Che fare n.83 dicembre 2015 - maggio 2016
Gli Usa, la Ue e i loro alleati, in lizza tra loro, potenziano la loro aggressione al mondo musulmano per balcanizzarlo e, grazie a ciò, rapinarne le risorse naturali e umane
Nell’ultimo trimestre del 2015 le potenze occidentali hanno ampliato il loro intervento militare in Iraq, in Siria, in Afghanistan e nell’Africa centro-settentrionale. Avevano aperto le danze nell’ottobre 2015 gli Usa e l’Italia, prima degli attentati di Parigi. Dopo tali attentati, è arrivato il contributo della Francia, della Gran Bretagna e della Germania. La Francia ha intensificato i bombardamenti in Siria-Iraq e a supporto della campagna aerea ha accelerato l’invio, previsto prima degli attentati, della portaerei
De Gaulle dal porto di Tolone nel Mediterraneo orientale. Il governo britannico, con l’approvazione del parlamento, è passato dai voli di semplice ricognizione sul territorio della Siria-Iraq ai veri e propri bombardamenti. La Germania, infine, ha rotto gli indugi del suo "pacifismo" e ha inviato aerei Tornado in missione di ricognizione in Iraq-Siria e 650 militari in Mali, così da permettere alla Francia di spostare una parte delle sue forze militari in Medioriente. A queste iniziative i governi europei hanno accompagnato l’indurimento e il coordinamento del controllo poliziesco svolto entro i confini europei sul mondo degli immigrati di religione musulmana. Negli articoli che seguono intendiamo ribadire, anche alla luce dei fatti più recenti, che i lavoratori europei ed occidentali hanno interesse ad opporsi alla crociata anti-islamica dell’Occidente, rivolta anche contro i loro stessi interessi, e a sostenere il bersaglio profondo di essa: la resistenza, in difficoltà ma non domata, delle masse lavoratrici mediorientali di fronte al tentativo della civiltà capitalistica occidentale di frantumarle e torchiarle attraverso il tritacarne imperialista.Per mettere in luce la vera posta in gioco nel nuovo capitolo dell’aggressione delle potenze occidentali in Medioriente, conviene lasciare da parte, per prenderli in esame solo successivamente, gli elementi che i mezzi di informazione ufficiali mettono in primo piano, il cosiddetto "Stato Islamico" o la religione islamica o la divisione tra sunniti e sciiti. Da cosa partire, allora? Dal ruolo subordinato assegnato al Medioriente nella divisione internazionale del lavoro, dalla lotta dei popoli e degli sfruttati dell’area per emanciparsi, nazionalmente e socialmente, da questo giogo.
Il Medioriente svolge un triplice ruolo: è un’area che produce petrolio e gas a prezzi vantaggiosi per le aree capitalisticamente dominanti del mondo; è un’area che produce manodopera salariata per il capitale internazionale da impiegare in loco e come immigrati in Europa; è un’area cruciale per il controllo delle rotte marittime planetarie, quindi per il controllo del commercio mondiale, e il pugno di stati (i soliti noti) che monopolizzano le flotte militari e mercantili mondiali (con relative infrastrutture satellitari) si guardano bene dal lasciarla in mani altrui. Questo ruolo subordinato svolto dal Medioriente nella divisione internazionale del lavoro non è il risultato di uno processo naturale, non è un destino assegnato al Medioriente dal dna delle popolazioni che lo abitano oppure dalle religioni in cui esse si riconoscono. È il frutto dello sviluppo storico moderno. Più volte su questo giornale abbiamo cercato di ripercorrerne la dinamica(1). Questa volta ci soffermiamo su due momenti: da un lato, sulla sistemazione che le potenze capitalistiche occidentali diedero dopo la prima guerra mondiale ai territori compresi nell’ex-impero Ottomano; dall’altro lato, sulla politica portata avanti dall’imperialismo nell’ultimo decennio e sui contrasti tra le classi sociali suscitati da questa politica.
Da Sikes-Picot all’aggressione contro l’Iraq
Chiamata in causa dalle vicende mediorientali dello scorso anno e poi immediatamente ricoperta dal silenzio mediatico, la sistemazione post-prima guerra mondiale è stata un momentocruciale dello scontro che permise al capitale occidentale di sottomettere le risorse naturali e umane dell’area alle proprie esigenze di valorizzazione e di dominio mondiale. Lo scontro che si accese in quegli anni da Istanbul a Baghdad al Cairo è stato un momento- chiave anche di un altro processo storico, di cui si parla ancora meno: la maturazione del risorgimento arabo e musulmano. Dalle sollevazioni popolari del 1919-1920 in Turchia, Siria, Iraq ed Egitto, dalla vittoria nel 1922 del movimento nazionale turco contro l’invasione dell’Anatolia da parte della Gran Bretagna, della Francia, dell’Italia e della Grecia, fino al 1979, quando il movimento rivoluzionario iraniano rase al suolo il regime filooccidentale dello scià, il cammino di questo risorgimento, sotto la bandiera del "nasserismo" o dell’islamismo radicale, è stato continuo, pur con battute di arresto e involuzioni. Insieme al restante movimento anti-imperialista del cosiddetto Terzo-Mondo, esso contribuì a far allentare la morsa rapinatrice dell’Occidente sul Sud del mondo, permise di aumentare la quota della rendita petrolifera mantenuta nelle mani delle borghesie locali, contribuì all’erosione delle basi del compromesso sociale siglato (anche grazie ai super-profitti garantiti dal super-sfruttamento del Medioriente) tra il proletariato e le borghesie delle metropoli, e favorì il risveglio rivendicativo della lotta proletaria in Europa e negli Stati Uniti. Il dominio imperialista sul mondo (combinato e diseguale) degli sfruttati delle metropoli e delle periferie, corroso anche dall’esaurimento delle ottimali condizioni tecnologiche e monetarie per l’accumulazione capitalistica messe in campo all’indomani della seconda guerra mondiale, divenne instabile. Sembrano avvenimenti lontani, eppure è almeno da quel periodo che occorre partire per intendere le cronaca dei nostri giorni.
Agli inizi degli anni ottanta la contro- offensiva dei centri di comando del sistema imperialista fu furiosa. Al centro di essa è stata ed è la mondializzazione della produzione capitalistica, la nascita della fabbrica planetaria, la rimodulazione del sistema finanziario in funzione di questa modifica dell’apparato produttivo capitalistico, la susseguente ristrutturazione dei rapporti di forza tra capitale e lavoro salariato nelle metropoli all’insegna del thatcherismo e del blairismo, e, nello stesso tempo, il tentativo di far leva su questa trasformazione sociale per ristabilire, su queste nuove basi, il dominio occidentale sui popoli e sugli sfruttati dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Il Medioriente è stato uno dei fronti di questa gigante- sca contro-offensiva imperialista: da un lato, esso, pur in modo diseguale a seconda delle zone, ha partecipato al processo di estensione dei rapporti sociali capitalistici, di proletarizzazione e di industrializzazione che ha investito l’ex-Terzo Mondo; dall’altro lato, esso è stato investito dal bulldozer occidentale intento a ristabilire il proprio dominio totalitario sull’area. Da un lato, investimenti in fabbriche in Tunisia, in Turchia, in Iran, in Cina, in Egitto, negli emirati del golfo Persico e, dall’altro, manovre di ogni tipo, "pacifiche" e "militari", per funzionalizzare a sé la modernizzazione capitalistica in corso in questi paesi ed impedire che essa diventasse fonte di uno sviluppo economico e sociale meno distorto, che in essa le masse lavoratrici consolidassero il loro spirito combattivo, la loro consapevolezza storica di non essere inferiori ai bianchi europei maturata durante la loro secolare lotta di emancipazione e le prime, per quanto parziali, vittorie degli anni cinquanta-settanta.
Le sollevazioni popolari in Tunisia, Egitto, Bahrein
Sembrava che, su questo secondo versante, nei primi anni del XXI secolo l’Occidente imperialista avesse raggiunto il suo obiettivo con la guerra terroristica condotta (con la benedizione dell’Onu) contro il popolo iracheno, ricacciato all’epoca preindustriale (come ebbe a dire uno dei porci che diresse le operazioni militari Usa) affinché tutto il mondo musulmano e l’intero ex-Terzo Mondo si rassegnasse al ruolo nazionalmente e socialmente subordinato richiesto dalla prosperità dell’Occidente. Ed invece non è stato così. Ed invece è arrivato il 2010 con le tre sollevazioni con cui in Tunisia, Egitto e Bahrein le popolazioni lavoratrici, al centro la spinta d’urto del proletariato, sono tornate a gettare nello scontro proprio la volontà di riscatto che si pensava fosse stata annientata. Non solo cadevano due pilastri dell’ordine occidentale, il regime di Mubarak e quello di Ben Ali. Non solo era messo alle strette l’assolutismo della famiglia reale in Bahrein e venivano rilanciate le simpatie verso, se non l’incorporazione, almeno l’inserimento dell’arcipelago nell’area di influenza iraniana. Ma si apriva una dinamica economica e politica orientata nel verso opposto a quello auspicato dalle centrali imperialiste e coinvolgente, orrore orrore!, anche i propri alleati nell’area(2).
In Egitto e in Tunisia, sotto la bandiera della Fratellanza Musulmana, grazie anche alla parallela repressione delle spinte radicali classiste del moto popolare egiziano, si abbozza un tentativo di cooperare con la Turchia di Erdogan e con il Qatar, pur filo-occidentali, per raccordare le politiche economiche dei tre paesi. Questo tentativo si aggiunge, in competizione con essi, agli altri due poli di sviluppo borghese non ancora addomesticati rimasti in piedi nel mondo musulmano, quello che, ad ovest, fa capo a Gheddafi e quello che, ad est, fa capo alla repubblica dell’Iran. Il pericolo cacciato dalla porta irachena minaccia di rientrare dalla finestra, soprattutto per la novità che caratterizza la scena economica mediorientale e dell’Africa orientale: sebbene in misura diversa, i tre poli di sviluppo in Turchia-Egitto-Qatar, in Libia e in Iran crescono intrecciando solidi legami con la Cina, sono una sponda per l’espansione capitalistica nell’area della Cina, e questo proprio quando, invece, la classe dirigente Usa (repubblicana e democratica) ha preso atto che il proprio interesse strategico è quello di cingere d’assedio la Cina e tagliare i collegamenti da essa costruiti con le aree per sé vitali di rifornimento del petrolio e delle materie prime rappresentate dal Medioriente e, via oceano Indiano, dall’Africa orientale. Di fronte alla (vera) primavera araba, la risposta imperialista è stata immediata e, pur se indebolita dai contrasti interni agli alleati, essa è riuscita, purtroppo, a mettere a segno alcuni colpi micidiali. L’Arabia Saudita è intervenuta direttamente nel Bahrein e ha schiacciato la mobilitazione popolare in corso nell’arcipelago. L
a Francia, la Gran Bretagna e l’Italia si sono lanciate contro la repubblica libica diretta da Gheddafi: capaci di resistere per mesi contro una potenza di fuoco resa nettamente superiore anche dall’aiuto fornito all’Occidente dal Qatar e dalla Turchia, da una venduta opposizione micro-borghese libica e dalla neutralità delle masse lavoratrici protagoniste della primavera tunisina ed egiziana, i lavoratori e il popolo della Libia sono stati piegati nell’ottobre 2011. Passano alcuni mesi e la Francia, con l’approvazione delle sorelle-concorrenti, interviene in Mali, anche per stroncare sul nascere la formazione di una rete di resistenza antimperialista nella Libia meridionale e nello scrigno uranifero del Sahel. Non erano ancora partiti i bombardamenti sulla Libia, quando la Francia, la Gran Bretagna, l’Italia, Israele, la Turchia, il Qatar, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti mettono sotto assedio (per il tramite di truppe mercenarie e di una microbica opposizione interna laica e islamista a loro affittata) la repubblica siriana di Assad, ponte di collegamento, tra Beirut e Teheran, dell’altro polo borghese, quello imperniato sull’Iran khomeneista, riottoso al dominio dell’imperialismo(3). Da allora sei milioni di siriani sono emigrati dalla Siria, sei su venticinque! Ancora qualche mese e tocca al polo capitalista in corso di formazione sotto la bandiera della Fratellanza Musulmana, illusosi di potersi avvantaggiare dei colpi assestati (a braccetto con la Nato) alla Libia e alla Siria: l’Arabia Saudita, in collaborazione con Israele e in contrasto con i piani della Turchia di Erdogan, promuove il golpe delle forze armate egiziane contro il governo dei Fratelli Musulmani. Non fosse bastato tutto ciò, nell’estate 2014, Israele, forte del golpe militare di al-Sisi in Egitto e della manomissione parziale ottenuta in Siria, lancia l’operazione "Margini di protezione" contro le organizzazioni della resistenza palestinese a Gaza..
Qualcuno in Europa si è anche solo indignato per questa sventagliata terroristica guidata dalle democrazie europee contro le popolazioni musulmane del Nordafrica e del Medioriente? Qualcuno ha solo denunciato il costo sociale di questa operazione? Qualcuno ha raccontato, dopo l’estate 2014, come si vive a Gaza? Qualcuno lo ha aggiunto a quello che continua a pagare, nel silenzio internazionale, il popolo iracheno? Anche i lavoratori europei, purtroppo, hanno girato la testa dall’altra parte, come avevano già fatto dopo l’occupazione dell’Iraq del 2003 verso il genocidio compiuto ai danni del popolo iracheno.
Nessun disimpegno Usa
Alcuni commentatori hanno sostenuto che questo caos è stato causato dalla politica di Obama, che si è progressivamente disimpegnato dal Medioriente, che ha lasciato scatenare i diavoletti locali e che ha indotto in tentazione gli alleati europei a rincorrere i loro ex-recinti coloniali. A parte il fatto che anche questa lettura ripropone la solita chiave di lettura razzista e mistificatoria, secondo cui lo scontro e le tragedie in corso in Medioriente sono legati a fattori fondamentalmente endogeni, a parte questo "dettaglio" questa tiritera sul disimpegno degli Usa di Obama dal Medioriente è una grande menzogna. È vero che gli Usa, tra il 2011 e il 2014, hanno ritirato una parte consistente dei loro contingenti militari dall’Iraq e dall’Afghanistan. È vero che Obama non ha continuato la politica mirante a disarcionare con l’embargo e un eventuale intervento militare "chirurgico" la classe dirigente islamista di Teheran e ha puntato invece a un accordo con essa o almeno con la frazione liberale di essa. Ed è anche vero che la politica mediorientale di Obama è, su questo ultimo punto, entrata parzialmente in contrasto con quella della classe dirigente israeliana e di quella saudita. Ma le mosse di Obama non stanno affatto ad indicare un disimpegno Usa dal Medioriente o un ripudio della politica di oppressione e rapina condotta nell’area dagli Usa da quando, alla fine degli anni venti, penetrarono nelle vicende mediorientali fino al genocidio compiuto in Iraq dal trio Bush padre-Clinton- Bush figlio, passando per il golpe Cia-targato contro Mossadeq in Iran nel 1953. Non lo stanno ad indicare, innanzitutto perché il dispositivo militare Usa (e Nato) nell’area continua ad essere potentissimo, con installazioni ben guarnite e tecnologicamente avanzate in Turchia, in Arabia Saudita, nel Bahrein, a Gibuti, in Iraq, in Israele, in Egitto, in Giordania e nei mari circostanti. Poi perché questo dispositivo dal 2011 ad oggi è rimasto tutt’altro che inattivo, partecipando alle aggressioni alla Libia e alla Siria, a cui ha offerto un supporto logistico e satellitare senza il quale esse si sarebbero accartocciate.
Terzo, perché gli Usa sono stati gli artefici di un altro fronte dell’aggressione imperialista al mondo musulmano: la secessione di fatto del Sudan meridionale, ricco di petrolio e di una estesa presenza di imprese cinesi, e l’indebolimento del Sudan filo-cinese. Ed infine perché la classe dirigente Usa, incassati i risultati ottenuti in Iraq dai neocons, si è resa conto che per soffocare la lotta antimperialista nell’area e sganciare lo sviluppo capitalistico dell’area (in particolare quello iraniano) dall’abbraccio cinese, è più conveniente puntare, piuttosto che sulla rischiosa esportazione della ricetta jugoslava e irachena a Teheran, come preferirebbero Israele e l’Arabia Saudita, sulla riedizione della strategia ordita dalla Gran Bretagna un secolo prima, e cioè sulla totale balcanizzazione della zona, da frantumare in soggetti statali e semi-statali concorrenti tra loro e incapaci di promuovere, anche in virtù di questo reciproco azzannarsi e controllarsi a vicenda, la formazione di uno stato con ambizioni simili a quelle di Saddam Hussein o di Khomeini e capacissimi, invece, a stroncare sul nascere la tessitura di legami tra i lavoratori di nazione e religione diverse. A tal fine, ringhiano tra i denti alla Casa Bianca, va spappolata l’area compresa tra Baghdad e Beirut in sotto-stati e protettorati, da colpire non appena si azzardano ad allargare il loro raggio d’azione oltre i limiti stabiliti dai padroni a stelle e strisce. Nello stesso tempo va offerta la possibilità all’Iran di uscire dall’isolamento in cui lo abbiamo sospinto, sempre se la classe dirigente iraniana accetterà di svolgere fino in fondo il ruolo di trampolino per gli investitori occidentali in Iran e di moderatore politico verso gli sfruttati iraniani, verso gli sfruttati iracheni, libanesi e della penisola arabica di fede sciita( 3).
Lo spezzatino che stiamo creando nella fascia Libano-Siria-Iraq, sogghignano infine alla Casa Bianca, e il mantenimento dell’alleanza con Israele e l’Arabia Saudita (ai quali, pur in presenza di contrasti rilevanti, non smetteremo certo di fornire armi a tutto spiano) dovrebbero, in ogni caso, togliere ogni tentazione alla borghesia iraniana di non onorare il patto da essa sottoscritto con l’accordo nucleare di Ginevra.
Il caos in "Siraq" e il reinserimento dell’Iran nella regione in chiave moderata dovrebbero, inoltre, servire agli Usa per piazzare altri tre cunei.
1) Il primo è quello contro la Russia, che verrebbe indebolita nei suoi legami militari con la Siria di Assad e con l’Iran. L’erosione della residua presenza russa in Medioriente, aggiunta alle pressioni indotte con la provocazione Usa-Ue in Ucraina e con il riarmo Nato dei paesi est-europei, intende "invitare" Putin a scegliere tra il progressivo isolamento internazionale (con il conseguente rischio di implosione e la partecipazione (ovviamente subordinata) alla Santa Alleanza Democratica in costruzione a Washington contro la Cina.
2) Lo sdoganamento dell’Iran servirebbe poi nelle intenzioni degli Usa a calmierare le velleità dell’Arabia Saudita e le "esagerazioni" di Israele, in modo che le classi dirigenti di questi due alleati storici degli Usa accettino di cooperare, oltre i loro interessi biechi, con il grande obiettivo strategico dell’imperialismo Usa, quello di fare i conti con la Cina.
3) La concimazione così suscitata della storica contrapposizione delle borghesie israeliana e saudita verso quella iraniana dovrebbe poi servire a tenere a bada la tentazione della Turchia e dell’Iran, di cui si è avuto sentore nella visita di Erdogan a Teheran nel giugno 2014, di stabilire una profittevole collaborazione economica per mettere a frutto il loro ruolo di ponte tra l’Europa, la Russia, i mercati mediorientali e centro-asiatici, nel mezzo delle "vie della seta" del XXI secolo che la Cina (con una sponda nella Germania di Merkel) intende riattivare. Altri campanelli di allarme per gli Usa sono stati la visita di Putin a Teheran del 23 novembre 2015, con un incontro diretto con la Guida Suprema Khamenei (4) e la firma dell’accordo Turkish Stream tra Putin e Erdogan (dopo l’affondamento del South Stream) per un gasdotto tra la Russia e l’Europa via Turchia, potenzialmente agganciato agli idrocarburi in arrivo dall’Iran(5).
E questo sarebbe il "disimpegno" degli Usa dal Medioriente! Il disegno di Obama, purtroppo, non è rimasto solo sulla carta. L’Iraq non è stato tri o quadripartito? La Siria non è stata, forse, divisa tra il troncone rimasto sotto il controllo di Assad, alcune enclave curde e le zone in mano ai gruppi della cosiddetta opposizione siriana o dell’Isis? L’accordo tra la cosiddetta comunità internazionale e l’Iran non sta facendo già sentire il suo influsso moderatore sui sentimenti degli sfruttati sciiti in Libano e nella penisola Arabica? Non è un contro-esempio la vicenda dei curdi, anche se questi ultimi applaudono a Obama e alle potenze europee(6). Non lo è per i curdi dell’Iraq, perché essi stanno pagando la relativissima tenuta (rispetto ai livelli nelle altre aree dell’Iraq e della Siria) delle loro condizioni economiche e sociali con l’offerta della loro forza combattente al servizio della politica imperialista contro gli altri popoli e sfruttati della regione e quindi anche contro loro stessi. Non lo è neanche per i curdi della Siria settentrionale organizzati attorno al Pkk, i quali, di fronte alla disorganizzazione dello stato siriano nell’area di Kobane per effetto delle provocazioni dei gruppi al servizio dell’Occidente, hanno cercato di legare la propria autodifesa al tentativo di costituire una base per la promozione nell’area della loro battaglia nazionale e sociale. In questa operazione hanno accettato l’aiuto della Nato, pensando di servirsene senza esserne stritolati come carne da macello per rafforzare la manomissione imperialista della regione, la radice della loro stessa oppressione. Non hanno dovuto aspettare molto per sperimentare i richiami all’ordine, sanguinosi, degli "alleati" occidentali e della Turchia, con bombardamenti, stragi di stato e persecuzioni, non appena si è provato ad infrangere la camicia di forza in cui ci si è venuti a trovare, di andare oltre la enclave stabilita in terra siriana, di stringere legami con i territori curdi collocati in Iraq o in Turchia e di contrastare la sudditanza della popolazione lavoratrice curda alla sotto-borghesia stracciona del Kurdistan iracheno infeudata all’Occidente(7). È la lezione che, su un terreno diverso, arriva dalla traiettoria dell’Isis, nata come pedina del gioco al massacro imperialista e ora entrata nel mirino delle potenze occidentali (ne parliamo nell’articolo a destra) per essere ricondotta al suo originario ruolo...
Cos’altro è questa complessiva politica dell’Occidente in Medioriente e in Africa settentrionale, se non una guerra terroristica di rapina e di oppressione contro i popoli e gli sfruttati del mondo musulmano?
Note
(1) Vedi ad esempio l’articolo "Dietro la cortina fumogena delle guerre di religione" pubblicato sul n. 81 del
che fare (dicembre 2014).(2) Vedi il dossier sulla "primavera araba" pubblicato sul
che fare n. 74 (giugno 2011) e l’articolo del che fare n. 79 (dicembre 2013) "A quale piazza ha risposto il generale al-Sisi?"(3) A questo proposito è significativo l’articolo pubblicato dalla rivista
Foreign Affairs nel suo numero 5 del 2015 sulle prospettive dell’economia iraniana dopo l’accordo sul nucleare. "Negli ultimi anni, la questione nucleare ha dominato le notizie sull’Iran. Il recente importante accordo deciso tra Iran e Stati Uniti e altre potenze mondiali contiene le disposizioni per la gestione di tale questione, ma lascia aperte molte altre domande sul corso futuro dell’Iran. Una delle questioni fondamentali è quale percorso seguirà l’Iran dopo che le sanzioni saranno levate: si aprirà al mondo, sviluppando il potenziale economico del paese, o sarà l’ininfluente élite conservatrice del paese a contrastare l’impegno globale? La scelta iraniana avrà profonde implicazioni geopolitiche e essa influenzerà il ruolo del paese nel mondo nei prossimi decenni. "La saggezza popolare sostiene che il governo iraniano otterrà un guadagno economico immediato inatteso dall’accordo, grazie al rilascio di circa 100 miliardi di dollari congelati, per dopo continuare a beneficiare, con la fine delle sanzioni, degli investimenti stranieri. Le maggiori entrate dagli asset (attività, beni) non congelati non saranno così significative come ci si aspetta. [...] Gli investimenti esteri saranno, quindi, cruciali per l’Iran, l’ultima maggiore economia a non essere integrata nell’economia globale. L’Iran, infatti, è maturo per le trasformazioni economiche. Diversamente dalla maggior parte dei paesi ricchi di risorse naturali, l’Iran ha un mucchio di vantaggi addizionali, inclusa una economia diversificata, un surplus commerciale, e una popolazione urbana altamente istruita. Gli investimenti esteri permetteranno all’Iran di capitalizzare questi punti di forza. "L’Iran è l’unico paese nel mondo con una quantità imponente contemporaneamente sia di petrolio che di gas; esso vanta la verificata quarta riserva di petrolio più grande al mondo, e la verificata seconda riserva di gas più grande al mondo. Per questa ragione, molte analisi sul potenziale economico dell’Iran mettono a fuoco unicamente la questione energia. I vantaggi economici dell’Iran, però, sono numerosi e vari. Con un Pil di circa 1,4 trilioni di dollari (convertiti in dollari internazionali usando i tassi a parità di potere d’acquisto), o, grosso modo, l’1,5% del Pil mondiale, l’Iran ha la diciottesima più grande economia nel mondo, tra la Turchia e l’Australia. Il suo Pil pro capite, grosso modo 17.000 dollari, lo piazza davanti a Brasile e Cina, anche dopo la sua crescita stagnante degli ultimi anni. Il suo rapporto debito/pil è intorno al 12%, tra i più bassi al mondo. Oltretutto, nonostante la larga stazza delle risorse energetiche iraniane, la sua economia è relativamente diversificata: 50% servizi, 41% industria e 9% agricoltura. [...] Nel 2011, prima delle sanzioni, l’Iran era la tredicesima più grande industria di auto, producendo 1,65 milioni di auto annualmente, più che il Regno Unito. Dal 2013, in parte per la sua diversità, l’Iran ha goduto di un relativo sostenuto surplus commerciale annuale di circa 35 miliardi dalla produzione automobilistica, chimica, mineraria, delle utilities (servizi) e telecomunicazioni. Il più promettente indicatore del potenziale economico dell’Iran, però, è il capitale umano. L’Iran ha una popolazione di 80 milioni, comparabile a quella della Germania e della Turchia. Circa il 64% degli iraniani sono al di sotto dei 35 anni di età. La popolazione è per il 75% urbana, una percentuale simile a quella dei maggiori paesi industrializzati. E questa popolazione urbana è ben istruita. Il tasso di alfabetizzazione è complessivamente dell’87% e del 98% per quelli che hanno una età tra i 15 e i 24 anni. Dei circa 4,4 milioni di studenti iscritti all’università, il 60% erano donne negli anni scolastici 2012-13, e all’incirca 44% sono studenti nei campus di STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics). Dopo Russia e Stati Uniti, l’Iran è il quinto più grande produttore di laureati in ingegneria (affidabili statistiche per la Cina e l’India non sono disponibili, ma è probabile che esse occupino le posizioni una e due), sebbene l’educazione che essi ricevono in Iran non è sempre di alta qualità. Ancora, all’incirca 7,5 milioni di iraniani, o circa il 13,3% della popolazione in età lavorativa del paese, hanno completato una educazione di livello universitario, facendo dell’Iran il maggior paese istruito nel Medio Oriente. L’Iran, però, non può trarre pieno vantaggio da questi suoi punti di forza senza gli investimenti stranieri. […] "Se l’Iran vuole raccogliere questi benefici, comunque, avrà bisogno di incoraggiare un contesto che contribuisce agli investimenti stranieri. Per primo e principalmente, l’investimento di capitale avrà bisogno di esser protetto da leggi che incoraggiano certezza e stabilità per il libero mercato. […] L’Iran ha perso l’età d’oro della globalizzazione, dal 1998 al 2007, durante i quali gli investitori esteri hanno investito nelle economie emergenti. Oggi tutte le economie emergenti devono competere aggressivamente per la loro quota per le parti disponibili di capitale. [...] La riforma economica non è mai facile. L’opposizione può unirsi velocemente e aggiungere resistenza ai già formidabili ostacoli alla crescita e all’efficienza. È difficile conoscere esattamente quali saranno le più ampie implicazioni di riforma per la politica e la società. Se l’Iran vuole raccogliere i benefici economici del sollievo dalle sanzioni, comunque, i riformatori devono persuadere gli scettici del libero mercato e degli investimenti esteri che le riforme possono essere una opportunità vantaggiosa per tutti, permettendo la creazione di ricchezza nazionale. Se la direzione dell’Iran vuole raccogliere i benefici dell’appartenenza all’economia globale, deve incoraggiare la sua popolazione -élite e iraniani ordinari- ad accettare che il mondo è cambiato e che la datata narrativa dell’intromissione e dell’espropriazione straniera non dovrebbe ostacolare le decisioni pragmatiche circa il futuro economico del paese."(4) Vedi l’articolo "Putin risalda l’asse con Teheran" del
Sole 24 Ore del 24 novembre 2015(5) Vedi l’articolo "Missile contro gasdotto" di M. Dinucci sul manifesto del primo dicembre 2015.
(6) Sulla questione curda vedi sul n. 21 del che fare (maggio 1991) l’articolo "L’ultimo, ed anche il più amaro, atto dell’annoso dramma dei curdi".
(7) Eppure malgrado queste amare esperienze, nel novembre 2015 i gruppi curdi dell’area di Kobane hanno addirittura accettato l’arrivo di decine di istruttori del Pentagono e la collaborazione con essi!
Che fare n.83 dicembre 2015 - maggio 2016
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA