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Che fare n.82 maggio 2015 -novembre 2015

La crisi in Ucraina e nell’Europa orientale

Gli Usa e la Ue, in concorrenza tra loro, cercano di affondare i loro artigli sui lavoratori ucraini e russi.

Lo scontro in corso in Ucraina tra il governo filo-Nato di Kiev e le auto-proclamate repubbliche popolari orientali non può essere considerato come una crisi solo o prevalentemente interna. Prima di tutto perché esso trova la sua origine nel meccanismo combinato e diseguale di funzionamento del sistema capitalistico mondiale e nel soffocamento ad opera di questo meccanismo del tentativo guidato da Yanukovich di inserimento dell’economia ucraina nel mercato mondiale sulla base della reciprocamente vantaggiosa collaborazione con la Russia e con l’Ue. In secondo luogo, perché i paesi occidentali, appoggiandosi alle tendenze spontanee indotte da tale meccanismo, hanno giocato un ruolo decisivo nelle vicende ucraine con la loro iniziativa economica-politica-diplomatica-militare.

Se l’Ue voleva "solo" far trangugiare al governo di Janukovic il programma di austerità scodellato dalle banche occidentali, inserire l’Ucraina unitariamente nella Ue, stabilire un più diretto controllo sulla manodopera ucraina, ridurre gli spazi di manovra della Russia in Ucraina e "forzare" Mosca ad una partnership subordinata con l’Ue, gli Usa, da parte loro, manovrando le formazioni piccolo borghesi naziste ucraine foraggiate da anni, hanno approfittato dei contrasti esistenti tra l’Ue, la classe dirigente ucraina e la Russia per far precipitare il paese nel caos, promuovere il golpe democratico pro-Poroshenko, installare un governo apertamente anti-russo, attizzatore di contrapposizioni sanguinose nella popolazione ucraina secondo linee linguistiche e regionali.

L’uno-due degli Usa per balcanizzare l’Ucraina e il mondo russo

L’obiettivo degli Usa non è stato e non è solo quello di contrastare il consolidamento dell’Ue nell’Europa orientale e dei legami di essa, e soprattutto della Germania, con la Russia. L’obiettivo di fondo degli Usa è stato ed è quello di sbarrare la strada alla penetrazione della Cina in Ucraina e di picconare la formazione, in corso, di una piattaforma infrastrutturale ed economica tra Shanghai e Berlino passante per l’Asia centrale, la Russia e l’Ucraina. Questa piattaforma non si limiterebbe a rafforzare il potere contrattuale della Ue nell’ambito dell’Alleanza Atlantica, ma agevolerebbe l’ascesa, rischiosa per la stabilità dell’ordine capitalistico a stellestrisce, della potenza capitalistica di Pechino e renderebbe difficoltoso il grande obiettivo che Washington, Wall Street e il Pentagono si sono prefissi: far affluire direttamente nei forzieri dell’Occidente la ricchezza prodotta dalle centinaia di milioni di operai cinesi e asiatici, senza che un’importante quota di essa resti nelle mani delle classi capitalistiche locali e senza che un’altra quota rimanga sotto forma di salari e/o servizi sociali nelle mani delle stesse masse sfruttate che con il loro lavoro l’hanno generata.

Spiazzate dalla valanga Usa che esse avevano favorito, la Germania e la Ue hanno cercato di recuperare, provando all’inizio del 2014 ad influenzare il nuovo governo di Kiev attraverso la leva della dipendenza finanziaria dell’Ucraina dalla Ue. La rincorsa europea si è però scontrata, oltre che con le velleità autonomiste dei gruppi economici e politici sciovinisti arrivati al potere a Kiev e con l’incoraggiamento fornito a questi ultimi da Washington, con due reazioni ben prevedibili: quella della Russia e quella delle popolazioni dell’Ucraina Orientale.

La Russia ha accolto e favorito la volontà quasi plebiscitaria della popolazione della Crimea di ricongiungersi con la Russia. La Russia ha così evitato di perdere il suo sbocco sul mar Nero e la base geo-strategica con cui la marina militare russa può operare nel Mediterraneo e nell’oceano Indiano. Al ricongiungimento della Crimea con la Russia ha fatto seguito la mobilitazione delle popolazioni delle regioni orientali dell’Ucraina, anch’esse orientate a passare sotto la sovranità di Mosca per difendersi dai piani di ristrutturazione targati Fmi maneggiati a Kiev e dalla politica di persecuzione nazionale attuata dalle  formazioni para-militari di destra filo-Usa alla base del nuovo governo ucraino.

Gli Usa hanno approfittato di questa doppia reazione per pigiare il piede sull’acceleratore. Hanno lanciato Poroshenko alla conquista dell’Ucraina orientale, hanno rafforzato il dispositivo Nato in Europa orientale contando sugli appetiti regionali delle borghesie polacca e baltiche, hanno imposto sanzioni finanziarie e tecnologiche sulla Russia, costringendo gli alleati europei, anche quelli a cui in astratto converrebbe curare per altre vie i loro interessi imperialisti, ad accodarsi, almeno provvisoriamente, alla cordata atlantica per non essere tagliati fuori dallo scacchiere ucraino.

Con questa accelerazione, gli Usa di Obama si sono proposti di favorire un cambio pro-Usa e pro-Occidente in Russia (una versione in grande della "rivoluzione di piazza Majdan" a Mosca) oppure la balcanizzazione forzata e l’incorporazione addomesticata del mondo russo (o di pezzi di esso contrapposti agli altri) nella Santa Alleanza Democratica Tricontinentale anti-cinese in costruzione da Washington.

La prima ipotesi è evaporata rapidamente. La popolazione russa, intuito a volo il futuro che intendono riservarle i "liberatori" dell’Ucraina, confermata nei suoi intendimenti da episodi quali la strage compiuta a Odessa dalle forze armate regolari e irregolari al servizio della democrazia installata a Kiev, si è stretta attorno a Putin. La direzione (borghese) dello stato russo, da parte sua, non è rimasta con le mani conserte. Il governo russo ha risposto alle sanzioni occidentali colpendo le importazioni alimentari dalla Ue, un delicato invito alla Ue e ai suoi capitalisti a non mettersi sulla scia degli Usa. Ha varato alcune misure per favorire lo sviluppo di industrie produttrici di merci finora acquistate all’estero. Ha preso alcune iniziative sul piano internazionale per evitare di essere isolata dalla tenaglia occidentale, tra le quali spiccano gli accordi commerciali e finanziari con la Cina.

Alcuni commentatori ne hanno tratto la conclusione che è iniziata la formazione di un polo capitalistico russo-cinese contrapposto all’Occidente imperialista. Se ciò fosse vero, per Washington e per l’Ue sarebbe una pessima notizia. La politica di Putin e gli interessi del capitale russo ci sembrano, però, orientati in un’altra direzione ed è bene che i lavoratori euro-asiatici più lungimiranti e combattivi ne tengano conto per delineare una prospettiva di difesa classista coerente.

Il calcolo dello stato e dei grandi capitalisti russi

Dalla fine del XX secolo la potenza capitalistica russa, sotto la guida di Putin, si è risollevata dal caos in cui stava scivolando nell’era Eltsin sotto gli amorevoli effetti della marcia verso Est della Nato, del Fmi e delle imprese occidentali.(1) A tal fine la Russia si è giovata dello sviluppo industriale del mondo emergente, al quale, d’altra parte, ha fornito il suo contributo non secondario.

L’epoca dei relativamente facili progressi è, però, finita. È finita perché si è incrinata la simbiosi che lo sviluppo capitalistico dei Brics aveva stabilito con gli affari delle multinazionali occidentali. Al posto della reciproca convenienza stanno subentrando profondi contrasti e la fratturazione del mercato mondiale in blocchi continentali contrapposti. È finita perché anche solo il mantenimento, in siffatto mercato, della ritrovata potenza russa richiede il rapido ammodernamento dell’apparato industriale-infrastrutturale russo e il drastico aumento dell’intensità e della produttività della prestazione lavorativa nelle fabbriche russe, anche per ridurre l’impatto della stasi demografica del paese sull’estensione delle schiere proletarie disponibili per le imprese in Russia. Per quanto ingente, l’apparato industriale russo è, infatti, ad eccezione di qualche limitato settore, relativamente arretrato sul piano tecnologico e, nella sua enorme estensione geografica, debolmente centralizzato. È un vecchio problema dello sviluppo capitalistico russo, che, anche prima della recente guerra fredda, aveva ricominciato a pesare su Putin. Alla Russia non manca, in astratto, il capitale liquido per finanziare questa sterzata. Essa dispone di un fondo di riserva valutato in 400 miliardi di dollari e di una considerevole rendita da petrolio e gas. Da questa rendita sono stati tratti i fondi che hanno permesso a Putin di guidare la crescita degli ultimi 15 anni.

Questi proventi sono, però, destinati a declinare. Non per la scarsità di giacimenti. Non tanto per il (rilevante) calo dei prezzi dell’ultimo anno. (2) Bensì per l’esaurimento dei giacimenti sfruttabili con le tecnologie, risalenti agli anni sessanta, a disposizione dell’industria russa. (3) La messa in produzione delle immense risorse scoperte nel sottosuolo siberiano richiede tecnologie al momento monopolizzate dall’Occidente. Le sanzioni imposte dagli Usa-Ue e il tentativo Usa di indurre la Ue a sostituire il gas e il petrolio russi con quelli da shale colpiscono la vitale esigenza russa di accedere a tali tecnologie e al circuito finanziario per contrattarne l’acquisto. I ritardi che si vanno accumulando rischiano di compromettere anche il delicato equilibrio sociale interno che la classe dirigente russa ha stabilito con il "suo" proletariato, difficilmente disponibile ad accettare un drastico aumento della propria torchiatura senza una partecipazione, anche selezionata, al progresso della nazione.

La Cina può offrire un’alternativa a quello che la Russia si aspetta dalle sue relazioni con l’Occidente? Può offrire un mercato di vendita per le materie prime russe capace di compensare integralmente quello europeo? Può offrire tecnologie e collegamenti finanziari internazionali? Difficile. Ma ammettiamolo. Visti i rispettivi pesi specifici, Mosca rischierebbe, in ogni caso, di dover pedalare da gregario anche con Pechino. Già oggi la Cina ha un pil superiore a quello della Russia di dieci volte e con la marcia con cui Pechino viaggia, lo scarto è destinato ad aumentare.(4) La collaborazione tra i due paesi nella Siberia centrale e orientale, consolidata dagli accordi del 2014, da cui Mosca cerca di trarre denaro fresco e infrastrutture moderne, privata dal bilanciere di proficue relazioni con il blocco occidentale e con il caposaldo di esso in Estremo Oriente, il Giappone, rischia di trasformarsi in una porta aperta per la penetrazione cinese, già in corso e malvista da Mosca, negli immensi e "vuoti" territori della Siberia orientale. Senza contare che la Russia ha in Asia consolidati rapporti con paesi, l’India e il Vietnam, che sono condizionati da e pencolano verso la Santa Alleanza Democratica Usa-targata. Non prive di importanza sono, infine, le radici culturali cristiane russe:  espressione di profondi fattori materiali e storici, anch’esse spingono Mosca verso Occidente. Lo stato e il capitale russi non hanno interesse, almeno per il momento, a "rompere" con l’Europa e gli Usa (ed è su questo che si fa leva da Occidente). Lo ha chiarito nei suoi discorsi dei mesi scorsi lo stesso Putin.(5) Egli ha sì denunciato le (indubbie) politiche occidentali finalizzate a "danneggiare il nostro paese", le (altrettanto indubbie) responsabilità di Washington in Ucraina e i tentativi del Pentagono e della Nato di "balcanizzare l’intera area caucasica". Nello stesso tempo, ha, però, teso la mano verso l’Occidente, offrendo la piena disponibilità a "sforzi comuni contro il terrorismo internazionale" e ribadendo la volontà di coltivare ottimi rapporti con gli "amici" statunitensi ed europei. Insomma, l’intento di Putin è quello di giocare di sponda verso Pechino per costringere l’Occidente, soprattutto l’Europa, a riconoscerlo come partner di primo livello nella presente e futura spartizione del globo in sfere di influenze. Va in questo senso anche il finanziamento e l’appoggio di Putin al Front National di Le Pen e alla Lega Nord di Salvini. Oltre che da una ragione strumentale in risposta alle sanzioni, essi sono dettati da un calcolo di lungo periodo: il reciproco interesse capitalistico dell’Europa e della Russia a collaborare per non farsi sopravanzare dal totalitarismo Usa e dall’ascesa tri-continentale della Cina, al di là se questa collaborazione sarà oppure non sarà condotta fino alla formazione di uno schieramento imperialistico autonomo dagli Usa e dalla Nato.

Le mire imperialiste della Ue in Ucraina

Un settore della classe dirigente Usa, a cui ha dato voce il macellaio Kissinger, vorrebbe accogliere subito lo spiraglio offerto da Putin, anche per evitare che la Germania lo metta a frutto autonomamente in chiave anti- Usa.(6) Messo da parte il sogno di una piazza Majdan a Mosca, Obama intende, invece, far pagare altri prezzi alla Russia, con le sanzioni e la nuova cortina di ferro in costruzione ai confini occidentali del paese, per indurne la jugoslavizzazione oppure, in mancanza di meglio, per contrattare da posizioni di forza la collaborazione in funzione anti-cinese tra la Russia e l’Occidente. Sono invece decisi a raccoglier e l’offerta di Putin la Germania e i centri del grande capitale europeo.

Li spingono a tanto gli enormi legami economici del complesso industriale mitteleuropeo con il mercato russo e, ancor maggiormente, con il mercato cinese, per il quale quello russo è un capitalisticamente formidabile ponte di collegamento (7). Significativi da questo punto di vista l’iniziativa di Merkel per arrivare, senza l’intervento di Obama e con la diretta collaborazione di Putin, all’accordo di Minsk e il dibattito politico che si è aperto nella classe dirigente tedesca sulla politica estera del proprio paese. Questo rilancio dell’iniziativa europea si è presentato nella veste di un’iniziativa di pace alternativa ai metodi degli Usa e dei loro burattini ucraini. Essa, in realtà, pianta altre spine nella carne dei lavoratori dell’Ucraina e della Russia.

L’accordo di Minsk ferma le ostilità nell’Ucraina orientale proprio quando le formazioni popolari dell’Est stavano iniziando a far indietreggiare le forze di Kiev e a conquistare importanti centri di trasporto. L’accordo stabilisce, inoltre, la formazione di una zona cuscinetto smilitarizzata supervisionata dalle forze dell’Osce, che, secondo un copione già collaudato in Jugoslavia, servirà per attizzare altre contrapposizioni, per ritagliare una base di manovra europea concorrente a quella filo Usa impiantata a Kiev e a quella filo-russa, per minare il terreno sotto i piedi della resistenza popolare nelle città dell’Ucraina orientale.

Il dibattito promosso dalla classe dirigente tedesca, da parte sua, ha alzato un po’ il sipario sugli effettivi interessi che ispirano l’iniziativa di "pace" europeista. Negli ultimi due anni, in ripetuti interventi, il presidente della Germania, Joachim Gauck, ha affermato che la Germania ha usato l’alibi del suo passato nazista per non adempiere ai doveri diplomatici che le spettano in virtù del suo ruolo economico mondiale e che l’opinione pubblica va orientata a favore di una presenza internazionale più muscolosa. L’11 marzo 2015, alla vigilia di una visita negli Usa, il ministro degli esteri tedesco Steinmeier ha precisato il ragionamento in un articolo sul New York Times. L’ordine internazionale stabilito nel 1945, di cui la Germania ha usufruito per compiere la sua resurrezione imperialista e di cui deve essere grata alla protezione militare Usa, è sotto pressione a causa di due processi: "L’ordine internazionale post-1945 è sotto pressione per l’effetto di due forze: la diminuzione del potere esercitato dal singolo stato e il trasferimento del potere [economico] verso i paesi emergenti. La sfida degli estremismi violenti e dagli slittamenti tettonici esemplificati dalla rilevante ascesa della Cina, questi cambiamenti pongono una sfida senza precedenti all’ordine mondiale come lo conosciamo e alla nostra Alleanza transatlantica."  

Il 17 marzo 2015 ancora Steinmeier ha rincarato la dose: "La popolazione tedesca deve affrontare le seguenti domande: dove si collocano i nostri interessi? fin dove arrivano le nostre responsabilità? Di fronte alle crisi che la globalizzazione sta trasformando in regola, la Germania deve fare di più, agire più rapidamente, con maggiore decisione e in modo sostanziale prima che le crisi arrivino al loro acme e, come è successo in Ucraina, sfuggano al [nostro imperialistico] controllo" (Il Sole24 Ore). Pace, quindi? E sia (per ora), ma la pace che serve per ribadire e consolidare il potere del capitale europeo sulla forza lavoro del mondo emergente, e sulle pretese delle borghesie emergenti di intascare la loro parte e di proiettarsi fin dentro la stessa metropoli europea attraverso (per ora) gli anelli di essa più deboli, quelli mediterranei.

Cosa c’è di diverso dall’obiettivo di fondo di Obama? Forse il fatto che una fetta più succosa del bottino entrerà nei forzieri europei e "quindi" nelle stesse tasche proletarie europee? Sulla carta sì. Ma a quale prezzo per i lavoratori europei, anche per quelli, i lavoratori tedeschi, a cui già oggi si fa intravedere la possibilità di godere un trattamento privilegiato nella scala gerarchizzata dello sfruttamento capitalistico in Europa? Come andò l’ultima volta, nel 1939-1945, in cui la borghesia tedesca e le sue alleate continentali si misero su questa  strada? Andrebbe diversamente oggi, quando lo spazio vitale da conquistare è prima di tutto quello abitato dai miliardi di sfruttati cinesi e asiatici? E ancora: è così difficile immaginare il ruolo di carne da macello riservato ai proletari del mondo russo dall’iniziativa di "pace" europeista in questo suo epocale scontro con l’Asia borghese e proletaria?

Per ora il prezzo di questa immonda concatenazione borghese lo stanno pagando i lavoratori dell’Ucraina orientale e già oggi a loro non è più permesso di girarsi dall’altra parte o di mettere la testa sotto la sabbia.

L’aggressione economica e militare lanciata da Kiev è costata (per ora) 6 mila morti (chi ne sono i principali responsabili?), un milione di profughi al di là del confine russo, distruzione di abitazioni, chiusura di fabbriche, annullamento di stipendi e pensioni versati dalle banche di Kiev, furto dei risparmi depositati in tali banche, lacerazioni con i fratelli di classe delle regioni ucraine occidentali. In risposta a questa cura, i lavoratori dell’Ucraina orientale hanno messo in campo una fiera resistenza, risultata capace di sgominare le forze militari inviate da Kiev e di un primo salutare interrogarsi sull’origine della tragedia. Ad essa noi guardiamo come ad una risorsa per mettere in campo, in prospettiva, l’unico programma in grado di uscire da questa spirale mortifera: quello della unificazione nella lotta dei proletariati dei diversi paesi in un fronte comune internazionalista  contro il comune nemico, il capitale mondializzato.

Siamo lontani da questo livello, lo sappiamo bene. La resistenza dei lavoratori e della gente semplice delle regioni ucraine orientali, memori dell’esperienza della seconda guerra mondiale, guarda alla solidarietà del popolo russo e della Russia di Putin come all’àncora di salvezza dallo schiacciasassi Ue-Usa che vuole investirli. Comprendiamo questo accorpamento attorno allo stato russo, ma, ripetiamo, ammesso e non concesso che la politica euro-asiatica bifronte di Putin possa offrire una prospettiva agli interessi delle imprese e del capitale russo, essa, nella sua versione sbilanciata in senso europeo come in quella sbilanciata in senso panasiatico, non può permettere una difesa coerente dall’imperialismo e, le due cose sono legate, degli interessi degli sfruttati ucraini.

Una risposta di classe, non una risposta "russista"

Il torto di Putin, dal nostro punto di vista, non è quello di aver inviato aiuti alle popolazioni dell’Ucraina orientale, di essersi intromesso nelle vicende di un altro paese, come sbraitano i governi occidentali, loro che hanno piazzato in Ucraina consiglieri economici, mercenari, addestratori, armi, soldi, bensì di averlo fatto in un modo che, per gli interessi dei lavoratori, è controproducente. Vediamone alcuni esempi. Putin vuole far trangugiare l’arrivo degli osservatori Osce nella zona cuscinetto ucraina come osservatori neutrali, quando invece essi vanno denunciati e respinti per essere uno degli artigli dell’aggressione occidentale, come già accaduto nella "ex"-Jugoslavia, di semina di contrapposizioni e provocazioni. La politica di Putin soffoca e indebolisce le spinte in atto in alcuni settori proletari dell’Ucraina orientale a ridurre l’arroganza dei capitalisti locali, corresponsabili della deriva ucraina non meno di Poroshenko, le invita, al contrario, all’unità patriottica con chi, su posizioni diverse, ha preso in mano i gioielli aziendali della regione e ha partecipato appieno alla gestione del paese che ha condotto nella bocca del lupo imperialista. Con la copertura delle clausole di Minsk e la pressione della Russia, le direzioni borghesi delle regioni orientali stanno, inoltre, cercando di far consegnare alla gente le armi con cui ha combattuto l’aggressione di Kiev e di mettere in piedi forze armate istituzionalizzate e saldamente controllate.

Nello stesso tempo, la politica di Putin mantiene divisi e contrappone i lavoratori ucraini ai loro veri alleati, a coloro che, per la posizione sociale, sono investiti dallo stesso bulldozer e hanno interesse a reagire insieme: gli sfruttati delle altre regioni ucraine, degli altri paesi e continenti. La politica "russista" di Putin, ad esempio, non si preoccupa di gettare un ponte tra i lavoratori dell’Ucraina orientale e i loro fratelli di classe dell’Ucraina occidentale, ai quali invece occorrerebbe rivolgersi fronteunitariamente ora che questi stanno assaporando la cura riservata da Poroshenko e dai suoi padrini. Un altro esempio: l’appoggio di Putin a Le Pen e a Salvini, la partecipazione della Russia alla manifestazione della Lega Nord del 28 febbraio 2015. Queste azioni contrappongono gli sfruttati ucraini russofoni e i lavoratori russi agli sfruttati musulmani, favoriscono una contrapposizione nella classe lavoratrice in Europa che, a sua volta, olia l’azione del capitale europeo e dei suoi stati in Ucraina contro gli stessi lavoratori ucraini, rafforza una divisione nelle file del proletariato della Russia che già oggi contrappone pericolosamente gli sfruttati caucasici e dell’Asia centrale a quelli della Russia Bianca. Nello stesso senso vanno le buone relazioni politiche e non semplicemente economiche tra la Russia di Putin e l’Egitto di Al-Sisi, tra la Russia di Putin e l’Israele di Netanyhau.

L’appoggio di Putin a Le Pen - Salvini, il via libera agli osservatori Osce, l’invito all’unità interclassista con i capitalisti dell’Ucraina orientale, la politica anti-musulmana non sono aspetti marginali o incoerenti della politica di Putin. Discendono dal suo programma: la difesa degli interessi del capitale e dello stato russi. La risposta (difensiva) della Russia all’aggressione Usa-Ue è tutta incentrata su questi interessi e, al di là se essa sia efficace oppure no per la difesa del capitale nazionale russo, è esiziale per i lavoratori dell’Ucraina che guardano a Mosca.

Certo, i lavoratori dell’Ucraina orientale sono nel mirino in quanto parte di una nazione che il sistema capitalistico mondiale vuole sottomettere, ma non ci si può difendere da questa morsa in quanto russi, unendosi in un fronte russo contro il resto del mondo, bensì solo con un programma di classe e un fronte di classe. È vero che questo fronte ha tra i suoi protagonisti gli sfruttati della Russia e che questi ultimi oggi, per ragioni non contingenti, sostengono Putin, ritenendo, illusoriamente, di potersi difendere come lavoratori e come popolo russo-slavo alzando la bandiera della Russia di Putin. È vero che questa speranza (vana) dei lavoratori della Russia sembra trovare una pezza di appoggio nel miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita registrate dal proletariato russo nell’era Putin.(8) In realtà, questo miglioramento, che in ogni caso è solo e soltanto il frutto delle lotte e della pressione esercitata dai lavoratori dalla metà degli anni novanta, è stato possibile entro le maglie del rilancio del capitale russo per il particolare periodo attraversato dal sistema capitalistico mondiale negli ultimi venti anni. Ci avviamo verso un periodo in cui far dipendere le sorti della classe operaia da quelle della potenza capitalistica russa conduce alla contrapposizione con i lavoratori degli altri paesi a seconda delle alleanze strette da Putin e dalla borghesia russa. Lo scontro in Ucraina non indica proprio questa dinamica?

A ostacolare maggiormente la resistenza proletaria in Ucraina è il silenzio dei lavoratori occidentali o il loro consenso all’aggressione in corso.  Anche nei settori ultra-minoratari in cui si storce il naso di fronte all’arroganza Usa nell’Europa orientale oppure si nutre un sincero sentimento di solidarietà con i lavoratori ucraini e russi, si ritiene, in larga parte, che l’alternativa alla politica della Nato sia quella europeista. Anche questa politica, come abbiamo visto, è, tuttavia, da respingere, sia se portata avanti nella forma di Merkel che in quella, più coerente, per ora sostenuta solo da alcune frange euroasiatiste dell’estrema destra. Noi compagni dell’Oci, nella nostra denuncia dell’aggressione occidentale all’Ucraina e alla Russia, abbiamo cercato di mettere in luce gli interessi e le prospettive in gioco nello scontro e mostrato quanto la solidarietà incondizionata con gli sfruttati dell’Ucraina mobilitati contro il governo di Kiev e gli oligarchi atlantici non sia cosa diversa dalla lotta contro il Jobs Act, contro la nuova carretta di sacrifici che la Ue si appresta a scaricare sui proletari greci, contro il razzismo anti-islamico e anti-slavo in Europa occidentale, contro il nuovo intervento che l’Italia e l’Europa (con il concorso della Cina e della Russia!) intendono portare alla Libia.

Note

(1) Vedi l’articolo sul "che fare" n. 70 (gennaio 2009) "Con Putin&C. la Russia capitalista si è rialzata in piedi. Riuscirà l’Occidente a farla inginocchiare?".

(2) Il prezzo del petrolio si è mantenuto quasi stabile sul livello di 115 dollari a barile tra il 2011 e la metà del 2014. Da allora in 6 mesi il prezzo è sceso a 60 dollari al barile. La vendita del petrolio e del gas copre il 70% del valore delle esportazioni russe. Nel 2013 il ricavato globale dalle esportazioni di gas e petrolio è stato pari a 650 miliardi di dollari. Nel 2015 è stimato ridotto di oltre 200 miliardi di dollari.

(3) Vedi le notizie riportate sul numero 12/2014 della rivista Limes dal titolo "La Russia in guerra".

(4) È significativo l’insediamento nella Russia occidentale di fabbriche di automobili da parte delle principali case cinesi (Lifan, Hawtai Motor, Great Wall).

(5) Vedi ad esempio il discorso di Putin al "Club Valdai" del 24 ottobre 2014 e quello alla Duma del 4 dicembre 2015

(6) Kissinger, The Washington Post, 5 marzo 2014.

(7) Nel 2014 la Germania ha esportato in Cina beni e servizi per oltre 74 miliardi di euro e ha importato dalla Cina per oltre 79 miliardi di euro. Tale interscambio è cinque volte superiore a quello del 2004. Nel 2015 l’interscambio della Germania con la Cina dovrebbe superare quello con ogni altro paese. Dal 2012 la Cina è il principale mercato per macchinari e impianti tedeschi. Il 25% delle esportazioni tedesche è dovuto alle automobili. I marchi tedeschi hanno il 20% del mercato cinese con una percentuale molto più alta (oltre il 70%) per quel che concerne le auto di lusso. Sono 190 gli stabilimenti automobilistici tedeschi in Cina. In totale vi sono oltre 5 mila aziende tedesche con stabilimenti in Cina (150 chimiche) che occupano circa 220 mila addetti. Nel 2014 la Cina è diventato il paese straniero con il maggior volume di investimenti tedeschi (18 miliardi di dollari).

(8) In Russia, negli ultimi quindici anni, il salario reale medio è aumentato di circa il 300%, attestandosi intorno ai 940 dollari mensili. Le pensioni sono state fortemente innalzate (circa due volte e mezzo dal 2000). Il tasso di disoccupazione è quasi dimezzato, dal 10,6% del 2000 al 5,5% del 2014. A testimonianza delle migliori condizioni alimentari, igieniche e sanitarie, la percentuale dei bambini morti nel primo anno di vita è scesa dal 29,2 per mille del 1992 al 15,5 del 2013. La quota di chi vive sotto il livello di povertà è diminuita da oltre il 30% del 1999 al 13,1% del 2010. Dopo diciotto anni di costante calo demografico, nel 2013 e nel 2014 la Russia ha visto tornare a crescere la propria popolazione, che oggi ammonta a quasi 144 milioni.

La nostra posizione sulle vicende ucraine si sforza di mettere a frutto il lavoro, teorico e militante, con cui nei decenni scorsi l’Organizzazione Comunista Internazionalista, ricollegandosi alle "lezioni delle controrivoluzioni" scolpite in precedenza dalla Sinistra Comunista, ha interpretato la traiettoria storica dell’Urss e impostato i problemi teorici connessi a questa ricostruzione storica (il funzionamento del capitale, i caratteri della società comunista, la questione nazionale nell'epoca dell’imperialismo, il percorso di formazione del partito comunista internazionale nell’epoca imperialista, ecc.).

Questa analisi storica e questa impostazione teorica possono essere incontrate nel vivo in due volumi pubblicati dal "che fare" negli anni novanta: il quaderno Dove va l’Urss? Perestrojka e marxismo pubblicato subito dopo il "crollo del socialismo"; il libro Jugoslavia: un guerra del capitale pubblicato nel corso della lotta contro l’aggressione della Nato e dell’Occidente alla "ex"-Jugoslavia e al proletariato dell’Est. L’uno e l’altro sono due armi teoriche e politiche di bruciante attualità e ad essi sollecitiamo di rivolgersi, con uno studio collettivamente condotto, i giovani militanti proletari che sentono di orientarsi in senso classista e internazionalista nella crisi ucraina e nelle vicende internazionali di cui essa è parte. I due testi possono essere richiesti alle nostre sedi o alla nostra casella postale al prezzo di 10,00 euro.

Che fare n.82 maggio 2015 -novembre 2015

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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