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Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017

La sfida a cui sono chiamati i lavoratori Usa dalla Casa Bianca di Trump

Se nell’articolo precedente ci soffermiamo sugli effettivi risultati elettorali del novembre 2016 e mostriamo che essi non attestano alcuna fuga di massa dei lavoratori Usa da Obama a Trump, non è perché reputiamo Hillary Clinton meno peggiore di Donald Trump. Lo facciamo perché questo aiuta a stabilire dove effettivamente sta dal punto di vista politico la classe operaia degli Usa, in tutte e tre le sue componenti e non solo in quella bianca, e come impostare una battaglia politica in vista dei percorsi (differenziati) di riunificazione dietro la prospettiva del comunismo internazionalista dei tre segmenti che compongono la classe operaia Usa, quello bianco, quello afro-americano e quello latino-americano.

Il voto di tanti lavoratori bianchi a Trump segnala l’erosione dei tradizionali privilegi, ma segnala anche la loro (non eterna) dislocazione su posizioni che approfondiscono le divisioni nel proletariato, negli Usa e nel mondo, e non certo la loro disponibilità alla lotta di classe se solo si presentasse sul mercato politico un partito dei lavoratori capace di sciorinare un elenco di rivendicazioni “dure e pure”. Non accade qualcosa di sostanzialmente diverso, come abbiamo detto, per i lavoratori (non solo bianchi) democratici, ma sarebbe un delitto politico scansare il percorso specifico che sta interessando un settore minoritario di questi ultimi: anche per effetto delle lotte degli ultimi anni (ne parliamo a pag. 4), proletari bianchi, afro-americani e latinos si sono ritrovati gomito a gomito nel calderone rappresentato da Sanders; essi hanno rinnovato il loro voto ai democratici senza la delega in bianco del 2008 e in alcuni nuclei è emersa l’esigenza di contare su una (ancora primordiale) organizzazione politica separata. Anche sul piano generale rimane vero quello che abbiamo detto per il caso particolare della sanità a proposito della “cecità” di questo settore più avanzato rispetto al nesso tra la politica “sociale” e la politica estera dell’amministrazione Obama, ma sarà impossibile superare questo limite prima che i lavoratori Usa abbiano assaporato le conseguenze apocalittiche dello scontro in preparazione contro la Cina.

 Le basi sociali del trumpismo

 La vittoria di Trump non è il frutto, quindi, di nessuna rivolta degli sfruttati contro l’élite di Wall Street.

Magari le cose stessero così! Come accenniamo nella scheda di pag.5, il programma di Trump è nato in alto, in quei settori della borghesia statunitense (tra cui un’ala della lobby sionista pro-Netanyhau) che non intendono accettare la limatura dei loro ristretti interessi prevista dal lungimirante piano di rilancio dell’imperialismo Usa portato avanti da Obana. Il programma incarnato da Trump punta sull’eliminazione dei lacci welfaristi, fiscali, finanziari e ambientali introdotti da Obama in politica interna, sulla sostituzione dell’attuale sistema di assistenza (Medicaid, Medicare, ACA) con un sistema a base di voucher, sul rafforzamento dell’industria Usa attraverso barriere protezionistiche più che attraverso la modernizzazione e l’efficientizzazione tecnologica, su un più stretto raccordo con Israele in Medioriente, sulla contrapposizione con l’Iran, sulla precipitazione dello scontro con la Cina, per la cui conduzione non viene ritenuta necessaria la grande coalizione (interna e internazionale) tessuta da Obama ma solo lo sganciamento di Mosca da Pechino (peraltro previsto anche dalla strategia di Obama ma in una forma più accorta, anche per la preoccupazione imperialisticamente sana di rinsaldare il legame di Washington con Berlino).

Per alcuni anni il programma di Trump è rimasto minoritario all’interno della borghesia Usa, alle prese con l’emergenza finanziaria, timorosa che la crisi economica del 2008 portasse ad una polarizzazione politica interna e attenta a recuperare (con l’aiuto di Obama) la diffidenza verso le magiche doti del mercato suscitata tra la gente comune dal crollo dei subprime.

Se nel 2016 Trump è riuscito a strappare la Casa Bianca, in contrasto con la volontà della potente ala dell’oligarchia capitalista Usa sostenitrice di Hillary Clinton(10), ciò è accaduto in virtù della combinazione di tre “contingenze”.

1) Dal 2012 in poi, gli interessi medio e alto borghesi in contrasto con Obama rappresentati nel Tea Party hanno ripreso fiato, anche per il superamento, agevolato dalla politica di Obama, dell’emergenza del 2007-2009 e del diradarsi delle preoccupazioni politiche suscitate da essa tra gli stessi capitalisti. Questa ripresa e il parallelo spostamento verso i repubblicani anche di alcune grandi imprese (quelle ad esempio della Silicon Valley) tradizionalmente vicine ai democratici(2), hanno permesso al Tea Party e al partito repubblicano di allargare il loro peso nel Congresso nelle elezioni di medio-termine e, soprattutto, di allargare la presa elettorale sulla loro tradizionale base proletaria bianca, anagraficamente meno giovane di quella media e preoccupata che la redditività dei fondi pensione fosse messa a rischio dalla riforma sanitaria e dai lacci all’attività finanziaria speculativa introdotti da Obama, illusa di poter tutelare la propria condizione lavorativa con il protezionismo e con la rimessa in riga degli immigrati e degli sfruttati dei paesi emergenti.

2) I centri di comando dell’imperialismo Usa orientati a favore del programma democratico hanno ritenuto di non dover affossare il programma Trump, ma di poterlo-doverlo allisciare per mitigare gli interventi “sociali” di Obama e per bilanciare l’effetto sulla politica di Hillary Clinton della  mobilitazione popolare coagulata attorno alla campagna di Sanders (anche al prezzo di entrate a gamba tesa per le stesse regole democratiche come la riapertura dell’inchiesta su Hillary Clinton ad opera del capo della Cia, Comey, pochi giorni prima delle elezioni del novembre 2016).

3) Le conseguenze politiche delle due manovre tra i lavoratori e la loro rifrazione istituzionale attraverso le regole del gioco elettorale Usa hanno prodotto un effetto non voluto dall’ala più accorta della borghesia Usa: pur portando a casa 2.8 milioni di voti in meno di Hillary Clinton, con un distacco vistoso e crescente in alcune tra le aree capitalisticamente avanzate del paese, tra cui la California, ad arrivare alla Casa Bianca è stato Trump, non il candidato atteso dall’ala del grande capitale più attento agli interessi complessivi dell’imperialismo Usa e alla stabilità dell’ordine capitalistico internazionale.

 Dal partito democratico non verrà nessun aiuto alla lotta contro Trump. Anzi.

 Non è difficile prevedere l’attacco profondo che Trump intende sferrare contro i lavoratori. Basta scorrere la lista dei ministri di Trump, per farsi un’idea della natura del populismo di Trump e da chi sia costituito il popolo a cui Trump afferma di aver conferito il potere. La natura della politica della Casa Bianca di Trump non cambierà di una virgola se Trump riuscirà ad offrire qualche posto di lavoro iperselezionato grazie all’introduzione di dazi protezionistici, grazie al ricatto a questa o quella ditta dipendente da commesse statali per consigliare una limatura dei piani produttivi (almeno provvisoriamente) nel nome del ritorno dei posti di lavoro delocalizzati(11) e grazie all’avvio del promesso piano di revisione delle infrastrutture. (Questo piano era stato già predisposto da Obama e bloccato dall’opposizione repubblicana al Congresso. Ora Trump lo ripropone su basi diverse, non più funzionali, come accadeva con Obama, all’organico rilancio della produttività del capitale Usa nel suo insieme sotto la guida dello stato centrale ma ai semplici appetiti di questa o a quella corporation.)

I lavoratori più lungimiranti e combattivi sono chiamati a denunciare senza tentennamenti quello che si prepara (anche se con la giustificazione di donare buoni posti di lavoro ai lavoratori degli Usa) e a contrastare le offerte di collaborazione che dai vertici dell’Afl-Cio e dell’Uaw o dallo stesso Sanders sono state lanciate a Trump affinché egli mantenga fede alle promesse rivolte ai lavoratori durante la campagna elettorale.

Questa opera di denuncia e l’organizzazione della mobilitazione non dovranno inoltre farsi condizionare dalla preoccupazione di giocare di sponda con i contrasti tra l’ala trumpista e quella democratica della classe dirigente Usa.

Questi contrasti non sono un gioco delle parti. Sono profondi. L’insediamento di Trump alla Casa Bianca è visto con preoccupazione dai circoli più avveduti dell’imperialismo Usa.

Essi stanno tentando di smussarne le “ristrettezze” e di “hillarizzarlo”, anche attraverso la mediazione dell’ala moderata del partito repubblicano, ancora ben rappresentata nei due rami del Congresso e persino in alcuni neoministri, come ad esempio il generale Mattis e lo stesso Tillerson. Può darsi che vi riescano, soprattutto nel campo del commercio internazionale con i paesi asiatici e americani, in cui l’eventuale affossamento del Nafta e del Ttp auspicato da Trump avrebbe, tra l’altro, l’effetto di offrire alla Cina un campo di intervento agevolato per la propria espansione economica e geopolitica.

La riuscita di questo tentativo è, però, tutt’altro che scontata. Se esso fallisse, si aprirebbe, ben oltre le linee di frattura odierne, una spaccatura verticale e geografica nella borghesia statunitense, suscettibile di conseguenze profonde nelle relazioni tra le classi negli States e nei rapporti internazionali. Per ora si può rilevare che la presunzione di poter manovrare a proprio piacimento, come avveniva nell’epoca delle vacche grasse, gli attori sociali e i contrappesi istituzionali ha giocato un brutto tiro ai vertici dell’imperialismo Usa. Questa presunzione può essere il sintomo di un indebolimento strutturale della capacità dell’imperialismo Usa di affrontare le crepe apertesi nella   stabilità dell’ordine capitalistico mondiale ma potrebbe anche essere solo una parentesi destinata a rilanciare, su basi più solide entro la stessa borghesia Usa, la strategia di Obama, in una forma moderata o in una forma sandersiana.

Chi intende opporsi da un punto di vista proletario al programma di Trump non potrà trovare un alleato nell’ala liberal della borghesia Usa, i cui assi strategici, come visto con Obama, anche quando socialmente “progressisti”, sono politicamente antitetici agli interessi proletari e conducono, pur se su un cammino diverso da quello di Trump, allo stesso scontro fratricida con i lavoratori della Cina e con altri popoli. Va invece portato avanti il tentativo di mettere in piedi una rete organizzata autonoma dai caucus democratici, di cui forse si manifesta l’esigenza nella fondazione di Our Revolution da parte di Bennie Sanders o del Black Lives Matter. Il percorso di maturazione politica di un nucleo proletario Usa potrebbe fare dei passi in avanti entro questa rete sociale-politica non per le piattaforme che vi circolano e che riscodellano versioni diverse del programma social-imperialista democratico, ma per l’apertura di ambiti di discussione politica collettivi sotto lo stimolo delle iniziative di lotta immediate che punteggiano il panorama degli Usa e che probabilmente saranno alimentate dalla politica di Trump. Su questa base e in queste iniziative sarà vitale rivolgersi anche verso i lavoratori che hanno votato Trump, chiamandoli a difendere le postazioni immediate messe nel mirino dalla squadra di governo di Trump e mostrando loro, in questa lotta comune, che la difesa dagli effetti della mondializzazione capitalistica e della concorrenza tra lavoratori di paesi e continenti diversi passa per una strada completamente diversa da quella proposta da Trump a colpi di dazi protezionistici, di espulsioni di massa degli immigrati e di provocazioni nei confronti del popolo cinese.

 Verso i lavoratori che hanno votato Trump 

Dal ragionamento svolto fin qui risulta chiaro che il nostro rigetto della chiave di lettura “populista” della vittoria di Trump non significa considerare perduti alla causa proletaria i lavoratori che hanno votato per Trump o che non ci si debba impegnare in una specifica propaganda nei loro confronti. Tutt’altro. Questa iniziativa deve confrontarsi con le istanze di classe che, in forma mistificata, si esprimono nel voto per Trump, ben sapendo che la contraddizione tra esse e l’impianto politico del nuovo presidente non esploderà in virtù della semplice propaganda, per quanto ben orchestrata e basata su fatti reali, ma richiederà il terremoto generato dallo scontro mondiale con la Cina che si annuncia all’orizzonte, qualunque sia il timoniere (democratico o repubblicano) della Casa Bianca.(12)

I lavoratori Usa che hanno votato per Trump sono preoccupati di difendersi dalla “concorrenza sleale” dei lavoratori cinesi. Bene: un passo realmente efficace in questa direzione sarebbe quello di sostenere il percorso di organizzazione, iniziato più di dieci anni fa, dei lavoratori cinesi per migliorare le loro tutele; sarebbe quello di opporsi all’offensiva contro questo percorso condotta dalle multinazionali occidentali, tra cui quelle del mondo rappresentato da Trump, dai fratelli Koch, da Fox News, da Ford, da Amazon... e dalle tante imprese che, odorando la pioggia di tagli fiscali e di deregulation ambientale che potrebbe arrivare dalla nuova Casa Bianca, ora fa le fusa a Trump. Il passo da fare è, quindi, quello verso la parificazione al rialzo delle condizioni dei lavoratori dei due continenti e la costruzione di un’organizzazione di lotta comune. Il protezionismo di Trump, anziché uni-re i lavoratori degli Usa e della Cina, li divide, li spinge a “bloccare” con i rispettivi padroni nella spirale della concorrenza che li soffoca.

Una considerazione analoga vale per i lavoratori immigrati negli Stati Uniti dall’America Latina o da altri paesi. Non hanno anch’essi iniziato nel primo decennio del XXI secolo un percorso di lotta e di organizzazione per conquistare il permesso di soggiorno e diventare meno ricattabili di fronte alle direzioni aziendali? E questa battaglia non è vantaggiosa anche per i lavoratori statunitensi che si vedono usare i lavoratori immigrati come arma (involontaria) di ricatto dalle forze padronali? La politica di Obama sull’immigrazione va denunciata e lottata non perché la Casa Bianca è stata costretta a concedere qualcosa alle rivendicazioni degli immigrati, ma perché tali interventi sono stati parziali e interni ad una politica nell’insieme destinata a irregimentare i lavoratori immigrati al servizio della macchina dello sfruttamento Usa.

Con i muri e le espulsioni promessi da Trump la ricattabilità e il supersfruttamento dei lavoratori immigrati aumenteranno.

Nella propaganda verso i lavoratori che hanno votato Trump va inoltre messo in rilievo che la demagogia di Trump sul Nafta e sul Ttp sorvola su un altro punto fondamentale. Gli arretramenti dei lavoratori Usa non nascono solo dalla cosiddetta delocalizzazione, ma anche dall’automazione (introdotta dai capitalisti per aver manodopera ricattabile e per arginare il percorso di organizzazione dei lavoratori) e, più in generale, dall’erosione delle basi oggettive (interne agli Usa e internazionali) del compromesso sociale tra capitale e lavoro salariato siglato nel novecento. Questo compromesso non potrà rivivere, non importa quante volte Trump ripeterà che la sua Casa Bianca tornerà a far grande l’America e, con essa, la classe operaia bianca, un po’ come accadeva negli anni d’oro del novecento.

Quel compromesso non potrà rivivere neanche in presenza dell’aggressione promessa da Trump contro la potenza capitalistica ascendente cinese e contro i lavoratori cinesi.

Questo scontro, di cui i dazi protezionistici anti-cinesi di Trump e la telefonata tra Trump e il presidente di Taiwan sono un anticipo, apporterà, infatti, ai lavoratori Usa un diluvio di sacrifici e di barbarie perché la Cina, la Cina borghese e la Cina proletaria, non accetteranno di farsi mettere i piedi in testa. Già all’indomani della seconda guerra mondiale, gli Usa toccarono con mano di cosa sono capaci il popolo e gli sfruttati cinesi e furono costretti ad abbandonare il loro sogno di colonizzare l’immenso paese attraverso il loro burattino (poi rifugiato a Taiwan) Chiang Kai-shek.

Figuriamoci cosa accadrà nel prossimo futuro! D’altra parte basterebbe dare un’occhiata agli editoriali degli organi di stampa cinesi per rendersene conto.

Nessuna contrapposizione, dunque, con i lavoratori della Cina e con i lavoratori immigrati. Solidarietà con le loro lotte, da conoscere e socializzare.

Rottura della solidarietà, invece, con i proprio padroni, con quelli democratici e con quelli repubblicani. Questo sì che farebbe respirare i lavoratori degli Usa, soprattutto perché, in questa battaglia, un nucleo di essi, l’avanguardia di questa classe dalle tradizioni storiche di lotta vigorose, si aprirebbe all’intuizione che al di sotto dei problemi del presente c’è la vecchia contraddizione tra la socializzazione delle forze produttive e l’appropriazione privata capitalistica di essa e che l’unica via d’uscita realistica da questa tenaglia è quella rivoluzionaria indicata dalla dottrina marxista: l’instaurazione di un’altra organizzazione sociale, quella comunista, sulle ceneri del sistema capitalistico.

Note

(10) Questa volontà è stata ben rappresentata dalle posizioni pro-Hillary Clinton assunte dal New York Times e dal Washington Post, e dall’endorsement di Hillary Clinton da parte di un repubblicano come Kissinger.

(11) Prima delle elezioni presidenziali di novembre, Carrier, un’impresa che costruisce condizionatori d’aria che fa parte di un gruppo che riceve succose commesse dal Pentagono, aveva annunciato di trasferire duemila posti di lavoro dall’Indiana in Messico. Agli inizi di dicembre 2016, l’allora presidente-eletto Trump si incontra

con i dirigenti dell’azienda e ottiene il mantenimento in Indiana di 850 posti di lavoro. Trump presenta il caso come un esempio della sua politica presidenziale di rientro dei posti di lavoro delocalizzati. Qualche giorno dopo un rappresentante sindacale dell’Indiana, Chuck Jones, denuncia che gli 850 posti di lavoro sono a tempo. Su alcuni quotidiani statunitensi, tra cui lo stesso Wall Street Journal, emerge inoltre che, per convincere i dirigenti aziendali Carrier, Trump ha promesso sgravi fiscali per 7 milioni di dollari e probabilmente qualche altro do ut des con il Pentagono, di cui Carrier è fornitrice. Trump se la prende con il rappresentante sindacale e scrive: rappresentare sindacalmente i lavoratori non è un bel lavoro e Mr. Jones farebbe meglio a parlare di meno e a lavorare di più.

(12) Il 16 settembre 2016, quasi due mesi prima delle elezioni presidenziali, in un articolo sul Wall Street Journal intitolato “Sizing-up the next Commanderin-Chief”, Robert Gates, ex-capo del Pentagono sotto Bush II e sotto Obama, scrisse che la prima grave crisi che il nuovo presidente, Hillary Clinton o Trump, sarà chiamato ad affrontare sarà internazionale. “Seguendo la campagna presidenziale non si direbbe, ma la prima grave crisi cui il nostro nuovo presidente si troverà a fronteggiare molto probabilmente sarà internazionale. La lista delle possibilità è lunga, più lunga di quanto essa non fosse otto anni fa.” Per Gates, in testa a queste sfide c’è quella con la Cina. “Ogni aspetto del nostro rapporto con la Cina sta diventando più impegnativo. Oltre al cyber-spionaggio cinese e al furto della proprietà intellettuale, molte aziende americane in Cina stanno incontrando un crescente ambiente ostile. La determinazione nazionalista cinese per affermare la sovranità sulle acque contese e sulle isole nel Est e nel Sud dei mari della Cina sta costantemente incrementando il rischio di un confronto militare. Più preoccupante, dato il loro storico astio, è l’escalation di un confronto fra Cina e Giappone. In qualità di partner legati da un trattato con il Giappone, noi saremmo obbligati ad aiutare Tokyo. La Cina intende sfidare gli Usa per il dominio regionale nell’Asia Orientale sul lungo termine. [...] Rapportarsi efficacemente con la Cina richiede un presidente con acume e visione strategica, nuance, abilità diplomatiche e politiche, prontezza di valutare quando sfidare, quando rimanere in silenzio o quando fare compromessi o essere partner.”

Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017

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