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Che fare n.81 dicembre 2014 - aprile 2014

A fianco della lotta dei lavoratori dei call center

In Italia gli operatori dei call center in outsourcing sono circa 80mila. In questo comparto dominano la precarietà, magri salari (600-800 euro al mese), ritmi di servizio pressanti. Nel settore è inoltre diffusa una politica degli appalti e dei subappalti al massimo ribasso che si traduce nell’erosione dei livelli normativi, salariali e occupazionali dei lavoratori e in delocalizzazioni verso paesi dove la manodopera è ancora a più buon mercato.

Alcuni esempi.

Sitel Italia Srl, ad aprile 2014, ha delocalizzato verso un call center multilingue di Belgrado, chiudendo la sede di Milano e licenziando quasi 200 lavoratori. Teleperformance ha annunciato la chiusura della sede di Taranto (2800 dipendenti, di cui 1000 lavoratori "a progetto") dopo aver delocalizzato i call center in Romania, Grecia e Portogallo. 4U Servizi, call center con sede a Palermo, ha spostato parte della produzione in Albania e dal 1° novembre 2014 130 lavoratori sono stati messi in cassa integrazione a zero ore. E-Care, dopo aver perso una delle sue principali commesse (quella con Fastweb che ha delocalizzato verso Tunisia, Albania e Romania), ha annunciato che il 31 dicembre 2014 chiuderà la sede di Cesano Boscone (Lombardia), 489 dipendenti.

Questa situazione ha portato le federazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil a indire due partecipati scioperi, il 4 giugno e il 21 novembre 2014.

In concomitanza dello sciopero di giugno si è tenuta anche una nutrita e vivace manifestazione nazionale a Roma, che ha visto sfilare per le strade della capitale oltre 5 mila lavoratori e lavoratrici provenienti soprattutto (ma non solo) dal meridione. Al centro delle rivendicazioni sindacali vi è la richiesta di misure contro le gare d’appalto al ribasso, che obblighino le aziende che subentrano in un appalto a mantenere i livelli occupazionali e salariali preesistenti.

Battersi con forza contro i licenziamenti in corso e minacciati, respingere i ricatti presentati dalle direzioni aziendali in alternativa alle delocalizzazioni, opporsi alle gare di appalto al ribasso è sacrosanto e la mobilitazione è l’unica arma in mano ai lavoratori per farlo. Ma questa mobilitazione non può contare sull’aiuto del governo Renzi o sull’applicazione da parte delle istituzioni europee della normativa sugli appalti 2001/23.

Primo: perché l’intera politica governativa, come il "Jobs act" dimostra, è finalizzata non a ridurre ma a generalizzare la precarietà. Secondo: perché, ammesso e non concesso che le istituzioni europee siano disposte a far rispettare l’attuale normativa, in un settore come quello dei call center dove il "servizio", per l’infrastruttura produttiva utilizzata, è intrinsecamente "volatile", esso può essere spostato senza violare i termini di legge laddove peggiori sono le condizioni dei lavoratori. Non si può tutelare il "lavoro italiano", come era scritto su alcuni cartelli della manifestazione di giugno, senza darsi da fare anche per tutelare quello "albanese", "rumeno", "argentino". Nel dar continuità alle mobilitazioni in atto, occorre, quindi, iniziare a riflettere sulla necessità di una battaglia (per nulla facile ma indispensabile) per la parificazione verso l’alto dei diritti e dei salari dei lavoratori di quelle nazioni che oggi sono terra di conquista delle aziende nostrane.

Che fare n.81 dicembre 2014 - aprile 2014

    ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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