Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017
I braccianti asiatici dell’Agro Pontino contro “il troppo lavoro,
le troppe umiliazioni, la troppa miseria, il caporalato”
Da tempo il settore agricolo italiano (sulla falsariga di quanto accade a scala planetaria) è organizzato in filiere controllate monopolisticamente dalle gigantesche multinazionali dell’agro-business e della grande distribuzione. Sono questi titani del capitale mondializzato a dettare, attraverso l’opera di intermediazione dei grossisti e di altre figure imprenditoriali, le reali condizioni economiche e produttive dell’intero comparto. I medi e piccoli agricoltori (che ormai dipendono quasi interamente dagli ordini e dagli acquisti di questi giganti), per “stare sul mercato”, sono di fatto obbligati a vendere i loro prodotti a prezzi sempre più bassi. Inevitabilmente ciò si traduce in condizioni di sfruttamento bestiale per gli immigrati (ma non solo per loro) che lavorano nelle campagne. Nell’Italia meridionale queste filiere dello sfruttamento assumono connotati ancora più immediatamente odiosi ed oppressivi per lo storico ruolo svolto in esse dal caporalato, dagli apparati camorristici e mafiosi e per il forte e strutturale legame (pienamente funzionale al grande capitale dalle mani “pulite”) esistente tra questi, l’imprenditoria “legale” e gli apparati istituzionali. È in questo clima e contro questo grumo di interessi che nella primavera del 2016 i braccianti asiatici di Latina sono scesi in lotta.
A dare il via alla mobilitazione è stato il tragico suicidio, avvenuto a Fondi nel marzo 2016, del giovane bracciante indiano Singh. Come hanno detto alcuni suoi connazionali, Singh è stato ucciso dal caporalato, dal troppo lavoro, dalle troppe umiliazioni, dalla troppa miseria. Questo drammatico avvenimento ha fatto da detonatore per un veloce e intenso percorso di discussione e di organizzazione che ha trovato utile sponda nella Flai-Cgil e in alcune associazioni locali. Per questa via una buona parte dei circa 9 mila braccianti indiani della provincia di Latina ha trovato la determinazione e il coraggio per rivendicare collettivamente i propri diritti salariali e normativi di fronte agli imprenditori e alle istituzioni.
È così partita una serie di scioperi e di mobilitazioni in cui si è richiesta una paga e un orario in linea con quanto sancito dal contratto nazionale di categoria (9 euro lordi l’ora
per 6 ore e mezza al giorno) a fronte dei 3 euro e mezzo e delle dieci e passa ore lavorative a cui si è spesso costretti. È stato rivendicato in busta paga il “bonus governativo” degli 80 euro mensili (le aziende lo intascano e non lo girano ai lavoratori) e additato l’infame ruolo del caporalato. È stato evidenziato come e quanto, per reggere ai carichi di lavoro, spesso si sia indotti a fare ricorso a sostanze dopanti.
Sono stati denunciati gli abusi e le molestie sessuali che le braccianti sono spesso costrette a subire in silenzio da parte di imprenditori e caporali vari. È stato sottolineato il ruolo razzista della legge Bossi-Fini, che, legando il permesso di soggiorno al contratto di lavoro, rende ancor più ricattabile l’immigrato.
Dopo vari giorni di mobilitazione, nonostante licenziamenti e intimidazioni, si è giunti, il 18 aprile 2016, alla bella e combattiva manifestazione tenutasi a Latina: migliaia di
immigrati in sciopero sono giunti dalle campagne circostanti e hanno sfilato per le vie della città sostenendo e facendo conoscere a gran voce le loro ragioni. La mobilitazione (che va collocata nella scia delle lotte degli scorsi anni dei braccianti immigrati di Rosarno, di Nardodipace e di Castel Volturno) è poi proseguita anche nelle settimane successive e, al di là dei pur non secondari risultati immediati raggiunti (sono state strappate migliorie soprattutto sul versante dei salari e degli orari), è stata di grande importanza soprattutto da un punto di vista politico. Non solo i sindacati confederali sono stati stimolati (in un certo senso si potrebbe dire “costretti”) a dare rilievo nazionale alla situazione delle campagne convocando il 25giugno 2016 a Bari una partecipata manifestazione nazionale “per dire no al caporalato e allo sfruttamento del
lavoro in agricoltura”, ma soprattutto migliaia di immigrati hanno iniziato a discutere e ad organizzarsi. Hanno dato vita in prima persona ad affollate assemblee (a tal fine nella cittadina di Fondi è stato utilizzato l’edificio adibito a tempio Sikh, fede a cui la stragrande maggioranza dei braccianti in questione appartiene), sono usciti dal “silenzio individuale” e hanno così potuto affrontare di petto le paure e i ricatti sperimentando direttamente l’importanza della lotta collettiva.
Questo è stato ed è il frutto più prezioso prodotto dalle lotte dei braccianti indiani dell’Agro pontino. Un frutto e un’esperienza da difendere e da consolidare anche per stimolare positivamente quei braccianti di altra nazionalità che in questa occasione hanno denotato molta (troppa) “titubanza” di fronte alla mobilitazione messa in campo.
Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA