Che fare n.81 dicembre 2014 - aprile 2014
Medioriente: dietro la cortina fumogena delle "guerre di religione"
La situazione mediorientale sembra un caos indecifrabile causato da barbari contrasti di religione tra sunniti, sciiti, cristiani. La propaganda dei governi occidentali batte su questo tasto e, rivolgendosi ai lavoratori d’Occidente, aggiunge: è anche vostro interesse riportare l’"ordine" in Medioriente, sostenere l’invio di armi ai dirigenti pro-Occidente delle popolazioni curde dell’Iraq, continuare a fornire aiuti alla "opposizione siriana", chiedere l’intervento della cosiddetta comunità internazionale per la "pacificazione" dell’area.
I lavoratori d’Occidente hanno, invece, interesse a denunciare questa propaganda e questa politica, finalizzate in realtà a frammentare l’area e prima di tutto la tenace resistenza con cui gli sfruttati mediorientali cercano da più di un secolo di tenere testa alla cappa di rapina e oppressione che l’Occidente ha fatto scendere sulla regione, direttamente e attraverso il suo codazzo di burattini locali più o meno fidati.
Dietro la cortina fumogena interessata delle "guerre di religioni" ci sono, invece, lotte tra le classi intrecciate a lotte nazionali, con implicazioni dirette nella vita dei lavoratori d’Occidente e nello scontro politico in cui questi ultimi sono coinvolti.
Il punto da cui partire per intendere i veri protagonisti dello scontro in Medioriente è il ruolo della regione nella divisione internazionale del lavoro.
Il blocco imperialista dello sviluppo capitalistico mediorientale Il Medioriente è una regione strategica nel funzionamento del sistema capitalistico mondiale. Per almeno tre motivi.1) Il Medioriente detiene il 50% delle riserve di petrolio e di gas del mondo. Il petrolio e il gas sono materie prime vitali non solo come fonti di energia ma anche come prodotti da cui estrarre sostanze fondamentali nella fabbricazione dei manufatti chimici, elettronici e meccanici.
Per le caratteristiche geologiche dei giacimenti, i costi di estrazione e di lavorazione del petrolio e del gas mediorientali sono, inoltre, relativamente basi.
2) La regione è attraversata da linee di comunicazione cruciali nel collegamento tra l’Europa occidentale e l’Asia meridionale e orientale. Il canale di Suez è solo una di queste vie.
3) La regione, che si estende in realtà dal Marocco fino al Pakistan, è abitata da centinaia di milioni di sfruttati, gallina dalle uova d’oro per le multinazionali che impiegano i proletari dell’area con bassi salari e zero diritti nei loro paesi oppure, come immigrati, nei paesi occidentali.
Questi tre elementi spiegano l’interesse delle potenze occidentali per il controllo del mondo arabo-islamico. Sin da quando è stato imposto, questo controllo, seppur esercitato in forme diverse corrispondenti alle differenti fasi di sviluppo raggiunte dal capitale mondiale, ha avuto un doppio effetto sull’economia e sulla società dell’area.
Primo effetto: gli investimenti occidentali, le esportazioni delle merci occidentali prodotte industrialmente a basso prezzo, l’imposizione fiscale consigliata ai locali governanti dai protettori occidentali hanno eroso e minato le attività dei piccoli contadini e dei piccoli artigiani, provocando l’espropriazione dei produttori diretti.
Secondo effetto: la funzionalizzazione delle risorse e della manodopera locali ai monopòli occidentali ha bloccato (e blocca) la nascita di un organico apparato industriale locale, nel quale i produttori diretti espropriati potessero (e possano) essere assoldati come salariati dai capitalisti locali o internazionali.
Sin dalla fine dell’Ottocento questa duplice morsa ha suscitato due spinte sociali, una borghese e una proletaria, volte a spezzare il blocco imposto dall’imperialismo al pieno sviluppo borghese e democratico dell’area. Le due spinte sociali e i loro corrispondenti (e reciprocamente antagonistici) programmi politici si sono presentati sulla scena storica già all’indomani della prima guerra mondiale. Da un lato, il programma di liberazione del mondo arabo-islamico propugnato dagli embrioni delle borghesie arabe e musulmane. Dall’altro lato, quello del proletariato internazionalista, sostenuto in Egitto, in Siria, in Libano, in Turchia, in Persia dai ristretti ma combattivi nuclei proletari impiegati nelle fabbriche tessili, nelle ferrovie, nei porti e nei pozzi petroliferi messi in opera dagli investimenti esteri occidentali.
Da un lato, l’idea (illusoria) di poter compiere il risorgimento arabo-musulmano entro le maglie del mercato capitalistico mondiale e per mezzo di queste maglie, pur in contrasto (non solo parolaio) con le centrali imperialiste e le loro truppe coloniali. Dall’altro lato, il collegamento della lotta contro l’oppressione imperialista con quella contro le radici di questa dominazione, i rapporti sociali capitalistici, in unità internazionalista con i lavoratori dell’Europa e del Nordamerica.
All’indomani della prima guerra mondiale, la prospettiva proletaria, incardinata sull’azione rivoluzionaria dell’Internazionale Comunista, fu sconfitta, e da allora è rimasta in campo solo la prospettiva antimperialista borghese nazionale. Grazie alle trasformazioni sociali accelerate dalla seconda guerra mondiale e all’appoggio ricevuto dalle masse dei proletari e dei diseredati mediorientali, dopo la seconda guerra mondiale la prospettiva antimperialista borghese è riuscita a intaccare la morsa dell’imperialismo con due principali incarnazioni: negli anni cinquanta e sessanta con quella del nazionalismo di stampo nasserista (in Egitto con Nasser, in Siria e Iraq con il Baath, in Libia con Gheddafi, in Algeria con il Fronte di Liberazione Nazionale); negli anni settanta con quella khomeinista in Iran. Dall’affermazione del nasserismo negli anni cinquanta e poi dalla rivoluzione anti-scià del 1979 in Iran, l’Occidente imperialista è ossessionato dall’obiettivo di affossare anche la prospettiva antimperialista borghese arabo-islamica o di vincolarne le espressioni ai propri interessi di rapina e di controllo sociale sul proletariato dell’area. Dal 1990 al 2003 la controffensiva imperialista ha fatto fuori il progetto baathista con centro in Iraq. Nel 2003, occupata Baghdad e poi messa rapidamente fuori gioco l’altra espressione dell’antimperialismo borghese di stampo islamico sorta a cavallo del nuovo secolo attorno alla figura di bin Laden, l’Occidente pensava che gli fosse rimasto di regolare i conti solo con l’Iran di Ahmadinejad.(1) Non è stato così.
Non è stato così, perché la resistenza popolare in Iraq all’occupazione delle truppe occidentali e la parallela ascesa del movimento popolare degli Hezbollah in Libano contro l’aggressione di Israele del 2006 hanno messo il bastone tra le ruote alla vittoria finale della strategia mediorientale dei neo-cons statunitensi (Bush, Rumsfeld, Wolfowitz) e contribuito a metterla fuori gioco anche a Washington.
Non è stato così anche perché la strategia di rilancio dell’egemonia Usa su basi parzialmente diverse da quelle neo-cons nel frattempo subentrata alla Casa Bianca con Obama ha dovuto subire, nel 2010-2012, l’ascesa nella regione di un’altra incarnazione della spinta antimperialista borghese (quella dei Fratelli Musulmani) e, contemporaneamente, l’attrazione del governo iracheno di Al-Maliki (inizialmente al servizio di Washington e delle diplomazie europee) nell’orbita, orrore orrore!, di Teheran.
Dalla Tunisia all’Iraq Catalizzato dalle sollevazioni popolari e proletarie in Egitto e in Tunisia del 2010 e portato avanti dal coordinamento tra le politiche dell’Egitto di Morsi, della Turchia di Erdogan, del Qatar degli sceicchi Al Tani e della direzione di Hamas di Gaza, il progetto dei Fratelli Musulmani si è appoggiato sullo sviluppo capitalistico registrato nell’ultimo ventennio nell’ex-Terzo Mondo e, soprattutto, nella Cina.(2) Pur comprendendo stati alleati della Nato e dell’Occidente (la Turchia e il Qatar), l’ascesa dei Fratelli Musulmani ha fatto scattare l’allarme nei centri dell’imperialismo e nei loro pilastri locali, Israele e l’Arabia Saudita.Per almeno tre motivi:
1) per il tentativo, non importa se inconseguente, di coordinare le politiche statali di alcuni paesi della regione al di sopra dei confini ereditati dal colonialismo e al di sopra della storica frattura tra il mondo turco e quello arabo;
2) per la sponda che la politica dei Fratelli Musulmani stava offrendo alla penetrazione economica della Cina nella regione;
3) per il rischio che l’avvio di un coordinamento tra le economie e gli apparati statali dei paesi e dei territori guidati dalla Fratellanza Musulmana potesse diventare l’involontaria serra per la formazione nell’area di un raggruppamento antimperialista proletario.
Notizie allarmanti per l’Occidente, per Israele e per i paesi arabi moderati stavano, poi, arrivando dall’Iraq. Pur devastato dalle guerre di Bush padre e di Bush figlio, pur falcidiato dall’assassinio di un milione e mezzo di persone, pur impoverito dall’emigrazione di 3 milioni di iracheni, pur concimato da tonnellate di uranio impoverito, pur occupato dalle cavallette occidentali, pur oberato dall’obbligo di risarcire all’emirato del Kuwait decine di miliardi di dollari per l’"affronto" del 1990 con cui Saddam Hussein aveva legittimamente ricongiunto all’Iraq la provincia irachena del Kuwait sganciata dai colonialisti britannici nel 1961, pur amputato dalla regione settentrionale affidata dai neo-colonialisti occidentali alle svendute formazioni curde del Pdk, dal 2010 l’Iraq centro-meridionale ha ricominciato a respirare.
I protagonisti dell’embrionale ripresa di una vita economica e sociale moderna nell’Iraq centro-meridionale sono stati gli sfruttati iracheni, la loro resistenza alla colonizzazione del paese, la solidarietà ricevuta dalle masse popolari dell’Iran. Pur isolata internazionalmente, pur venata dalla disgraziata frattura con le componenti sfruttate sunnita e curda, pur organizzata dietro una bandiera di riscatto nazionale fasulla (quella di stampo sciita-khomeinista di al Muqtada), pur provocata da attentati suscitati ad arte dalle potenze occidentali e dai loro sgherri locali per seminare paure e rancori tra le componenti sunnita e sciita della popolazione, pur guardata a vista dalla grande base militare Usa impiantata alle porte di Baghdad, questa spinta è rimasta viva, si è fatta sentire dal 2007 anche con alcuni scioperi degli operai del settore petrolifero, ha costretto alcuni strati borghesi locali a tentare di svincolarsi dalla totale subordinazione agli Usa e ad accogliere le avances di Pechino, interessata a sua volta a diversificare le crescenti importazioni di petrolio richieste dall’alto tasso di sviluppo economico della Cina.
Dopo l’occupazione dell’Iraq del 2003, la Casa Bianca intendeva far assegnare i campi petroliferi non con un’asta internazionale ma su chiamata diretta del ministro del petrolio di Baghdad, e in più con contratti a lunga scadenza. Questo piano, tagliato a misura delle multinazionali Exxon, Shell, Chevron, Bp, Total e parzialmente avviato nel 2008, si è successivamente arenato. La legislazione sul petrolio varata dal 2010 dal parlamento iracheno prevede l’indizione di aste, limita la differenza incassata dalle società petrolifere a una quota fissa, stabilisce l’esclusione dalle aste delle società petrolifere che, come stava facendo la Exxon statunitense, tentano di siglare accordi diretti con i territori controllati dal Pdk curdo.
Nelle aste lanciate tra il 2010 e il 2012 hanno ottenuto i migliori appalti la compagnia statale malese Petronas, l’angolana Sonangol, la cinese China National Petroleum Corporation, le russe Lukhoil e Gazprom, le europee Shell, Total ed Eni.
Anche grazie ai buoni rapporti con l’Iran, di cui la Cina è il maggior partner commerciale, le imprese cinesi si sono ben inserite in Iraq, nel settore petrolifero e infrastrutturale, soprattutto nella zona di Rumaila e di West Qrna, dove è stato rapidamente trapiantato un contingente di tecnici cinesi di 30 mila unità. Nel fabbraio 2013, l’Iraq di al-Maliki e la Cina hanno firmato un accordo di forniture militari da parte della Cina. Alla fine del 2013 la produzione petrolifera irachena era tornata al livello storico dei tre milioni di barili al giorno. Una quota consistente della produzione di idrocarburi era diretta in Cina e collocava l’Iraq al quinto posto tra gli esportatori di petrolio verso la Cina (3). L’asse tra Pechino, Teheran e Baghdad si stava, poi, accompagnando al rafforzamento dei legami della Cina con la Turchia di Erdogan (anche con accordi di fornitura militare che la Nato ha tentato, invano, di fermare) e all’elaborazione del progetto concepito dalla nuova leadership cinese di realizzare una grandiosa rete infrastrutturale dalla Cina verso l’Europa meridionale attraverso l’Asia centrale, l’Iran, l’Iraq, la Turchia. Il progetto, chiamato "Via della Seta", richiede, ovviamente, la stabilità e la collaborazione delle autorità delle regioni attraversate, esattamente la zona che sta esplodendo.
La controffensiva imperialista La controffensiva imperialista è partita rapidamente, con la Gran Bretagna, la Francia, Israele e l’Arabia Saudita a far da battistrada. Essa ha colpito in profondità, prima (autunno 2011) in Libia, poi in Siria (con l’attizzamento di una finta guerra civile dalla primavera del 2012), quindi in Egitto (golpe di al-Sisi dell’estate 2013) e, infine nell’estate 2014, in Palestina.(4)
Il nuovo capitolo dell’aggressione imperialista (condotta, ci verremo fra poco, con coltellate ai fianchi reciproche tra i briganti occidentali, Israele e l’Arabia Saudita) ha portato a casa rilevanti successi:
1) in Egitto è stato ristabilito il pugno di ferro degli eredi di Mubarak e il progetto della Fratellanza Musulmana è stato gravemente azzoppato;
2) il presidente iraniano Ahmadinejad è stato sostituito da Rohani, rappresentante della borghesia iraniana vogliosa di riallacciare i rapporti con l’Occidente, di sottrarsi al soffocamento dell’economia nazionale causato, soprattutto negli ultimi anni, dal trentennale embargo imposto dagli Usa dopo il 1979, di sfuggire alla minaccia brandita dall’Occidente di riservarle il trattamento "regalato" alla classe dirigente libica raccolta attorno a Gheddafi e a quella irachena raccolta attorno a Saddam Hussein;
3) il neo-presidente Rohani non ha deluso le aspettative dei suoi sostenitori interni ed internazionali ed ha accettato di sottoscrivere una parte delle clausole sul dossier nucleare richieste dai paesi occidentali, per i quali (a proposito di uguaglianza tra i popoli) solo i signori del mondo (cioè loro stessi) e Israele possono disporre dell’arma nucleare;
4) il governo di al-Maliki è stato disarcionato con il contributo del gruppo dirigente iraniano capeggiato da Rohani e al suo posto insediato un esecutivo più affidabile per gli Usa e le potenze europee;
5) al confine tra l’Iraq e la Siria è stato inserito un cuneo (anche grazie all’operato dell’Isis) nel corridoio Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut-Gaza che tanto preoccupava le cancellerie occidentali;
6) nell’estate 2014 Israele ha, infine, invaso di nuovo Gaza con l’obiettivo di distruggere la rete di cunicoli con cui Hamas e le organizzazioni della resistenza palestinese erano riuscite a mettere in comunicazione la "prigione" di Gaza con l’Egitto, con Israele e con il Libano, e a promuovere (sacrosante) azioni di guerriglia contro Israele, contro le sue forze armate e contro gli agenti della politica colonialista di Israele, cioè i coloni israeliani, i cosiddetti "innocenti civili".
L’estensione dei territori sotto il controllo dell’Isis in Iraq e in Siria non è stato e non è la ribellione popolare o di un gruppo antimperialista contro questa manomissione occidentale della regione, ma un agente (non importa quanto consapevole e involontario) di questa manomissione.
Le divisioni in e dell’Iraq
L’Isis, originariamente, è una formazione messa in piedi dalle potenze occidentali, dall’Arabia Saudita, da Israele e dalla Turchia di Erdogan per buttare giù la repubblica siriana guidata da Assad, considerata (sia per la sua politica interna che per la sua alleanza con Teheran) un intralcio al rilancio della dominazione occidentale e turca della regione. L’Isis si è insediata in alcune zone con rilevanti impianti petroliferi e infrastrutturali (dighe e centrali elettriche) della Siria orientale e dell’Iraq occidentale, giovandosi della regressione economica e sociale causata in quei territori dalle guerre "umanitarie" dei civilizzatori occidentali e del conseguente ritorno di fiamma delle reti di parentela e delle clientele come mezzo di sopravvivenza per la popolazione lavoratrice.
In Iraq, in particolare, l’Isis ha messo a frutto a favore dell’imperialismo la miseria patita dalla popolazione lavoratrice sunnita proprio a causa degli effetti dell’arrivo in Iraq nel 2003 dei "nostri" (anche dei nostri militari tricolori!). Tra questi effetti vi è stato anche il trattamento specifico riservato dai neo-colonizzatori alla componente sunnita della popolazione, rea di essere rimasta troppo legata nel 2003 al nazionalismo baathista di Saddam, rea di alcune azioni di resistenza armata ben congegnate, come quelle di Falluja, contro le truppe occupanti.
La presidenza dello sciita Al-Maliki (diversamente da quello che tentarono nel 2004-2005 a Baghdad i militanti sciiti di base organizzati attorno a Al-Muqtada) non ha affatto contrastato la "selezione etnica" promossa dai "nostri" contro i sunniti dell’Iraq. È vero che Al-Maliki (e i suoi alleati iraniani) ha tentato dal 2010 di allentare il controllo degli Usa e delle potenze occidentali sulla gestione delle risorse petrolifere e sui legami internazionali del governo di Baghdad, ma Al-Maliki, anziché contrastare uno dei mezzi di questo controllo, e cioè la tripartizione dell’Iraq prevista dal piano Biden (5) e la contrapposizione tra la componente sciita e quella sunnita della popolazione irachena, ha rinfocolato questa contrapposizione, escludendo i dirigenti e i quadri ex-baathisti dalla gestione del potere del "nuovo" Iraq e riducendo drasticamente i trasferimenti statali della rendita petrolifera verso le province occidentali dell’Iraq.
Questa politica, che, lungi dall’essere una svista, nasce dal desiderio delle classi proprietarie sciite (ricche di terre, di impianti petroliferi, di ditte di servizi commerciali) di scongiurare l’affratellamento e l’organizzazione comune tra gli sfruttati iracheni di diversa fede religiosa e diversa nazionalità, sommo pericolo anche per le borghesie dell’area che mal digeriscono il totale dominio occidentale, questa politica, dicevamo, che effetto poteva produrre nella popolazione lavoratrice e negli strati borghesi
sunniti? Di fronte all’esclusione dalla distribuzione dei proventi dell’esportazione petrolifera, gli strati borghesi dell’Iraq occidentale e, insieme con essi, gli sfruttati e i diseredati, per far valere le loro (contrapposte) esigenze sociali, hanno accettato di sostenere i piani di conquista di economicamente importanti città irachene a ovest di Baghdad progettati da alcuni settori della cosiddetta "opposizione siriana", tra cui l’Isis, e rivolti, però, anche contro gli interessi della stessa popolazione sunnita che se ne stava facendo sostenitrice.
È vero che questa innaturale alleanza ha permesso di assumere il controllo della più importante raffineria del paese e della strategica città di Mosul, ma a cosa hanno portato e come sono usate queste conquiste militari? Hanno portato, forse, alla gestione delle ricchezze locali in funzione dei bisogni degli sfruttati e in funzione dell’organizzazione di un fronte di lotta comune con gli sfruttati sciiti e curdi (in Iraq e in Siria) contro l’aggressione portata avanti dall’imperialismo? È servita per condurre una rappresaglia bruciante contro Israele (a due passi dalle basi dell’Isis in Iraq e in Siria!) in risposta all’aggressione che Tel Aviv stava conducendo proprie in quelle settimane contro la resistenza palestinese di Gaza e in supporto delle azioni armate fin dentro i confini israeliani condotte dall’eroica resistenza palestinese? La risposta è no, nell’uno e nell’altro caso. Lo "sfondamento" dell’Isis e del notabilato sunnita nelle città dell’Iraq occidentale ha, invece, suscitato nuove divisioni tra gli sfruttati di queste città, con la persecuzione e la cacciata di quelli non omogenei "etnicamente e religiosamente" al vangelo Isis.
Non bastasse tutto questo, la direzione borghese del Kurdistan iracheno ha approfittato della disorganizzazione delle forze militari di Baghdad nel nord dell’Iraq per occupare a luglio 2014 l’importante centro petrolifero di Kirkuk, agganciare l’esportazione del petrolio e del gas della zona alla rete nel frattempo entrata in funzione in Turchia con la collaborazione occidentale in sostituzione della pipeline tradizionale passante attraverso la Siria, rinfocolare i risentimenti tra i lavoratori curdi e quelli iracheni di fede islamica (sciita o sunnita).
Questa iniziativa potrebbe anche convenire, temporaneamente, ai calcoli meschini dei borghesi curdi, ma non permetterà mai al popolo e agli sfruttati curdi di conquistare il pieno riscatto nazionale e sociale a cui essi legittimamente aspirano.
Tale riscatto potrà risultare solo da un moto dei proletari e dei diseredati di tutte le fedi religiose e le nazionalità dell’area (araba, curda, turca, ebrea) contro la cappa che il colonialismo e il neo-colonialismo hanno imposto sulla regione e di cui è un ingranaggio perfido la strumentalizzazione dell’aspirazione nazionale dei curdi contro quella degli altri popoli dell’area da parte di coloro, le potenze occidentali, che sono state, con i trattati di pace del primo dopoguerra, le principali responsabili del destino di oppressione nazionale del popolo curdo.(6)
Certo, questa lotta per il riscatto nazionale e sociale dei curdi richiede la distruzione dei confini statali ereditati dal colonialismo, di cui sono parti integranti le costruzioni statali e le direzioni borghesi uscite dal primo tempo della lotta antimperialista in Medioriente. Oggi, però, a radere al suolo queste costruzioni statali, in Iraq, in Siria e in Libia e forse domani in Iran, è l’imperialismo e i suoi agenti locali, anche involontari. Ed esso lo fa per arrivare a schiacciare e frantumare il sentimento antimperialista delle masse lavoratrici che è, antagonisticamente, incapsulato in questi contenitori. Non dice nulla il fatto che la "comunità internazionale" (leggi i briganti imperialisti, più o meno in armonia tra loro) rade al suolo o vuole balcanizzare (ovviamente per far trionfare la democrazia contro i "dittatori" locali, cioè per imporre la loro completa dittatura) l’Iraq, la Siria, la Libia e, se non si piegherà, l’Iran, e nello stesso tempo tollera o sostiene il rafforzamento dello stato israeliano, uno dei pilastri fondamentali dell’oppressione esercitata dai monopòli occidentali sulla regione, sugli sfruttati della regione, arabi, turchi, curdi, sciiti, sunniti, cristiani, ebrei?
I contrasti in seno alla classe dirigente Usa
I piani per il Medioriente degli Usa, dei paesi europei, di Israele, dell’Arabia Saudita non sono del tutto coincidenti tra loro.
L’amministrazione Obama vorrebbe ricondurre la Turchia nell’ovile della Nato (facendone la testa di ariete per buttare giù Assad e ridimensiondone la velleità di dare veste moderna all’impero ottomano) e costringere l’Iran all’accordo con l’Occidente in chiave socialmente moderata e anticinese.
Israele e l’Arabia Saudita sono contrariati da questa politica, che ne ridimensionerebbe il ruolo economico e politico nella regione a vantaggio del loro storico concorrente iraniano.
L’Arabia Saudita la sta contrastando anche con la guerra dei prezzi del petrolio, favorendone la discesa al livello in cui (80 dollari al barile) viene messo fuori mercato un terzo della produzione di idrocarburi da shale con cui gli Usa hanno ridotto le loro importazioni dal Medioriente e sono diventati, scavalcando l’Arabia Saudita, il primo produttore mondiale.
Israele, da parte sua, intende garantirsi la sicurezza facendo terra bruciata attorno a sé, prima di tutto dei palestinesi, e riducendo il mondo araboislamico a un cumulo di macerie. Una parte della classe dirigente Usa, anche dentro il partito democratico Usa, è sintonizzata con il governo di Tel Aviv. Essa ha una delle sue roccaforti nel Pentagono e sta manovrando le formazioni dell’"opposizione" siriana, Isis compresa, per costringere l’amministrazione Obama a re-inviare consistenti contingenti militari in Medioriente e a lanciare uno strike contro Assad.
Si arrivi o meno a questa diretta spallata contro Damasco da parte degli Usa e degli alleati europei, le azioni militari che la coalizione occidentale ha iniziato dall’estate 2014 per ricondurre all’ordine le formazioni islamiste della "opposizione siriana", stanno fungendo da copertura per bombardamenti diretti dei caccia Nato contro le zone ancora controllate da Assad e per una più diretta intromissione nelle vicende siriane. Si affermi l’una o l’altra delle opzioni al momento sostenute nel fronte imperialista, ad andare avanti è in ogni caso una politica infame che mira a balcanizzare il Medioriente, a mantenervi una pluralità di forze e di staterelli in competizione gli uni con gli altri, a utilizzare in questo gioco al massacro contro gli sfruttati dell’area anche la volontà di riscatto sociale e nazionale dei curdi.
In questa partita, l’una e l’altra ala della classe dirigente Usa sono avvantaggiate dal fatto che gli Usa hanno meno bisogno di ieri degli idrocarburi mediorientali. E possono permettersi, anche per indebolire la costruzione europea, di favorire il caos (controllato) nell’area, giocando ora sull’una e ora sull’altra pedina, da eliminare o ricondurre nei ranghi anche con bombardamenti intelligenti nel caso (come forse è accaduto con l’Isis) volesse "mettersi in proprio".
Per un indirizzo politico proletario della lotta antimperialista
Se questa macchina assassina non è riuscita a realizzare fino in fondo i suoi (non convergenti) intenti è solo per la resistenza degli sfruttati mediorientali. Quella dei palestinesi, quella organizzata entro Hezbollah, quella sotterranea e molecolare a Damasco, a Baghdad e, come emerge dagli articoli della stampa finanziaria che si leccano i baffi sugli affari che si attendono dalla normalizzazione dei rapporti con l’Itan, nello stesso Iran (7). È vero che questa forza è stata costretta ad arretrare, ma ad essere stata intaccata negli ultimi due anni non è la indomita volontà degli sfruttati dell’area di opporsi al pugno di ferro e alle lusinghe dell’Occidente, ma la serie di illusioni che le masse lavoratrici mediorientali riponevano e ripongono nel poter condurre la lotta insieme con i propri borghesi, dietro la bandiera dell’antimperialismo borghese, nella veste nasserista o islamica più o meno radicale.
Non si sta forse ritorcendo contro i lavoratori iracheni di fede sciita la politica anti-sunnita e anti-curda della direzione sciita iracheno-iraniano? I lavoratori egiziani e palestinesi che nel 2011, con l’incoraggiamento delle direzioni dei Fratelli Musulmani, hanno assistito impassibili o hanno simpatizzato con l’aggressione occidentale contro la repubblica libica di Gheddafi, non stanno forse toccando con mano che quell’aggressione era rivolta anche contro di loro, serviva a preparare l’affondo anche contro di loro? E la finta opposizione contro la Siria di Assad, che ha trovato i suoi padrini anche nella Turchia di Erdogan e nell’Egitto di Morsi, non ha forse agevolato i piani dell’Arabia Saudita, di Israele e di al-Sisi in Egitto e a Gaza? Quanto devono aspettare gli sfruttati turchi per realizzare fino in fondo che si ritorceranno contro di loro come un boomerang la volontà di Erdogan di buttare giù la Siria di Assad e le trattative che il governo di Ankara sta portando avanti con la Nato e con l’Arabia Saudita per una no-fly zone nel nord della Siria, dove sono collocati importanti impianti petroliferi e le sorgenti dell’Eufrate e del Tigri? Può essere, infine, accettabile per gli sfruttati iraniani, i protagonisti della rivoluzione del 1979, il compromesso che la loro classe dirigente si appresta a siglare con il "Grande Satana Imperialista"? Queste esperienze, che si aggiungono a quelle di segno analogo delle precedenti fasi della lotta antimperialista nel mondo arabo-islamico, stanno mostrando che il tentativo delle borghesie dell’area di pervenire a uno sviluppo capitalistico locale "auto-centrato" si basa su mosse e calcoli che gettano le masse lavoratrici in pasto all’imperialismo, che ostacolano e affossano l’unica forza che renderebbe effettiva la lotta contro il dominio imperialistico sull’area: la forza che si sprigiona dalla lotta e dall’unità dei proletari e dei diseredati dell’area al di sopra degli steccati nazionali e religiosi.
Questa lezione non tarderà ad imporsi ai nuclei più combattivi delle masse lavoratrici del mondo araboislamico, nella lotta per la stessa esistenza fisica che essi, indomiti, continuano a portare avanti in Palestina, in Egitto, in Siria, in Iraq e Iran.
Ed essa sarà, a sua volta, il terreno per far germinare la coscienza che l’unica prospettiva in grado di organizzare e dirigere la difesa e la liberazione delle masse lavoratrici mediorientali dalla morsa dell’imperialismo e dalle conseguenze nefaste delle rivalità delle borghesie locali è quella, antica e più che mai attuale, dell’Internazionale Comunista di Lenin. A far da culla oggettiva a questa maturazione è anche il dramma dell’emigrazione forzata di milioni di persone da un paese all’altro del Medioriente causata dagli sconvolgimenti degli ultimi quindici anni (dall’Iraq in Siria, dalla Siria in Libano e in Giordania, dalla Palestina verso tutta l’area) e l’inserimento gomito a gomito di esperienze e drammi delle varie regioni mediorientali nei cantieri e nei centri petrolchimici dei paesi del Golfo, a contatto, inoltre, con milioni di immigrati dall’Asia meridionale e orientale.
Ciò che rende difficoltosa la maturazione nell’area di un soggetto politico che vada verso l’autonomia di classe proletaria e ciò che espone la lotta degli sfruttati mediorientali alle brigantesche trappole delle potenze occidentali è l’isolamento in cui le lotte degli sfruttati mediorientali sono lasciate dai lavoratori degli altri continenti.
A pesare è soprattutto l’indifferenza (o peggio) dei lavoratori delle potenze imperialiste che promuovono l’aggressione finanziaria, politica e militare al mondo arabo-islamico.
Noi comunisti del "che fare" siamo intervenuti e interverremo contro questa indifferenza, facendo emergere quanto la difesa degli stessi interessi immediati dei lavoratori occidentali dall’attacco condotto contro di essi dai rispettivi governi e padroni richieda anche l’opposizione ai piani di guerra promossi in Medioriente da Obama, Renzi, Merkel. Richieda l’opposizione, ad esempio, alla collaborazione "strategica" tra l’Italia e l’Egitto di Al-Sisi sancita nella visita di Al-Sisi a Roma del 24 novembre 2014 e l’opposizione alla missione di addestramento delle milizie curde avviata dal governo Renzi sempre nell’autunno 2014. Richiede il sostegno incondizionato alla resistenza dei fratelli di classe mediorientali.
Note
(1) Sull’aggressione Nato-Onu all’Iraq del 2003 e sulla resistenza del popolo iracheno all’occupazione vedi i seguenti articoli pubblicati sui nn. 62, 63 e 64 del
che fare(2) Sulla "primavera araba" vedi gli articoli pubblicati sui nn. 74 e 75 del
che fare.(3) Nel 2013 la China National Petroleum Corporation (Cnpc) ha ricavato dall’Iraq 300 milioni di barili, quasi un terzo della sua produzione totale.
(4) Sull’aggressione alla Libia si vedano gli rticoli pubblicati sul n. 74 e sul n. 75 del
che fare. Sulla Siria v. gli articoli pubblicati sul n. 76 e sul n. 79 del che fare. Sul golpe di al Sisi in Egitto v. l’articolo sul n. 79 del che fare.(5) Su proposta del senatore democratico Biden, nel 2007 il Congresso degli Stati Uniti ha votato un indirizzo di orientamento della politica estera della Casa Bianca nel quale si propone la divisione dell’Iraq in tre regioni semi-autonome, una sciita, una sunnita e una curda, con un limitato governo centrale a Baghdad.
(6) Sulle radici dell’oppressione del popolo curdo e sulla lotta contro di essa, rimandiamo all’articolo pubblicato sul n. 21 del "che fare" (maggio 1991) con il titolo "L’ultimo, ed anche il più amaro, atto dell’annoso dramma dei curdi".
(7) Insieme all’obiettivo strategico di sganciare l’Iran dall’orbita cinese e di reinserirlo nell’ordine imperialista mediorientale in chiave moderata, gli Usa e i paesi europei mirano a stringere lucrosi affari. Un articolo del settimanale
The Economist del 30 ottobre 2014 dal titolo "Awaiting the gold rush" ("Aspettando la corsa all’oro") descrive bene sia la corsa all’oro a cui si stanno preparando le imprese occidentali che il soggetto sociale destinato a pagarne le spese in Iran."Tra gli uomini d’affari, in Iran e all’estero, sono alte le speranze che il paese possa presto cessare di essere un paria commerciale. Essi si leccano anticipatamente le labbra dopo decenni di sanzioni sempre più dure (...) I funzionari di Teheran hanno iniziato a ricevere le delegazioni di affari estere, sperando di conquistare alleati nella battaglia contro le sanzioni. Un cameriere in un hotel di lusso si vantava di un portafoglio pieno di mance da tutto il mondo. Avvocati locali, consulenti e banchieri stanno smerciando i loro servizi in quello che viene chiamato «l’ultimo grande mercato chiuso nel mondo». Facce familiari sono tornate, come i manager di Peugeot, una casa automobilistica francese che ha avuto un 30% di quota di mercato in Iran prima di tirarsi fuori nel 2012.
"Le opportunità in un post accordo Iran sarebbero enormi. Le sanzioni, secondo quanto afferma il governo americano, hanno depresso il pil del 25% negli ultimi 3 anni; ma è ancora 12 miliardi di dollari a parità di potere d’acquisto, e fanno dell’Iran la diciottesima economia più grande del mondo. La popolazione di 80 milioni è ben istruita. Le riserve di petrolio e gas del paese sono enormi. La borsa di Teheran è la seconda più grande del Medio Oriente, con una capitalizzazione di circa 150 miliardi, secondo il Turchese Partners, il primo fondo di investimento estero dedicato all’Iran. Gli stranieri, però, posseggono solo lo 0,1% delle azioni delle società quotate. (…) "La borsa di Teheran è fatta funzionare piuttosto bene. I suoi operatori e il suo regolatore sono stati separati e i dati di mercato sono disponibili online in tempo reale. Circa 8 milioni di iraniani possiedono azioni e 500 mila commerciano attivamente.
Lo scorso anno il mercato è salito del 130%. I fondi pensione locali sono pronti a vendere alcune delle loro holding. Questo rappresenta, per gli investitori stranieri, una opportunità per comprare e rinnovare inefficienti e potenzialmente sottovalutate compagnie con buoni agganci con il regime.
"Tra i settori più attrattivi per gli investitori esteri vi è l’industria manifatturiera. L’industria automobilistica dell’Iran rappresenta il 10% del PIL, fino a che le sanzioni non hanno morso pochi anni fa, essa impiegava un milione di persone. La vendita al dettaglio è un altro settore promettente. Il centro di Teheran è pieno di falsi negozi della Apple; i consumatori sarebbero deliziati di poter comprare le cose reali.
"Il settore industriale che, forse, ha maggior bisogno di esperienza e capitale estero è quello bancario. Una selva, però, di regolamentazione e un patrimonio di debiti spazzatura sono un deterrente. (...) Alle imprese del settore minerario potrebbe invece risultare più facile entrare in Iran, dato che molte delle industrie estrattive sono già privatizzate. L’ Iran è al 9° posto al mondo per le più grandi riserve di rame e all’11° per i minerali di ferro. E, naturalmente, c’è il petrolio di cui è quarta fra le più larghe riserve al mondo. Nuovi contratti petroliferi per stranieri sono stati già scritti da funzionari in attesa del grande giorno. Il presidente Hassan Rouhani ha incontrato i boss esteri dell’energia alla conferenza di Davos all’inizio di quest’anno e ha fatto grande frastuono per l’accoglienza. A lungo termine, il gas è una prospettiva più promettente per gli investimenti stranieri: le riserve iraniane sono le più grandi al mondo, però ha solo l’1% della quota di mercato mondiale.
"Le prospettive, così, sono da far venire l’acquolina in bocca, ma anche se le sanzioni vengono tolte completamente, le imprese e gli investitori non troveranno la strada facile. (...) Il mercato del lavoro, il sistema delle banche e governo sono spesso burocratizzati. «Aspettarsi l’impasse», è il consiglio di un diplomatico occidentale a Teheran.
"Per la riabilitazione dell’economia dell’Iran, privatizzazioni e riforme economiche sono anche più importanti che la revoca delle sanzioni, come sostiene Suzanne Maloney del Brookings Insitutions, un
think-tank americano. Dopo le elezioni del signor Rouhani nel 2013, il governo ha tagliato i sussidi e ha detto di voler sostenere il debole settore privato. Lo stato, però, è ancor coinvolto in ogni parte dell’economia. Anche quando le aziende sono state privatizzate, sono spesso soggette al controllo dei prezzi. (...)Dati i decenni di isolamento e propaganda, alcuni iraniani rimarranno sospettosi degli outsider, non importa cosa dica il loro governo. I nazionalisti potrebbero facilmente suscitare antagonismo contro le aziende straniere. Ci vorrà tempo e sforzo per disfare il regime di sanzioni, anche se i negoziatori americani talvolta sostengono il contrario. E potrebbero essere troppo facilmente reimposte le sanzioni se l’Iran viola i termini dell’accordo sul nucleare.
L’Iran, insomma, offre alle aziende straniere una ricchezza di potenziali ricompense, ma anche più della sua giusta quota di rischi" (
The Economist, 30 ottobre 2014).Che fare n.81 dicembre 2014 - aprile 2014
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