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Che fare n.83 dicembre 2015 - maggio 2016

La politica debolmente europeista e filo-Usa di Renzi può riservare

qualche vantaggio anche ai lavoratori?

Nel suo messaggio di fine anno per il 2016 il primo ministro italiano Matteo Renzi ha affermato che il suo governo ha compiuto un ottimo lavoro. Siamo d’accordo con lui. Ha compiuto un ottimo lavoro contro i lavoratori a vantaggio dei capitalisti che lo hanno piazzato alla testa dell’esecutivo italiano.

Per porre le basi di un’iniziativa politica realmente capace di contrastare l’azione del governo Renzi e delle forze politiche in fase di (difficile e per nulla scontata) germinazione che potrebbero succedergli, ci vuole una prospettiva politica radicalmente diversa da quella proposta dai raggruppamenti messi in piedi dai fuoriusciti del partito democratico e dagli altri spezzoni della sinistra italiana.

 Completamento della contro-riforma del mercato del lavoro, con il varo a metà 2015 anche della legge-delega sul controllo a distanza; controriforma della scuola, per rendere più efficiente, a colpi di stage aziendali e di gerarchizzazione degli insegnanti, la funzione svolta già oggi dalla scuola statale, e cioè la formazione di giovani dalla schiena ben flessibile verso gli imperativi del mercato; riforma del Senato, ridotto a organo consultivo, e nuova legge elettorale, con premio quasi-pigliatutto per la coalizione vincitrice, per accentrare il potere, più di quanto non accada oggi, nelle mani di un pugno di persone che rispondono direttamente ai centri di comando capitalistici, nascosti dietro le quinte dei salotti parlamentari; legge di stabilità per il 2016 (v. scheda a pag.3), con al centro il regalo fiscale alle imprese e ai ceti parassitari, i tagli alla sanità e l’incoraggiamento alla sostituzione delle tutele dei lavoratori collettive unificanti a livello nazionale (come il contratto del lavoro) con tutele aziendaliste e privatistiche; campagna contro il diritto di sciopero e interventi legislativi per limitarne l’esercizio nei settori del trasporto, della sanità e della scuola; consolidamento degli interventi militari italiani in Medioriente e in Nordafrica e dell’armamentario di controllo e repressione sui lavoratori immigrati di fede islamica…

Del tutto a ragione i capitalisti italiani sono grati a Renzi anche per il lavoro compiuto nel 2015. Non quello che chiedevano da anni ai governi di centro-destra guidati da Berlusconi, e che Berlusconi era riuscito solo in parte a imporre?

 Però, nel futuro...

 I grandi capitalisti, italiani ed europei, non sono, però, del tutto soddisfatti dell’operato del governo Renzi. Non sono pienamente soddisfatti perché, come ha osservato Monti, come ha dichiarato il dimissionario commissario alla spending review, il bocconiano Perotti, e come hanno rilevato i commissari incaricati a Bruxelles di esaminare la legge di stabilità italiana per il 2016, il governo Renzi non sta continuando la razionalizzazione della spesa pubblica.

Sì, Renzi sta tagliando le voci che riguardano il salario indiretto, e questo è degno di lode per i portavoce delle grandi imprese e della finanza, ma le esigenze del rilancio del capitale italiano ed europeo richiedono anche la tosatura delle prebende garantite agli ampi strati di ceto medio accumulatore ingrassato nelle nicchie del mercato interno. Dopo aver subìto qualche sforbiciata durante i governi Monti-Letta, tali strati sono tornati ad essere foraggiati dal governo Renzi, che hanno puntualmente ringraziato con il travaso del loro voto dal proprio tradizionale riferimento, Forza Italia fermano che, proprio per permettere all’Italia di recuperare buoni rapporti d’affari con la Russia (dove le imprese italiane hanno consolidati interessi economici) e un ruolo di primo piano in Libia, il governo italiano non deve defilarsi dalle iniziative intraprese dagli alleati europei in Medioriente e all’Est, come ha fatto il governo Renzi all’indomani degli attentati di Parigi, ma parteciparvi in prima fila, chiarendo all’opinione pubblica che il declino dell’Italia sarà inevitabile, con perdite per tutte le classi sociali, se non si accetteranno sacrifici economici e di sangue a sostegno della proiezione muscolare dell’Italia almeno sul teatro africano e mediorientale.

Non che siano mancate punzecchiature in questo senso al governo Renzi, ma la grande borghesia italiana sa che, per il momento, il governo Renzi e la sua ammucchiata trasformista sono il “meno peggio” che passa il convento della politica borghese, e questo “meno peggio”, per lo stato di passività e disorganizzazione politica del proletariato, può al momento anche andare bene, in attesa di mettere in piedi un altro raggruppamento, un vero partito della nazione, meno sgangherato e arruffone, e di farlo vincere alle prossime elezioni con l’aiuto dell’appena varata nuova legge elettorale, una copia di quella che nel 1953 la sinistra italiana di allora definì “legge truffa”. Se ne vedono i preparativi, più che nelle pagliacciate in stile Leopolda, negli ambienti del centro destra più legati alle imprese del Nord incardinate sulle esportazioni verso l’Europa centro-settentrionale oppure nei salotti frequentati da pezzi grossi della finanza e dell’industria italiana, come accade con Profumo, con Monti o con Enrico Letta (2).

 Le (mal risposte) attese dei lavoratori

 Di fronte a questa politica e alla parallela offensiva del padronato sul versante contrattuale (ne  parliamo nelle pagine 5-7), i lavoratori stentano a reagire e, in alcuni settori, si illudono addirittura che la proposta di un totale abbraccio della filosofia aziendalista di Renzi-Marchionne-Squinzi possa limitare i danni: possa garantire, pur al prezzo della flessibilizzazione totale e dell’intensificazione spinta della prestazione lavorativa, una tenuta o una perdita limitata sul piano salariale. Le inchieste dei centri studi padronali sugli atteggiamenti proletari sono ovviamente interessate ed esagerate, ma non inventano granché quando sostengono, come accaduto nei mesi scorsi con la presentazione della ricerca commissionata da Federmeccanica a Daniele Marini(3), che i lavoratori, soprattutto i più giovani, vedono un’opportunità nella meritocrazia e nella liberazione del mercato dai lacci del sindacato.

Anche nel caso in cui questo “abbraccio” riesca a garantire per un settore di lavoratori, quelli dipendenti da imprese che tirano, una tenuta sul limitato terreno salariale, esso non avrà solo l’effetto, come discutiamo nell’articolo a pag. 5, di rendere ancor più isolato e, quindi, impotente il singolo lavoratore, con effetti a cascata anche sulla residua capacità di contrattazione dei lavoratori delle imprese che tirano, ma olierà la disponibilità dei lavoratori a sostenere, contro i loro stessi interessi, gli interventi militari dell’Italia in altri paesi, illudendosi di poter impunemente cercare un tampone alla crescente incertezza che grava sulla propria esistenza racimolando qualche briciola dal bottino strappato insieme ai capitalisti, i propri sfruttatori, ai lavoratori e ai diseredati del Sud e dell’Est del mondo.

Né è da salvare o da considerare favorevolmente la politica di Renzi per l’allentamento dei vincoli di bilancio stabiliti a Bruxelles. Come abbiamo discusso nei numeri precedenti del giornale (4), anch’essa contribuisce a stringere il cappio del capitale al collo del proletariato. È vero che essa favorisce l’indebolimento della centralizzazione europea come blocco imperialista autonomo dagli Usa, ma nello stesso tempo sostiene la centralizzazione dei paesi occidentali attorno al polo statunitense. Questo riorientamento non farebbe pesare meno sui lavoratori in Italia i vincoli imposti dal mercato internazionale, da cui i vincoli imposti da Bruxelles dipendono, e non olierebbe la balcanizzazione delle fila proletarie meno di quanto facciano le politiche Ue(5).

Dovrebbe far riflettere il pacco-regalo per i lavoratori in Italia (v. riquadro di pag. 3) proposto da uno dei massimi esponenti della finanza Usa, così contenta di vedere allentati i vincoli di Bruxelles ma solo per indebolire la forza dell’alleato competitore europeo e drenare verso di sé una fetta maggiore della ricchezza estorta dallo sfruttamento capitalista al proletariato mondiale.

Se è fortemente dubitabile che alla classe dominante italiana convenga accodarsi ai tentativi Usa di indebolire la Germania e l’“Europa a trazione tedesca”, soprattutto dopo i goal messi a segno da Merkel nel 2015 con il rilancio, dopo la crisi ucraina, dei rapporti tra Berlino e Mosca, con la politica di “accoglienza” verso i profughi dal Medioriente e con la sottoscrizione da parte del governo a guida Tsipras dell’accordo di risanamento del bilancio greco; se non è ancora scontato che il nucleo storico della borghesia italiana voglia rinunciare a mantenere il suo ruolo nel gotha imperialista attraverso un’Europa più forte, inevitabilmente a guida tedesca, di sicuro l’inclinazione “amerikana” di Renzi espone i lavoratori d’Italia a una piovra economica e politica, nelle vicende italiane e in quelle internazionali, non meno asfissiante di quella di Bruxelles.

 La forza di classe proletaria si può costruire solo fuori dai parlamenti.

 Lo sfarinamento in corso del tessuto proletario in Italia non trova alcun argine nell’iniziativa politica  della sinistra parlamentare. La “novità” dell’autunno 2015, che si affianca alla formazione della “Coalizione Sociale” di Landini (6), è stata la nascita di “Sinistra Italiana” ad opera di Sel (Sinistra, ecologia e libertà) e di un gruppo di fuoriusciti del partito democratico e del M5S.

L’intenzione dichiarata del gruppo dirigente di “Sinistra Italiana” è quella di opporsi alla politica di Renzi. Ma qual è fulcro cui ci si intende appoggiare per questa azione di contrasto? Di nuovo le elezioni, come se i percorsi per l’approvazione parlamentare del Jobs Act e della “Buona scuola” o delle riforme istituzionali non avessero per l’ennesima volta mostrato che nel parlamento non si decide niente, che i giochi borghesi sono stabiliti fuori dal parlamento, che il parlamento (anche a costo di operazioni di compravendita di voti) ha la funzione di ratificare quello che, dettato ai burattini-ministri, è stato deciso fuori e di continuare ad alimentare tra i lavoratori la convinzione di affidare ai bilancini delle maggioranze parlamentari, piuttosto che alla propria mobilitazione di lotta, anche il semplice arginamento delle politiche anti-proletarie del governo.

E poi: anche se il gruppo dirigente di “Sinistra Italiana” denuncia (slavatamente) gli effetti sui lavoratori della politica di Renzi, in alternativa ad essa cosa ripropone? Ripropone gli stessi assi programmatici che hanno ispirato Renzi (il rilancio delle imprese italiane e la difesa delle condizioni proletarie attraverso e subordinatamente a questo rilancio) senza la coerenza propria invece di un Renzi di declinarli nell’unica forma in cui possono essere declinati nelle condizioni imposte dall’attuale fase del capitale mondializzato: quella liberaldemocratica.

La stessa parabola di Syriza, al cui modello si ispira “Sinistra Italiana”, non ha confermato questa regola? Possiamo cavarcela attribuendo il disastro in Grecia al tradimento di Tsipras? Anche Tsipras ha applicato il programma della coalizione Syriza nell’unico modo in cui esso poteva essere applicato entro i vincoli del mercato mondiale, da cui quelli di Bruxelles dipendono. E, in coerenza con i suoi presupposti keynesiani, lo ha fatto contribuendo a smobilitare il tessuto di lotte messo in piedi in Grecia dal 2010 e a disarmare politicamente i lavoratori greci di fronte alla resa dei conti dell’estate 2015.

Sappiamo bene che, entro la ridotta greca, nell’isolamento internazionale in cui i proletari sono stati lasciati a battersi contro il fronte unito della borghesia greca, europea e occidentale, era difficile sfuggire alla carretta di sacrifici che il nuovo accordo internazionale ha riversato sugli sfruttati greci. Sappiamo bene anche che i rapporti di forza, in un singolo paese e a livello internazionale, non si ribaltano da un giorno all’altro. Il fatto è che la politica di Syriza ha operato nel senso opposto a quello richiesto dal rafforzamento dell’unità di lotta e dell’autonomia politica dei lavoratori, condizioni vitali (oltre che conseguenze) di un qualsiasi mutamento dei rapporti di forza tra le classi.

Lo scontro politico in Grecia ha mostrato che non basta rivendicare anche soltanto un modesto obiettivo quale l’allentamento dei vincoli di Bruxelles e delle banche creditizie, per portarlo a casa. Ha mostrato che va costruita la forza extra-parlamentare per imporlo a un apparato di potere gigantesco altrettanto extraparlamentare, greco e internazionale, economico e politico. Ha mostrato che questa forza può risiedere solo nell’organizzazione unitaria dei lavoratori (a partire da quella tra i lavoratori greci e immigrati in Grecia) e che questa unità richiede a sua volta una politica che sganci la difesa degli interessi proletari da quelli aziendali, nazionali ed europei, dalle compatibilità derivanti dalle intese con gli stati emergenti come la Russia o la Cina, dai vincoli che l’obiettivo di pervenire ad ampi bottini elettorali fa pesare sul percorso di organizzazione degli sfruttati.

Renzi (come Tsipras) non ha tradito i “valori della sinistra”. Renzi è figlio legittimo dei padri fondatori del partito democratico, dei cartelli elettorali che hanno segnato le vicende della sinistra in Italia negli ultimi decenni, della “svolta” di Occhetto, a loro volta discendenti altrettanto legittimi del partito di lotta e di governo di Togliatti.

Per gettare le basi di una vera opposizione di classe alla politica di Renzi e della borghesia italiana, ai vincoli Ue e al capitale mondializzato, va messo in discussione l’assunto di questa tradizione politica, la possibilità di tutelare le condizioni proletarie attraverso il rilancio delle aziende sul mercato mondiale. È vero che oggi il sistema economico al cui consolidamento guardano i dirigenti della “sinistra” è quello europeo e non semplicemente quello italiano come ai tempi di Togliatti, ma questo non altera la sostanza del problema. Si ascrive l’offensiva capitalistica alla semplice speculazione finanziaria e si ripropone come ricetta un patto tra produttori, tra lavoratori e borghesia “sana”, per esportare in tutta Europa il modello tedesco. Ma il modello tedesco in tanto può garantire ai lavoratori della Germania una condizione invidiata dai lavoratori del resto dell’Europa in quanto il mercato del lavoro europeo è gerarchizzato e in quanto le imprese tedesche possono scaricare i costi del lavoro su quelle fornitrici collocate in Spagna, Italia, Grecia, Romania. La generalizzazione di questo modello non potrà essere che limitato e dipendente dal rafforzamento del capitale imperialista europeo, con la costituzione degli “Stati Uniti d’Europa” come blocco autonomo dagli Usa e con il sostegno da parte dei lavoratori europei della politica con cui questo blocco dovrebbe contendere agli Usa i frutti del saccheggio compiuto, (più o meno strettamente alleati) ai danni del Sud e dell’Est del mondo. Il keynesismo, spesso invocato come panacea alternativa al liberaldemocratismo di Renzi, non fu la politica con cui la borghesia Usa offrì questo patto diabolico ai “suoi” lavoratori alla vigilia della seconda guerra mondiale? Ci vorrà del tempo per invertire la rotta. Ma a passare le carte a un intervento politico classista anche di piccoli nuclei di militanti proletari capaci di far leva sui minimi appigli, in politica interna e in politica estera, offerti dallo scontro di classe, è e sarà lo stesso capitale con gli avvenimenti internazionali che si profilano all’orizzonte e che non risparmieranno certo il pavone tricolore e le altre apparentemente pacificate metropoli.

Note

 (1) Vedi l’articolo del Sole 24 Ore del 7 ottobre 2014 sull’aumento del 50% dei voti di commercianti, padroni, padroncini e professionisti al partito democratico di Renzi nelle elezioni europee del maggio 2014 rispetto alle precedenti tornate elettorali. Da allora il flusso è sicuramente diventato più consistente.

(2) “A terra o in piedi. La competizione globale è un match di boxe, reso più cattivo da sette anni di recessione violenta. Il 2016, per la nostra economia, sarà il round più duro. In palio, una ritrovata centralità o una definitiva marginalizzazione negli equilibri della manifattura internazionale. Indossati i guanti, vedremo quale delle due anime del sistema industriale italiano prenderà il sopravvento. La minoranza che, in virtù del suo collegamento ben strutturato ed efficiente con le catene internazionali del valore, appare in grado di dare di nuovo tono e di assumere la leadership psicologica in mezzo al ring. Oppure la maggioranza che, estromessa da tempo dai circuiti internazionali e falciata alle gambe dalla caduta del mercato interno, assomiglia ormai ad un pugile suonato, prossimo al tappeto. Esiste un tema di fisionomia concreta di chi sale sul ring. L’economista Sergio De Nardis ha calcolato in un quinto, dal 2008, la riduzione del potenziale produttivo italiano.

Dunque, c’è un obiettivo problema di “massa industrial-muscolare”. Allo stesso tempo, in un citatissimo articolo pubblicato sul penultimo numero della «Rivista di Politica Economica» De Nardis ha mostrato la scissione fra la realtà di chi esporta (la minoranza) e la realtà di chi non lo fa (la maggioranza). Le imprese esportatrici sono il 21% del totale, ma ad esse è imputabile l’81,6% del valore aggiunto generato dal nostro sistema industriale. Fissato a 1 l’indicatore dei non esportatori, le imprese esportatrici hanno un valore aggiunto per addetto più che doppio (2,19), una retribuzione lorda per dipendente più elevata (1,56), investimenti per addetto più che doppi (2,12) e, passando ad una scala percentuale, un margine operativo lordo più alto di 23 punti. Dunque, questa tendenza al bipolarismo pulviscolare, che caratterizza l’Italia dalla fine nei primi anni Novanta del paradigma della grande impresa novecentesca e che è stata accentuata dal processo di disarticolazione-riconfigurazione attuato dalla globalizzazione, appare una caratteristica con tratti degenerativi: o, nel 2016, si ricompone questa divaricazione o il nostro capitalismo rischia di essere trascinato verso il basso dalla maggioranza silenziosa e peritura” (Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2015).

Il problema fa capolino anche nell’intervista al Foglio (22 ottobre 2015) con cui l’industriale Regina ha presentato la sua candidatura alla guida della Confindustria per il dopo-Squinzi: “Il ruolo di Confindustria, nel futuro, deve diventare  un ruolo di leadership anche per guidare il paese verso un’altra rivoluzione culturale: far capire che non necessariamente essere piccoli significa essere belli e far capire che per riuscire a essere competitivi non solo in Italia ma anche nel resto del mondo è necessario superare alcuni tabù ed è importante rendersi conto che mai come in questo periodo storico non è necessariamente il piccolo che fa la forza del paese ma spesso, anche se non bisogna generalizzare, è l’unione tra piccole, e tra piccole e grandi, che rende il nostro paese più competitivo”.

(3) Vedi Il Corriere della Sera del 26 novembre 2015.

(4) Vedi su che fare n. 80 (maggio 2014) l’articolo “Contro il governo Renzi. Il bonus Irpef di 80 euro è un tassello di una politica (interna e internazionale) antiproletaria dalla A alla Z, da denunciare e contrastare senza se e senza ma”.

(5) Vedi l’intervista di Renzi al Tg1 del 10 gennaio 2016 e l’articolo di commento sul Messaggero del giorno successivo. “Renzi fa l’amerikano e attacca ancora una volta l’Europa a trazione tedesca.

Intervistato al Tg1, il premier [italiano] non cita la Merkel ma Barack Obama e loda la politica economica dell’amministrazione americana criticando l’austerity imposta da Bruxelles e da Berlino. [...] Rompendo l’equilibrismo della politica estera italiana che da decenni era sospesa tra gli Usa e una Ue a trazione tedesca, Renzi sembra pronto a sposare le tesi di Washington sui rischi di una germanizzazione dell’Europa divenuti più forti per le difficoltà della Francia.”

(6) Vedi l’articolo pubblicato sul n. 82 del che fare (maggio 2015) con il titolo “Sulla coalizione sociale di Landini

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