controllo di chi le sposta.
Prime lotte e prospettive politiche
Nonostante gli ostacoli frapposti dalla “frammentazione aziendale” e nonostante il pesante clima (istituzionale ed extra-istituzionale) di ricatto, controllo e intimidazione, negli ultimi anni tra i lavoratori della logistica in Italia (soprattutto tra gli immigrati
addetti alle mansioni di facchinaggio e movimentazione merci) si sono sviluppate alcune circoscritte ma significative mobilitazioni.
Si è partiti dalle lotte dell’ortomercato di Milano e da quelle dei lavoratori filippini dei magazzini della Esselunga di Pioltello (in Lombardia) nei primi anni 2000. Nell’estate del 2008 vi è poi stata l’importante mobilitazione ai magazzini di Origgio (sempre in Lombardia) della catena dei supermercati Bennet. Questa vertenza, durata alcuni mesi, si è conclusa con un accordo che ha sancito il reintegro di un delegato sindacale licenziato, l’allontanamento di due capireparto protagonisti di intimidazioni e comportamenti razzisti contro i lavoratori immigrati e il riconoscimento del Si.Cobas (un sindacato di base molto attivo nel settore) come organizzazione sindacale interna al luogo di lavoro.
Inoltre, grazie alla mobilitazione, sono stati ottenuti un presidio medico stabile nel magazzino, la mensa aziendale, un corso di qualificazione per tutti gli operai addetti ai carrelli e la messa in sicurezza degli impianti e degli strumenti lavorativi.
La vertenza di Origgio è diventata un incoraggiante esempio che ha contribuito e sta contribuendo a favorire la mobilitazione anche in altri stabilimenti del Nord Italia (Esselunga, Ikea, Tnt, Il Gigante, Granarolo, Gls, ecc.) intorno ad importanti rivendicazioni quali il riconoscimento e l’applicazione del contratto nazionale di categoria, la richiesta di condizioni di maggiore sicurezza e salute nei capannoni e il contrasto al razzismo degli imprenditori e dei capetti. La lotta al magazzino della Gls di Piacenza in cui è stato ucciso Abd Elsalam è stata un anello di questo ciclo di mobilitazioni.
Le aziende del settore hanno cercato di opporsi furiosamente a queste rivendicazioni: ad essere in contatto diretto con i lavoratori sono state e sono spesse le piccole ditte degli appalti o gli auto-trasportatori, ma ad agire attraverso questi ultimi sono la pressione “invisibile” delle multinazionali che controllano il settore e l’aiuto che questo apparato di sfruttamento mondializzato ottiene dalle politiche dei governi e dall’azione
delle istituzioni statali.
Questo intervento statale, che garantisce agli operatori della logistica l’omogeneità degli standard tra un continente e l’altro, le infrastrutture di raccordo tra porti e magazzini e fabbriche, le reti di protezione militare richieste dalla sicurezza delle rotte mercantili, trova uno dei suoi principali terreni d’intervento nel predisporre le condizioni favorevoli per le aziende nell’acquisto e gestione della forza lavoro. Ad esempio, con le legislazioni razziste contro i lavoratori immigrati (Bossi-Fini) o con le
legislazioni liberiste sul mercato del lavoro (“Jobs Act”) o con l’intervento repressivo delle forze di polizia e della magistratura o con le aggressioni al Sud del mondo per avere a disposizione riserve di manodopera ricattabile.
Ecco perché la morte di Abd Elsalam non è stato un gesto inconsulto o un rigurgito ottocentesco, ma l’assassinio perpetrato dall’iper-tecnologico sistema di sfruttamento capitalistico del XXI secolo e dai governi che lo sostengono in Italia.
Ecco perché, per dare continuità e consolidare le mobilitazioni degli ultimi anni e per far applicare gli accordi da esse strappati, come, ad esempio, quello siglato nel novembre 2016 anche per effetto della lotta in cui è stato assassinato Abd Elsalam (6), i lavoratori più attivi in questo ciclo di lotte nel settore logistico sono chiamati anche a raccordare l’iniziativa sindacale con quella politica, anche per dare gambe reali al tentativo di allargare il fronte di lotta verso gli altri lavoratori del settore (al di sopra delle differenze di tessera sindacale, nazionale e religiosa) e verso le esperienze simili in corso tra i lavoratori logistici di altri paesi (Stati Uniti, Corea del Sud e Cina). Raccordare l’iniziativa sindacale con quella politica significa, ad esempio, puntare a intrecciare le sacrosante rivendicazioni “economiche e normative” e l’importantissima
lotta contro il razzismo entro il luogo di lavoro con una più generale lotta contro il complessivo impianto razzista delle politiche governative e contro le aggressioni (economiche, militari, ideologiche) che le democrazie occidentali conducono contro i
popoli e gli sfruttati del mondo araboislamico e dell’intero Sud del pianeta.
Cioè contro i paesi da cui, tra l’altro, provengono tanti proletari che in Italia e in Occidente sono oggi impiegati nel comparto della logistica.
Note
(1) Come accaduto per altre innovazioni tecnologico-organizzative, anche il container è il frutto delle sperimentazioni nel settore militare: fu messo a punto durante la guerra del Vietnam da parte del Pentagono per rifornire il gigantesco contingente inviato contro la lotta di liberazione nazionale del popolo vietnamita.
(2) Circa l’80% delle merci non liquide e non gassose è oggi trasportata tramite container e nel 2013 sono stati trasportati lungo le rotte commerciali del globo circa 150 milioni di container.
(3) Tra il 1965 e il 1970 la portata delle navi specializzate stentava a raggiungere i 500 container.
(4) Nel 2015 la Dhl ha fatturato circa 32 miliardi di dollari. L’azienda ha più di 280 dipendenti ed opera in 220 paesi. Tra furgoni, auto e camion la Dhl ha circa 75 mila veicoli e dispone di una flotta aerea di oltre 400 apparecchi.
(5) D’ora in poi le spedizioni più pesanti e ingombranti potranno essere smistate con un sistema automatico che velocizzerà di quasi il 50% le operazioni permettendo di effettuare circa 150 mila spedizioni all’ora.
(6) Nel novembre 2016 è stato inoltre firmato un accordo nazionale tra i sindacati di base e alcuni grandi gruppi come Tnt, Brt e Gls in cui, tra l’altro, viene stabilito che in occorrenza di cambio di appalto i lavoratori operanti in un magazzino hanno il diritto di passare alla nuova ditta appaltatrice mantenendo tutte le precedenti condizioni contrattuali e retributive. L’intesa prevede anche che in caso di infortunio il lavoratore abbia un’integrazione salariale del 100% a partire dal primo giorno e, altro punto molto importante, limita la libertà di licenziamento nelle tante cooperative (di “comodo”) che operano nel settore.
Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA