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Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017

“Accoglienza condizionata” e repressione sono due anelli

 inseparabili della politica razzista del governo italiano e degli

 altri governi europei.

 

La questione dell’immigrazione è cruciale nella politica europea. È cruciale per i lavoratori europei, che spesso attribuiscono agli immigrati la responsabilità delle difficoltà che vivono.

Ed è cruciale per gli immigrati, sottoposti a una asfissiante cappa di piombo e protagonisti anche nei mesi scorsi di alcune importanti iniziative di difesa.

Gli uni e gli altri guardano e si interrogano sulla politica dell’Unione Europea e dei governi europei sull’immigrazione. Apparentemente, questa politica sembra “confusa” o addirittura una non-politica poiché gli stati membri dell’Ue adottano misure divergenti. La “confusione e la contraddittorietà” sembrano cresciute da quando è “esploso” il problema dei “profughi siriani e mediorientali”. Si passa, infatti, dai muri di filo spinato innalzati alle frontiere ungheresi e croate alle politiche di “grande accoglienza” proclamate (non senza distinguo e precisazioni) nell’estate del 2015 dal cancelliere tedesco Angela Merkel.

Ma le cose stanno davvero così? Veramente le politiche degli stati europei sono così confuse?

E quale posizione hanno interesse ad assumere di fronte ad esse i lavoratori autoctoni e i lavoratori immigrati? Possono forse contare, di fronte alla canea razzista delle forze di destra, sulla politica “accogliente” del governo italiano, quella di Renzi e poi quella di Gentiloni?

 

La vecchia Europa ha fame di braccia giovani.  

Aiuta a far chiarezza partire da un dato di fatto. Se, per assurdo, le frontiere continentali restassero sigillate, nei prossimi quarant’anni l’Europa vedrebbe scendere la propria popolazione in età lavorativa dagli attuali 335 milioni ai circa 296 milioni del 2060, con una contrazione percentuale di oltre l’11,5%. In pratica scomparirebbero quasi 40 milioni di lavoratori.

A dirlo è un recente studio della commissione europea. Anche se ci sono rilevanti differenze tra i vari paesi, il documento mette in risalto che l’Europa nel suo insieme, senza l’apporto della manodopera “straniera”, sarebbe destinata ad un decadimento

produttivo e a un invecchiamento della popolazione “economicamente e socialmente insostenibile”. Persino l’attualmente robusto sistema di welfare tedesco rischierebbe di essere messo in crisi: la Germania è, infatti, uno dei paesi europei col più basso tasso di nascite e col più alto indice di invecchiamento. A “frontiere chiuse” la sua popolazione lavorativa diminuirebbe in quattro decenni di oltre 9 milioni di unità (oltre il 20%).

La situazione italiana conferma questa dinamica. In Italia gli immigrati occupati “regolarmente” sono circa 2 milioni e 300 mila (quasi l’11% degli occupati totali), mentre si stima che altri 300 mila siano costretti a lavorare in nero senza alcuna tutela

contrattuale. L’attività di questi lavoratori è essenziale in tutti i più importanti comparti economici: quasi 400 mila operai impiegati nell’industria manifatturiera, oltre 250 mila lavoratori edili, quasi 110 mila braccianti agricoli, oltre 600 mila colf e badanti impegnate nei servizi domestici e di cura alle persone in difficoltà. La presenza dei lavoratori immigrati contribuisce inoltre in maniera rilevante a tenere in piedi il sistema pubblico previdenziale. Nel 2015, secondo un rapporto del ministero dell’economia, le pensioni di circa 600 mila italiani sono state coperte solo ed esclusivamente grazie alla differenza tra i contributi versati dagli immigrati (8 miliardi di euro) e il costo delle prestazioni di cui hanno contemporaneamente goduto (3 miliardi).

A sottolineare l’indispensabilità di questi lavoratori è anche la Confindustria.

In un suo studio del giugno 2016, essa rileva che, “per evitare che la popolazione [italiana] si contragga (-130 mila unità nel 2015), è necessario che i flussi di immigrati

tornino ai livelli pre-crisi” (Immigrati da emergenza a opportunità). Il documento aggiunge con preoccupazione: “Nel cinquantennio 2015-2065 la popolazione autoctona di 15-64-enni diminuirà di oltre 170 mila unità all’anno. Una depressione demografica notevole, che non potrà che essere contrastata –almeno parzialmente– da

consistenti flussi di immigrazione, pena un forte ridimensionamento dell’economia e di tutta la vita sociale del paese”.

A una simile emorragia di braccia non si può sopperire soltanto con un ipotetico aumento della produttività industriale né in Italia né in Germania.

La macchina capitalistica europea, non solo non può fare a meno della manodopera a buon mercato rappresentata dai lavoratori immigrati attualmente presenti sul continente, ma ne ha e ne avrà un costante e crescente bisogno.

 “Accoglienza” selettiva e condizionata

 Ai padroni europei non serve solo abbondante manodopera immigrata: serve anche che questa manodopera sia ultra-ricattabile e possa essere super-sfruttata. Il governo tedesco sa che non si può mantenere in questa situazione la grande massa dei lavoratori immigrati soltanto tramite legislazioni restrittive e la mano repressiva. A rendere ciò poco praticabile è l’entità stessa della massa degli immigrati (nella sola Germania già oggi superiore agli 11 milioni) e l’imprescindibile funzione da loro svolta nell’apparato produttivo.

Per continuare a torchiare “al meglio” questo enorme serbatoio di manodopera, è necessario che al vecchio e sempre utile bastone si inizi ad affiancare anche qualche carota.

L’attuale governo berlinese sta indirizzando in questo senso la sua iniziativa con una serie di misure che, mentre puntano a “fidelizzare alla nazione” quote significative di immigrati “vecchi” e “nuovi”, nello stesso tempo rendono più dure le sanzioni amministrative e penali verso chi, in vario modo, tende a sottrarsi a questo “richiamo”.

A differenza di quanto viene propagandato (con un misto di malafede e crassa imbecillità) dai mezzi di informazione, Merkel non propone una “indistinta apertura umanitaria” delle porte a tutti i profughi e a tutti gli immigrati.

Da anni, al netto dei cangianti fattori propagandistici, il governo tedesco si muove su altri e più prosaici binari con l’obiettivo di “favorire” e “incentivare” un afflusso cospicuo ma selettivo di manodopera immigrata quantitativamente e qualitativamente

rispondente alle stringenti esigenze dell’apparato produttivo tedesco. Che questa sia la stella polare che orienta la politica di Merkel lo dimostra, tra l’altro, il varo (primavera 2016) della cosiddetta “prima legge sull’integrazione”.

Essa prevede l’estensione di alcuni istituti di welfare per i profughi e il loro avviamento assistito al lavoro con corsi gratuiti di lingua e di addestramento professionale, ma parallelamente impone, pena la perdita di ogni “beneficio”, che i profughi partecipino a specifici stages per l’assimilazione dei “basilari e fondamentali valori culturali tedeschi” e “cooperino attivamente” alla propria “integrazione”.(1) Per il governo tedesco, l’immigrato non deve soltanto soddisfare le più disparate esigenze delle aziende, ma deve essere spinto a percepirsi come un cittadino della nazione (anche se sempre particolarmente ricattabile e di seconda classe), deve sentirsi grato e “in obbligo” per questo nuovo status, e in un certo senso diventare agente attivo del proprio

stesso controllo sociale.

Risultano funzionali a tale scopo anche iniziative politiche apparentemente contrastanti con il bisogno di manodopera tedesco ed europeo, come, ad esempio, l’accordo (perorato dalla Germania) stipulato tra l’Unione europea e la Turchia (vedi riquadro). Esso sembra erigere un muro tra il Medioriente e l’Europa. In realtà l’obiettivo di tale accordo non è quello di sigillare ermeticamente le frontiere turche, ma quello di: a) modulare l’afflusso dei “profughi” in misura il più possibile idonea a soddisfare i variabili appetiti dell’apparato capitalistico tedesco e continentale; b) accatastare difficoltà su difficoltà al percorso di arrivo in Europa in modo che l’immigrato, una volta giunto “a destinazione”, sia così provato nel corpo e nello spirito da essere predisposto non solo a subire “in silenzio” un regime di super-sfruttamento, ma anche ad accettare di disfarsi delle proprie tradizioni e della propria cultura pur di essere in un certo qual modo “accettato”. Per questa via il neo-arrivato deve perdere ogni tratto

di identità collettiva (e quindi di potenziale capacità di resistenza e lotta) e sentirsi “un singolo” totalmente in balìa di forze troppo più grandi di lui.

Gli stessi muri di filo spinato eretti da vari governi dell’Europa orientale, per quanto non concordati a tavolino con paesi come l’Italia o la Germania, contribuiscono di fatto a questo risultato.

Il cancelliere Merkel che nell’estate del 2015 affermava che la Germania era pronta ad accogliere oltre 800 mila immigrati all’anno, non è dunque in contraddizione con il cancelliere Merkel che a dicembre del 2016, durante il congresso della Cdu, dice che “non tutti gli 890 mila profughi arrivati qui nel 2015 potranno rimanere” e precisa che “il nostro diritto deve avere il primato rispetto a regole di tribù, di clan e anche della Sharia”(2).

 Dividere, stratificare, contrapporre

 Che politiche di questo tipo non debbano e non possano essere una prerogativa esclusivamente tedesca, lo sottolinea, tra gli altri, anche la Confindustria. Nello studio citato sopra, dopo aver messo l’accento sulla necessità di favorire un maggior afflusso di immigrati nel “bel paese”, si aggiunge: “Una politica di apertura ed accoglienza non può essere senza misura: la sostenibilità sociale, prima ancora che economica, deve essere un criterio guida da seguire consapevolmente, più di quanto non sia stato fatto finora. Pur con limiti e problemi evidenti, il tentativo tedesco appare interessante e degno di riflessione, perché pone… [all’immigrato] la condizione di imparare a convivere con l’identità nazionale del paese di accoglienza”.

In pratica, l’associazione degli industriali italiani chiede di mettere in campo azioni che consentano al padronato di usufruire al meglio della manodopera immigrata (e del suo

super-sfruttamento) e che, al contempo, creino un clima in cui questi stessi lavoratori sono sospinti a far proprie le “ragioni e i bisogni” del loro “nuovo paese”, tanto sul piano economico quanto su quello politico. L’Azienda-Italia, al pari di quella tedesca e soprattutto in prospettiva, ha bisogno di un immigrato che non si “limiti” a mettere a disposizione solo le sue braccia, ma che sia disposto anche a sostenere gli aspetti più generali delle politiche occidentali, anche quando queste rivestano (come di norma avviene) carattere neo-coloniale contro i suoi stessi paesi d’origine.

I governi italiani hanno da tempo cominciato a curare anche questo secondo aspetto della questione immigrazione.

Ne abbiamo parlato nei precedenti numeri di questo giornale (3). Qui vogliamo evidenziare tre recenti avvenimenti, passati sotto traccia, che denotano quanto anche le nostrane istituzioni governative ed amministrative stanno muovendosi nella direzione “tedesca” auspicata da Confindustria.

Il primo è l’accordo del giugno 2016 tra l’Italia e il Gambia per favorire il rimpatrio dall’Italia degli immigrati “irregolari”, la loro emigrazione filtrata dal Gambia e la penetrazione delle imprese italiane nell’economia dell’area. Il governo italiano, grazie

anche all’attivismo dell’ex-ministro degli esteri Gentiloni, si è poi adoperato per estendere l’iniziativa ad altri paesi africani (la Nigeria, il Niger, il Senegal, il Mali, la Libia di Serraj) e per farle ricevere il sostegno finanziario e politico della Ue. (4)

Il secondo avvenimento riguarda l’iniziativa dei servizi segreti italiani, comunicata al paese ufficialmente il 1° agosto 2016, di intensificare la presenza di agenti e informatori nei luoghi di incontro delle comunità immigrate.

“Nei mesi precedenti, racconta la Repubblica del 2 agosto, sono stati infiltrati 1300 «luoghi sensibili», 900 in più di un anno prima. Non più e non solo le moschee ufficiali, i luoghi di culto clandestino, i ritrovi tradizionali delle comunità islamiche. Ma le periferie delle grandi città, i mercati, la piccola criminalità, i trafficanti di clandestini, i cambiavalute, i money transfer, gli internet point. [...] Uno sforzo che ha il suo reciproco nell’accelerazione che l’Aise (una delle agenzie dei servizi segreti italiani) di Manenti sta dando alla ridefinizione della cosiddetta «proiezione esterna» della nostra Intelligence. Dopo la strage di Dacca l’Aise aumenterà la sua presenza in Asia e in alcune aree del Sud America, con la creazione di centri in cui si moltiplicheranno le presenze dei nostri agenti e dunque la capacità di essere in aree del mondo dove l’Italia non è mai stata presente.”

Il terzo avvenimento riguarda il rapporto tra lo stato italiano e le istituzioni religiose musulmane in Italia. Nel luglio 2016, dopo aver riattivato la Consulta per l’Islam, l’allora ministro degli interni Alfano ha lanciato la proposta della cosiddetta “patente per gli imam”.(5) Essa stabilisce che, a differenza di quanto accade oggi, per svolgere la funzione di predicatore islamico, è necessario essere iscritti a un albo pubblico e istituzionale, a cui si accede solo dopo aver compiuto “un percorso civico di riconoscimento delle regole e dell’ordinamento italiano”.

La scaletta di Alfano propone inoltre che la predicazione del venerdì avvenga in lingua italiana. Non si tratta solo di proposte. A Roma, con svariate motivazioni, sono state chiuse dalle autorità comunali alcune mosche “autogestite” situate nei quartieri periferici e proletari della capitale. Questo insieme di misure verso la vita religiosa degli immigrati musulmani, che ha trovato una prima risposta in una minuscola ma significativa iniziativa nel quartiere di Torpignattara a Roma, punta a tre (ben poco “religiosi”) obiettivi.

Primo: approfondire la diffidenza razzista che già oggi nelle periferie nostrane la gente nutre contro i lavoratori immigrati (in particolar modo contro quelli di fede islamica) e rafforzare la falsa idea che siano gli immigrati la fondamentale causa dei problemi che gravano sui lavoratori autoctoni.

Secondo: promuovere ulteriori fattori di differenziazione e di divisione tra gli immigrati stessi, ad esempio inducendo l’immigrato di fede cattolica (o di altra religione) a vedere in quello musulmano un potenziale pericolo con cui non “legare”, da isolare e contro cui far blocco insieme alle autorità italiane.

Terzo: colpire la capacità di discussione, organizzazione e lotta collettiva dei lavoratori immigrati. Le moschee “di periferia” non sono, infatti, luoghi esclusivamente religiosi, ma sono anche luoghi dove proletari immigrati, spesso provenienti da paesi differenti,

si incontrano, socializzano e dove possono iniziare a discutere dei loro comuni problemi, delle cause di fondo (ad esempio le guerre neo-coloniali) che li costringono ad abbandonare le loro terre, delle proprie condizioni di lavoro, del razzismo istituzionale ed extra-istituzionale e delle altre mille difficoltà quotidiane che sono costretti a patire. Le moschee sono, quindi, luoghi dove, proprio perché non si vive una condizione di isolamento individuale, si può iniziare a comprendere che, solidarizzando, ci si può difendere meglio e che, per fare ciò, è necessario ragionare su come organizzarsi collettivamente oltre e fuori le moschee stesse, oltre e al di là del limitato ambito religioso. Con la “proposta” sull’istituzionalizzazione degli imam il governo italiano non punta solo a meglio controllare e depotenziare questi percorsi di molecolare resistenza e organizzazione sociale, ma anche a far diventare un settore degli stessi immigrati attivo protagonista di questo processo di controllo e depotenziamento e integrazione.

 L’unica “integrazione” realmente possibile ed utile è quella delle e  nelle lotte.

 È ovvio che, nell’attuale situazione di precarietà e ricattabilità generalizzata, le politiche di “accoglienza selettiva e condizionata” di stampo tedesco o italiano (non perfettamente coincidenti benché indirizzate sul medesimo binario) abbiano un effetto

attraente e lusinghiero per una quota importante dei lavoratori immigrati, soprattutto se essi sono arrivati in Europa da un po’ di tempo.

Meno ovvio ma altrettanto vero è che, nonostante le mille difficoltà, i proletari immigrati non sono sempre pronti a chinare la testa. Lo dimostrano tre circoscritte ma significative mobilitazioni di cui “naturalmente” non vi è stata quasi traccia sui mezzi

di informazione. La prima è quella dei facchini della logistica (ne parliamo a pag. 17), nel corso della quale è stato assassinato il militante operaio di origine egiziana Abd Elsalam. La seconda è quella condotta dai braccianti immigrati nell’Agro Pontino laziale, di cui parliamo a pag. 16. La terza è quella tenutasi a Roma proprio intorno alla questione delle moschee di periferia, di cui diamo conto nel riquadro a lato. Esse indicano l’unica strada in grado di erigere un efficace argine al razzismo e al super-sfruttamento subìti dai lavoratori immigrati.

Su questa strada sono emerse due principali difficoltà. Da un lato, le iniziative messe

in campo dai lavoratori immigrati nell’Italia settentrionale, a Roma e nelle campagne meridionali (in Puglia, in Campania e in Calabria oltre che nell’Agro Pontino) non sono

riuscite, finora, a stabilire un filo di collegamento stabile. La separazione non è solo geografica. È legata alle differenti condizioni lavorative, alle diversità (lingua, religione, usanze) dei propri paesi di origine. Il superamento di questa separazione è legata, come discutiamo ad esempio nell’articolo sulle lotte nella logistica, alla capacità dei protagonisti delle lotte di raccordare il problema specifico da cui sono partiti alla politica generale del padronato e dei governi europei da cui quel problema discende o è condizionato.

Dall’altro lato, le iniziative dei lavoratori immigrati sono state lasciate sole dai lavoratori italiani o sono state oggetto di ostilità. Anzi, un numero crescente di lavoratori italiani, giudicando (e ce ne vuole!) l’operato dei recenti governi troppo “tenero” verso gli immigrati, tende a rivolgere il proprio sguardo e le proprie simpatie

verso forze e prospettive più apertamente e dichiaratamente connotate da lineamenti razzisti: i Fratelli d’Italia di Meloni e la Lega Nord di Salvini, ma anche il MoVimentoCinqueStelle di Grillo, il cui rancore razzista non è affatto in contraddizione con il resto della sua piattaforma programmatica.

A determinare questa collocazione dei lavoratori italiani non è solo e tanto la propaganda dei mezzi di informazione, che sicuramente pesa, ma fattori materiali generati dalla mondializzazione del capitale e dai processi politici (ad esempio la formazione dell’Europa) collegati con essa. Proviamo a ragionare su qualche esempio.

Una quota rilevante di lavoratori autoctoni sta sopperendo alle carenze e ai tagli alla sanità e all’assistenza sociale pubblica facendo ricorso alle prestazioni fornite dalla manodopera “straniera”, soprattutto nel campo della cura e dell’assistenza alle persone

anziane. Volenti o nolenti, molti lavoratori e pensionati italiani sono, per tal via, indotti a considerare conveniente per sé e la propria famiglia che l’immigrato assunto non abbia “troppe pretese” (né economiche né di altro genere) e che la badante o l’infermiera o l’aiuto domestico continuino a lavorare a capo chino e sommessamente.

Nello stesso tempo, molti lavoratori percepiscono l’immigrato come un pericoloso concorrente sul mercato del lavoro e nella fruizione dei servizi sociali (pronto soccorso,

trasporti, asili nido, edilizia popolare, ecc.), di cui sarebbe meglio disfarsi.

È questa situazione, che ha la sua origine nel funzionamento del sistema capitalistico e nelle politiche dei governi italiani ed europei, che alimenta il “razzismo popolare”, sia nelle versioni più “pulite e tolleranti” di sinistra e sia in quelle più “rozze” personificate

da Salvini. Per combattere il “razzismo popolare” in entrambe le sue varianti, è necessario prendere atto della realtà, evitare ogni atteggiamento illuministico nei confronti dei lavoratori italiani, denunciare i veri responsabili del peggioramento in corso della condizione di questi ultimi, mostrare le tragiche conseguenze contro gli stessi lavoratori italiani a cui conducono le politiche razziste di ogni tipo. Queste politiche sono suicide per gli stessi lavoratori italiani per almeno tre ordini di motivi.

Primo: per ragioni strutturalmente insite nel funzionamento del capitale mondializzato, cui abbiamo accennato in precedenza, il numero degli immigrati, e quindi la loro potenziale forza sociale e politica, è destinato a crescere negli anni. Pensare di risolvere

il problema “cacciandoli” è un’illusione.

Secondo: schiacciare gli immigrati contribuisce a fornire ai padroni e ai governi armi di ricatto da utilizzare contro gli stessi lavoratori autoctoni.

Terzo: indirizzare la sacrosanta rabbia dei lavoratori italiani contro il falso bersaglio dell’immigrato significa legarsi a quel carro imperialista che, in nome dei “superiori valori” dell’Occidente, sta chiamando i lavoratori italiani a farsi stritolare dalle esigenze di competitività delle aziende e dell’Azienda-Italia, oggi con tanto sudore e ansia, domani anche come carne da cannone per le guerre imperialiste in preparazione.

Piaccia o meno questa è la realtà e davanti ad essa i lavoratori autoctoni hanno due scelte. 1) Scannarsi con i lavoratori immigrati come cani affamati intorno a uno scarno osso, ad unico vantaggio dei padroni e della loro cupola politica di servizio. 2) Iniziare a costruire con gli immigrati momenti di discussione, lotta e organizzazione comuni e, come parte di ciò, sostenere incondizionatamente le iniziative, anche separate, di difesa

messe in campo dai lavoratori immigrati contro il super-sfruttamento nel settore logistico e nell’agricoltura oppure contro la politica razzista del governo, anche quando queste iniziative investono piani apparentemente neutrali come la vita religiosa o l’abbigliamento delle donne. Questo sì che permetterebbe agli uni e agli altri di difendersi da chi, dall’alto di un banchetto costruito sul sudore e sulle pene di fatica di giorno, getta ad arte proprio quel maledetto osso.

 Note

 (1) La legge prevede anche che i profughi che abbiano ottenuto il diritto d’asilo per i primi sei mesi possano essere assunti con contratti da un (uno!) euro l’ora. Sono inoltre state varate alcune norme

che rendono più difficoltose le pratiche per il ricongiungimento familiare e che facilitano l’esecuzione delle espulsioni per gli immigrati “indesiderati o entrati illegalmente”.

(2) Durante il congresso della Cdu è stato anche reso noto che 500 mila domande d’asilo sono già state respinte.

(3) Vedere ad esempio gli articoli “Dopo la strage di Stato di Lampedusa: a fianco dei nostri fratelli di classe immigrati!” (che fare n. 79) e “La politica “accogliente” di Renzi e quella “respingente” di Salvini: due facce della stessa medaglia razzista” (che fare n. 83).

(4) Si veda l’intervista al Sole24 Ore con cui, agli inizi di ottobre 2016, l’allora ministro degli esteri Gentiloni ha propagandato la sua campagna d’Africa: mettiamo a frutto, ha esortato Gentiloni, le opportunità di piazzare macchinari agricoli o flotte da pesca, di imbracare entro il “nostro” sistema industriale-logistico la trasformazione dei prodotti agricoli locali, di fornire le macchine per costruire le reti energetiche di cui lo sviluppo capitalistico africano ha bisogno, di torchiare (in loco oppure in Italia) l’abbondantissima manodopera africana... In perfetta continuità, aggiungiamo noi, con le tradizioni colonialiste in terra d’Africa dell’Italia liberale, fascista e repubblicana.

(5) La proposta, formalmente partorita dalla stessa consulta per l’Islam, ha trovato il pieno sostegno della dirigenza dell’Ucoii (Unione delle comunità islamiche in Italia), espressione degli strati più benestanti, integrati (qui si che ci sta!) e ammanicati della comunità musulmana in Italia, suscitando invece più di qualche giustificatissima perplessità e diffidenza tra i fedeli “di base”.

Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017

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