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Che fare n.81 dicembre 2014 - aprile 2014

Pescopagano: i lavoratori non porgono l'altra guancia

Il 13 luglio 2014 a Pescopagano (Caserta), due italiani, padre e figlio, titolari di un’agenzia di vigilanza non regolarizzata, sparano e gambizzano due lavoratori immigrati di origine ivoriana. Il pretesto (peraltro falso) è di averli colti mentre stavano rubando una bombola del gas.

Nella mente degli immigrati è ancora vivo il ricordo dei fatti della non lontana Castel Volturno, dove nell’autunno del 2008 la camorra assassinò sei braccianti africani. La reazione scatta immediata. Poche ore dopo, le strade del paese sono invase da migliaia di proletari immigrati che bloccano il traffico, incendiano cassonetti e automobili e provano a dare l’assalto all’abitazione dei due assassini.

Il giorno successivo la popolazione autoctona scende minacciosa per strada e chiede alla polizia (dispiegata in assetto anti-sommossa) di "fare pulizia", di schiacciare quella marmaglia nera che sta mettendo "a ferro e fuoco" il paese, altrimenti… "ci penseremo direttamente noi cittadini".

Dall’altro lato della strada, uniti, fieri e combattivi, sono schierati nuovamente migliaia di immigrati  che rivendicano giustizia e il diritto a non essere trattati come bestie. Uno di loro grida la più semplice delle verità: "Non è vero che quei nostri fratelli stavano rubando una bombola di gas… noi siamo guardati con disprezzo, con odio, ci insultano e poi vogliono i nostri soldi per affittarci delle fogne e cercano la nostra manodopera e il nostro silenzio per i lavori più umili."

Grazie alla determinazione dei lavoratori immigrati, gli italiani scesi in strada si sono fermati e la situazione è rientrata nella sua "normalità". La normalità segnata dalle condizioni di bestiale sfruttamento a cui sono costretti i lavoratori immigrati impiegati in agricoltura. Secondo stime ufficiose, nelle campagne campane e lucane sono impiegati 40 mila immigrati. Di solito, gli africani, giovanissimi, sono impiegati nei campi, gli indiani e bengalesi sono impiegati negli allevamenti. Lavorano dalle 12 alle 15 ore al giorno, remunerate con una paga compresa tra i 20 e i 30 euro al giorno. Diritti sindacali: zero. I lavoratori immigrati vivono in abitazioni fatiscenti, prive di luce, acqua e gas, e se vogliono avere la "comodità" della rete fognaria, devono pagare il pizzo ai camorristi o ai proprietari delle case.

Come hanno rivelato tanti episodi di cronaca della Val Padana e alcune inchieste, questa condizione non riguarda solo i lavoratori immigrati impiegati nell’agricoltura del Mezzogiorno. Una nuova conferma è arrivata da un rapporto nazionale della Flai-Cgil del giugno 2014. Il 62% dei lavoratori immigrati impiegati nell’agricoltura non ha accesso ai servizi igienici; il 64% non ha accesso all’acqua corrente; il 72% di quelli che si sono sottoposti a visite mediche ha sviluppato malattie legate al lavoro. E non basta. Sono almeno 400 mila, l’80% dei quali stranieri, i lavoratori che ogni giorno devono confrontarsi con il caporalato.

La "tassa" per i caporali si aggira spesso intorno al 50% del magro salario. Il lavoro è, poi, pesantissimo, qualunque sia la dimensione dell’azienda (1). Ne sanno qualcosa i lavoratori indiani della provincia di Latina e di Caserta, che ricorrono alle anfetamine per reggere i carichi di lavoro imposti dagli agricoltori.(2)

La violenza della camorra, della ‘ndrangheta o degli sceriffi alla "pescopaganese" (a cui spesso lo stato appalta di fatto il "mantenimento dell’ordine" in determinate zone) serve per garantire questo regime di supersfruttamento che non è affatto il frutto in via di superamento di particolarità locali o della presunta "arretratezza" organizzativa e produttiva del settore, ma l’ingrediente di base della prosperità di uno dei settori centrali, tecnologicamente avanzati e finanziaramente raffinati della mondializzazione capitalistica, quello dell’agro-business.

Note

(1) Sull’industria dell’agro-business e sulla morsa soffocante che i vincoli del mercato acapitalistico mondiale esercitano anche sulle piccole aziende agricole italiane vedi l’articolo "L’agro-industria: un settore iper-centralizzato" pubblicato sul n. 72 del che fare (aprile 2010).

(2) La drammatica condizione in cui vivono e lavorano le comunità Sikh dell’agro pontino (30 mila braccianti), protagoniste negli anni scorsi di alcune riuscite iniziative sindacali, è stata denunciata in un dossier dell’associazione "In migrazione" (sito web: www.inmigrazione.it).

Che fare n.81 dicembre 2014 - aprile 2014

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