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Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017

Europa, Regno Unito, Brexit

Il governo May avvia il treno della Brexit.

Quale viaggio attende i lavoratori del Regno Unito?

Il referendum sull’Unione Europea del giugno 2016 ha mostrato che la classe borghese britannica si è spaccata in due gruppi. Il fronte del “Remain”, impersonato da Cameron, è stato giustamente considerato da molti proletari come l’ultimo anello di una catena di governi, laburisti e conservatori, che hanno fatto arretrare le condizioni di vita e di lavoro dei proletari britannici.

La Brexit non è però un’alternativa a questa politica. Essa è un altro modo per stringere i cerchioni dell’oppressione capitalista contro i lavoratori del Regno Unito e del resto dell’Occidente. Il fatto che essa sia considerata positivamente da tanti lavoratori del Regno Unito non cambia la sostanza di questo fatto. I lavoratori pro-Brexit sono accodati, contro i loro interessi immediati e storici, ad un fronte borghese che ha voluto sfilarsi dalla Ue per muovere più liberamente i propri capitali sul mercato mondiale.

Innanzitutto contro il proletariato, del Regno Unito (immigrato e autoctono) e del resto del mondo.

Non sono nostre illazioni. Basta leggere i programmi del fronte Brexit e poi quelli del governo May che si è formato nell’estate 2016 sull’onda della vittoria del “Leave”.

Consideriamo ad esempio l’opuscolo scritto da uno dei principali gruppi sostenitori del “Leave”, il

gruppo “Economists for Brexit”.

Nell’opuscolo si sostiene che la partecipazione del Regno Unito alla Ue (che, ricordiamo, non è completa in quanto non contempla l’adozione dell’euro e il rispetto degli accordi di Schengen) penalizza le imprese del Regno Unito. Perché le penalizza? Perché impone una legislazione sociale

in termini di orari di lavoro e di condizioni di sicurezza onerosa per i profitti. Le penalizza perché obbliga il Regno Unito ad accordare ai lavoratori immigrati dal resto della Ue, di cui il Regno Unito ha vitale bisogno, un trattamento più oneroso di quello che il Regno Unito potrebbe riservare agli immigrati, anche professionalmente qualificati, attratti, attraverso apposito filtro professionale e ideologico, direttamente dai paesi extra-europei.

“Il problema non è -scrivono gli economisti pro-Brexit- se l’immigrazione sia necessaria oppure no, ma che tipo e che livello di immigrazione sono desiderabili e più convenienti [per gli sfruttatori britannici, n.n.]. […] I sostenitori della Brexit non vogliono mettere uno stop all’immigrazione ma trasferire il controllo di essa dalla Ue al governo britannico”.

Fermiamoci un momento. Qui si confessa, senza giri di parole, che l’ala pro-Brexit del partito conservatore, quella che ha assunto il controllo del governo con Theresa May, vuole riservare un trattamento peggiore ai lavoratori e in special modo ai lavoratori immigrati nel Regno Unito. Attraverso il meccanismo dei vasi comunicanti della concorrenza sul mercato del lavoro inter-continentale, l’effetto non sarebbe limitato al Regno Unito ma si trasferirebbe sui lavoratori degli altri paesi europei, anche con il Regno Unito fuori dalla Ue.

Torniamo agli economisti pro-Brexit. Essi affermano che la partecipazione del Regno Unito alla Ue impone al Regno Unito di acquistare i prodotti semi-lavorati utilizzati nelle imprese britanniche ai prezzi imposti da Bruxelles, quando invece, se ci si rifornisse direttamente sul mercato mondiale e soprattutto dai paesi in cui il costo del lavoro e gli standard di qualità delle merci sono inferiori, si avrebbero componenti e semi-lavorati a prezzi più convenienti. Questo mutamento potrebbe anche rendere le merci britanniche più competitive, come sostengono gli economisti pro-Brexit. Di sicuro è falso che esso andrebbe a vantaggio dei lavoratori.

Basti pensare all’effetto della politica industrialista sostenuta dal fronte borghese pro-Brexit sulle ditte degli altri paesi europei: per reggere la concorrenza delle loro sorelle britanniche, le imprese continentali sarebbero costrette ad esigere dai “loro” lavoratori ritmi e orari più pesanti, con un rimando all’indietro sui lavoratori del Regno Unito in una spirale infernale senza fine. Una pallida anticipazione di questa spirale si intravede nel dumping fiscale minacciato da May in ritorsione del rifiuto dell’Europa di acconsentire alle pretese britanniche sulle tariffe commerciali post-Brexit.

Qui non c’è il cosiddetto “rigetto della globalizzazione” di cui cianciano le analisi dotte dei “populismi”.

Qui c’è l’intenzione di mettere a frutto per sé, come borghesia britannica, le regole di questa globalizzazione sfilandosi dall’abbraccio di uno dei blocchi economici, la Ue, indotti da questo processo. Qui a dirigere il fronte Brexit non ci sono solo rappresentanti della piccola e media borghesia Farage-style, ma pezzi dell’élite capitalistica britannica e anglosassone, come dimostra la (seppur tardiva) conversione del Financial Times a favore del governo May. Il fatto che le conseguenze dell’uscita del Regno Unito dalla Ue (ad esempio le ritorsioni commerciali Ue per accedere al mercato in cui si dirige il 45% delle esportazioni di Londra o la tentazione della Scozia di lasciare a sua volta il Regno Unito per rimanere nella Ue) possano tagliare le gambe a queste attese della borghesia britannica pro-Brexit, non cambia la visione positiva della globalizzazione che essa veicola. Non solo nel settore degli immigrati e nel settore industriale, anche in quello finanziario.

A sentire sempre gli economisti per la Brexit, lo sganciamento dalla Ue permetterebbe al settore finanziario londinese, e soprattutto ai fondi immobiliari e ai fondi pensione, di muoversi liberamente sul mercato mondiale senza subire i vincoli all’attività speculativa imposti da Bruxelles. L’uscita dalla Ue permetterebbe al Regno Unito, dicono gli otto economisti pro-Brexit, di riconquistare la sovranità sulla propria attività finanziaria... Ma chi riconquisterebbe tale sovranità? I lavoratori? E per fare cosa? Forse per tassare i mega-profitti finanziari e redistribuirne i proventi a vantaggio dei proletari? È vero che i lavoratori, la cui copertura welfarista è sempre più legata (dopo le cure thatcheriane e blairiane) alle assicurazioni e agli investimenti finanziari, si aspettano di lucrare qualcosa da un incremento dei profitti dei fondi pensione, ma questo (aleatorio) vantaggio monetario non segna la riconquista di alcuna sovranità da parte dei lavoratori sulla loro esistenza e sul loro futuro: equivale piuttosto a subordinare la tutela welfarista all’andamento del mercato mondiale e all’opera di strozzinaggio dei propri capitalisti sugli sfruttati del mondo intero e quindi anche su di sé.

Basterebbero queste considerazioni per far emergere il crimine politico insito nelle posizioni di chi, a sinistra, ha sostenuto la Brexit con la motivazione che essa avrebbe aperto una discussione in seno alla Ue e favorito l’adozione di una politica “sociale” a Bruxelles. Persino il primo ministro scozzese, pro-”Remain”, Sturgeon ha denunciato che il piano di Brexit di Theresa May è una corsa al ribasso giocata con basse tasse e bassi salari.

Ma non c’è solo questo: l’effetto della Brexit sui lavoratori è disastroso non solo sul piano immediato, ma anche e soprattutto su quello politico, perché trascina i lavoratori britannici al carro di una politica estera che è destinata a sfociare in uno scontro armato contro altre potenze capitalistiche per la rispartizione del controllo delle risorse e della forza lavoro planetaria.

Nel processo di collisione in corso tra gli Usa e la Cina e tra l’Occidente (con Ue e Usa in contrasto tra loro) e questo e quel paese emergente, l’ala pro-Brexit della borghesia britannica intende sottrarsi all’abbraccio del blocco imperialista europeista in formazione. Calcola che sia per essa conveniente, soprattutto dopo il fallimento del negoziato Ttip per il libero scambio tra Usa e Ue, giocare sul mercato mondiale liberamente o in associazione con gli Stati Uniti e il Canada e l’Australia e la Nuova Zelanda.

In vista di questa navigazione “solitaria”, l’alta borghesia britannica pro-Brexit si preoccupa di ricucire le linee di frattura apertesi nel paese, soprattutto tra l’élite borghese e la classe operaia, in tanti anni di thatcherismo e di blairismo e di irregimentare entro i binari del compattamento sciovinistico lo scontento e la rabbia di tanti lavoratori. Ecco il senso della scoperta della “questione operaia” da parte della conservatrice Theresa May; ecco il senso delle sue tirate sull’ingiustizia di una società in cui pochi si arricchiscono e tanti rimangono indietro; ecco il senso delle sue attenzioni alle preoccupazioni dei lavoratori per la precarietà dei contratti, per i pesanti orari e ritmi di lavoro, per i salari tante volte appena sufficienti per arrivare a fine mese, per la mobilità sociale bloccata. Questa

situazione, ripete ossessivamente il primo ministro britannico, mina la solidarietà della nostra società. E come si può condurre la politica estera richiesta ad un paese imperialista come il Regno Unito nell’odierna situazione di scomposizione dell’assetto internazionale tradizionale senza ricomporre questa incipiente frattura interna? Rinnovando una vecchia e consolidata ricetta borghese, il governo

May cerca di ottenere questo risultato politico attraverso la promessa di ripartire a vantaggio di tutti il bottino saccheggiato soprattutto ai danni dei lavoratori degli altri paesi e degli immigrati.

Tra le esche gettate dai conservatori pro-Brexit in questo senso vi è la promessa di dare la precedenza ai lavoratori britannici rispetto ai lavoratori immigrati nell’occupazione di un posto di lavoro vacante o nella fruizione di un servizio pubblico. Sta qui uno dei principali motivi che hanno spinto tanti lavoratori a votare Brexit e su questo dovrebbero riflettere mille volte coloro che leggono questo voto

come una svolta a sinistra.

Poiché non siamo nel periodo delle vacche grasse capitalistiche del secondo dopoguerra, le promesse

del governo May potranno tradursi in qualcosa di concreto solo per gruppi iper-selezionati di lavoratori.

In compenso ad attendere la massa degli sfruttati, trascinata dal carro imperialistico britannico in una spirale di concorrenza con i lavoratori degli altri paesi, sarà un mare di sacrifici. I sostenitori da sinistra del “Leave”, al di là della loro volontà, hanno favorito questa politica di irregimentazione dei lavoratori alla politica socialindustrial-imperialista di May. La contro-prova non è tardata ad arrivare, con la sterzata a destra di Corbyn sugli immigrati delle ultime settimane del 2016.

Questa nostra opposizione al fronte pro-Brexit non significa che, a nostro avviso, i proletari del Regno Unito avrebbero dovuto votare per il “Remain”, espressione delle imprese e del settore della City interessati a rimanere, per motivi economici e motivi strategici, entro il mercato comune europeo (magari per evitarne il consolidamento come polo imperialistico autonomo dalle potenze anglosassoni).

Questi interessi sono ben rappresentati dalla politica interna ed estera di un Cameron, ex-primo ministro britannico, e dal suo accordo del gennaio 2016 con Bruxelles contro i lavoratori immigrati nel Regno Unito.

L’interesse del proletariato del Regno Unito è quello di svincolarsi dall’abbraccio con i due schieramenti della propria classe dominante e di cercare la forza per difendersi dalle politiche dell’uno e dell’altro nella propria mobilitazione autonoma e nella ricerca dell’unità delle proprie fila, tra i lavoratori britannici e i lavoratori immigrati, e di queste con i lavoratori d’oltre Manica.

Su questo terreno vanno messe a frutto le trincee più favorevoli offerte all’unificazione di classe dall’esistenza di frontiere comuni per la circolazione delle merci e delle persone nell’Europa a 27. Non puntava e non punta certamente a questo la politica di Corbyn, ma essa ha colto il problema quando, durante la campagna referendaria, ha detto che se i lavoratori britannici vogliono fermare i piani di privatizzazione in arrivo e gli arretramenti in corso da anni, hanno interesse non a separarsi dai lavoratori dell’Europa continentale ma a cooperare con questi ultimi e a cercare in questa cooperazione la forza per imporre un cambiamento nella politica europea. L’organizzazione di questo

fronte unitario di lotta non può, però, essere attuata flirtando con il fronte euro-socialista a cui si affida Corbyn, che ha tra i suoi campioni Renzi, D’Alema, Hollande, bensì lottando anche contro di esso, le sue scelte, le sue rincorse del “populismo”, di cui proprio Corbyn sta dando prova nelle ultime settimane con i toni razzisti verso i lavoratori immigrati comparsi nei suoi comizi.

 

Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017

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