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Che fare n.81 dicembre 2014 - aprile 2014

Contro il governo Renzi! Contro i vincoli di Bruxelles!

Il Job Act non è un aspetto sbagliato di una politica governativa nel suo insieme accettabile e solo da correggere

La manifestazione nazionale della Cgil del 25 ottobre 2014, le due successive manifestazioni con sciopero di Milano e Napoli della Fiom, lo sciopero generale del 12 dicembre 2014 dicono che, sia pur con difficoltà, una parte dei lavoratori ha iniziato a percepire che nella politica del governo Renzi c’è "qualcosa" di ostile verso di loro, "qualcosa" da neutralizzare.

"Qualcosa" che contrasta le, pur moderate, attese che fino a pochi    mesi prima molti lavoratori avevano riposto nell’ex sindaco di Firenze. A smuovere le acque sono stati lo stesso presidente del consiglio e il ministro Poletti con la presentazione della loro contro-riforma del mercato del lavoro (il cosiddetto "Jobs Act"). I punti fondamentali del Jobs Act sono quattro.

1) Eliminazione di quel che resta dell’articolo 18 dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori. Questa norma, messa nel mirino da Berlusconi nel 2001, è già stata amputata e in parte svuotata dal governo Monti nel 2011, ma per i padroni va cancellata completamente e imposta la piena libertà di licenziamento.

2) Contratto unico "a punti" per i neo-assunti. Per i primi 3 anni di assunzione (ma c’è chi parla di 6) il lavoratore "godrebbe" di pochissimi diritti. Poi, un po’ alla volta, e se si comporta "come l’azienda comanda", acquisirebbe qualche garanzia in più.

3) Le direzioni aziendali potranno applicare il "demansionamento funzionale ed economico". Il padrone avrà, cioè, mano libera nell’adibire il lavoratore a funzioni meno qualificate applicando anche il corrispettivo taglio del salario.

4) Vengono ridotti, più di quanto non sia accaduto finora, il ruolo ed il peso della contrattazione nazionale di categoria a favore della contrattazione aziendale. La conseguenza sarà quella di aumentare la frammentazione per vie aziendali e territoriali delle condizioni di lavoro della classe lavoratrice e rendere più difficile l’organizzazione collettiva, unitaria della lotta contro i piani delle direzioni aziendali e del governo.

Per sbarrare la strada al "Jobs Act", per difendersi dalle conseguenze della sua eventuale applicazione, per respingere i ricatti connessi alla gragnuola di licenziamenti e ristrutturazioni in atto nelle aziende non c’è che da proseguire sulla strada aperta dalle iniziative dell’autunno 2014.

Le risposte arroganti di Renzi agli scioperi e alle manifestazioni hanno mostrato che l’attacco del governo e dei padroni può essere arginato solo al prezzo di uno scontro durissimo. Uno scontro che, per essere preparato e sostenuto, richiede anche l’avvio di una chiarificazione politica tra le file dei lavoratori per liberarsi dell’idea secondo la quale il "Jobs Act" sarebbe "solo" un aspetto "sbagliato" di una azione governativa nel suo insieme tutto sommato "accettabile".

Il "Jobs act" non è un’invenzione o un capriccio del presidente del consiglio. A volere una contro-riforma radicale del mercato del lavoro e a teleguidare Renzi sono tutti i poteri forti capitalistici nazionali e internazionali, sia quelli filo-statunitensi che quelli filo-tedeschi, sia quelli favorevoli all’applicazione rigida dei vincoli di Bruxelles che quelli favorevoli all’applicazione flessibile di questi vincoli.

Renzi è sostenuto dalla Fiat-Chrysler di Marchionne, dall’intera Confindustria di Squinzi, da Berlusconi, dalle comunità d’affari di Wall Street e della City di Londra, dal governo Merkel e dai vertici di Bruxelles dall’amministrazione Obama. Insomma a volere il "Jobs Act" in Italia, dopo averlo imposto nei decenni scorsi nel mondo anglosassone e poi negli anni scorsi negli altri paesi europei mediterranei, è l’intera classe dei capitalisti d’Occidente, sono le esigenze del sistema di sfruttamento capitalistico mondializzato, che deve succhiare dal sudore dei lavoratori d’Occidente quella porzione di superprofitti venuti meno nel Sud e nell’Est del mondo grazie alle lotte ingaggiate contro le multinazionali occidentali nell’ultimo quindicennio dai lavoratori della Cina, del Bangladesh, del Sudafrica, dell’America Latina. A tal fine va sgretolata la (pur ridotta) capacità di difesa collettiva che i lavoratori, soprattutto dell’industria, conservano in Italia ed in Europa.

La totale libertà di licenziamento a cui inneggia Renzi a questo conduce. Si vuole portare (più di quanto già oggi disgraziatamente accade) ogni lavoratore a vedere il suo salvagente nell’adeguarsi silenziosamente alle richieste dell’azienda. A vedere nell’altro lavoratore un concorrente da cui difendersi sgomitando.

A questo fine mira anche la campagna politica e ideologica che Renzi ha scatenato contro la Cgil e i "sindacati". Quando il presidente del consiglio (rivolgendosi soprattutto alla nuova generazione proletaria) dice che il sindacato è "roba vecchia", da rottamare, dannosa per gli stessi lavoratori, non mira a colpire nessuna "casta". Inneggiando all’individualismo e alla "capacità competitiva del singolo", Renzi punta a demolire l’idea stessa che i lavoratori possano e debbano organizzarsi collettivamente per tutelare i propri diritti. Il governo Renzi e la classe capitalistica che lo incita vogliono un mondo del lavoro salariato atomizzato, "all’americana". Con un sindacato che, abbandonata ogni residuale conflittualità e confederalità, sia ridotto (più di quanto già oggi non avvenga) a un "centro servizi" la cui azione resti confinata entro i confini di ogni singola impresa.

A questi signori non si può far cambiare idea con le suppliche, come dimostra anche l’avvertimento inviato dal governo Renzi a tutti i lavoratori attraverso le cariche contro i lavoratori delle acciaierie di Terni del 29 ottobre 2014, le manganellate contro gli operai in piazza a Brescia il 3 novembre 2014 e il pacchetto sicurezza appena approvato. Per contrastare questo disegno ci vuole una lotta generale, unitaria e radicale.

Per dar nerbo alla quale va messo in   luce il fatto che l’affondo padronalgovernativo sul mercato del lavoro è oliato e consolidato da altri aspetti della politica del governo Renzi che, invece, sembrano inclinare a favore degli interessi dei lavoratori: ad esempio, gli 80 euro e le proposte di Renzi per l’applicazione flessibile dei vincoli di Bruxelles.

Gli 80 euro e i vincoli di Bruxelles

Prendiamo gli 80 euro. Da un lato, essi sono stati e sono un’"anestesia" con la quale Renzi, gli imprenditori e le istituzioni finanziarie nazionali e internazionali che lo sostengono vogliono far accettare passivamente ai lavoratori le "mazzate" del "Jobs Act" e i tagli al welfare previsti, in sordina, dalla legge di stabilità 2015. Dall’altro lato, il biglietto da visita degli "80 euro" contiene un velenoso messaggio: è più conveniente confidare nelle "graziose elargizioni" del governo (o dell’azienda), piuttosto che cercare di migliorare le proprie condizioni salariali attraverso la contrattazione collettiva e la lotta sindacale e organizzata.

Gli "80 euro" e il "Jobs Act" si tengono insieme a vicenda, sono due aspetti di una stessa politica. Lo stesso può dirsi per la politica di Renzi sui vincoli di Bruxelles. Il contrasto tra il governo Renzi e il governo Merkel sul vincolo del 3%, sulla destinazione del fondo di 300 miliardi di euro per le infrastrutture strategiche europee, sulla politica monetaria della Bce non è un gioco delle parti. Non per questo, però, le proposte di Renzi possono aiutare i lavoratori d’Italia a difendersi dalle conseguenze (ricordiamo l’allungamento dell’età lavorativa di 6 anni varata dal governo Monti) imposte dalla costruzione dell’Ue. Guardiamo meglio alla sostanza del contrasto tra Renzi e Merkel.

Il governo Merkel vuole arrivare a costruire una piattaforma continentale integrata e coesa sul piano economico e su quello istituzionale-politico. Per Merkel questo programma è l’unica via lungo la quale l’Europa può reggere la concorrenza economica degli Usa e dei giganti asiatici emergenti, mantenere la sua posizione privilegiata nel sistema capitalistico mondiale e conservare, pur al ribasso e con differenze di grado tra i paesi europei "centrali" e quelli "periferici", il cosiddetto "stato sociale europeo".

Nei suoi discorsi il primo ministro tedesco è solita citare tre numeri: i paesi della Ue comprendono il 7% della popolazione mondiale, il 25% del prodotto loro mondiale e il 50% della spesa mondiale per il welfare.

Com’è (capitalisticamente) possibile, chiede Merkel, conservare questi privilegi o una parte di essi senza arrivare agli Stati Uniti di Europa? L’alleanza con la Casa bianca non è (almeno per ora) in discussione, si aggiunge a Berlino, ma va messa a frutto (anche con la firma del Patto di Partnership Inter-Atlantica proposto da Obama) sulla base di una autonomia continentale europea forte di una moneta a rilevanza mondiale e di un competitivo apparato industriale integrato. E come è possibile mettere in pista una moneta a rilevanza mondiale e rilanciare la competitività dell’industria dei paesi europei senza omogeneizzare i deficit pubblici e le politiche fiscali dei vari paesi, senza la cessione di sovranità dei singoli stati a vantaggio degli Stati Uniti d’Europa, senza vincolare a questo piano continentale gli investimenti infrastrutturali in discussione a Bruxelles?(1)

Questa politica, che è sostenuta dalle grandi imprese tedesche e da settori del grande capitale italiano e di altri paesi europei, non si limita a colpire le tutele conquistate in passato dai lavoratori d’Europa e a indebolirne la capacità di difesa, mettendo in concorrenza fra loro i proletari dei vari paesi europei e questi ultimi con quelli degli altri continenti. Essa acciacca i piedi di potenti settori borghesi non meno anti-proletari di quelli rappresentati da Merkel, dentro e fuori l’Ue: la finanza e le multinazionali Usa, che non gradiscono un’Europa coesa intorno alla Germania, specie se proiettata amichevolmente verso la Russia e la Cina; un ampio strato del capitale italiano, francese e britannico convinto di tutelare meglio i propri interessi "affidandosi" a Washington piuttosto che al "blocco europeo".

Sospinto da questi interessi, Renzi vuole allentare i vincoli di Bruxelles ma solo per irreggimentare i popoli e i proletari d’Europa al potere totalitario degli Stati Uniti, al modello di "welfare" basato sulle assicurazioni private in vigore negli Usa che taglia fuori decine di milioni di proletari dalla copertura sanitaria e previdenziale, al programma anti-proletario di Obama di scagliare il mondo occidentale contro i popoli e i lavoratori del mondo capitalistico emergente, alla promessa di Obama di appaltare all’Italia (se lo agevolerà nello sgambetto a Merkel) la gestione di alcuni fronti della sua campagna d’Africa, come già si è intravisto nei viaggi compiuti da Renzi nel 2014 in Mozambico, Angola, Algeria, Egitto.(2)

Non ci si può difendere e liberare da questa doppia morsa, dall’europeismo di Merkel e dall’atlantismo di Obama-Renzi, sognando l’Europa delle piccole patrie, delle autonomie, dei popoli di cui cianciano Salvini, Le Pen e Grillo. Questo programma può far sognare quel ceto medio accumulatore che ha fatto le sue fortune in Italia sulla pelle dei lavoratori europei e sul doppio sfruttamento dei lavoratori immigrati, e che vede nella costruzione europea un doppio pericolo: da un lato, la razionalizzazione economica e sociale "alla tedesca" della macchina capitalistica italiana ed europea ne incrinerebbe i privilegi; dall’altro lato, l’unificazione economica e istituzionale europea potrebbe favorire l’unificazione antagonistica dei lavoratori europei e dei lavoratori immigrati, assai più temibile per esso della centralizzazione grandeborghese.

Ma quali benefici offrirebbe ai lavoratori d’Europa questa presunta "terza via"? Li "libererebbe" dai "vincoli di Bruxelles", ma per lasciarli impotenti, murati entro i confini delle piccole patrie, a subire la gestione locale dei vincoli imposti dal mercato mondiale (di cui quelli di Bruxelles sono un derivato) da parte degli sfruttatori, dei redditieri, dei commercianti, dei liberi professionisti, dei furbetti del quartierino che incarnano l’interesse sociale di riferimento di Grillo, Le Pen e Salvini. Anche questo programma (a cui dall’autunno 2014 occhieggiano anche le imprese italiane che esportano in Russia (3) come mezzo di pressione sul governo Renzi e sull’Ue per allentare le sanzioni contro Mosca), conduce alla frantumazione del mondo proletario, inchioda i lavoratori a un dispotismo aziendale, quello delle piccole e medie aziende, non meno prevaricatore ed occhiuto di quello che domina nei grandi gruppi, li consegna al carro di caste politiche fameliche almeno  quanto quelle di Bruxelles e di Roma, ne svia il malessere contro i lavoratori immigrati, a tutto vantaggio, alla fin fine, dei tanto vituperati "poteri forti" capitalistici che ingrassano sulla gerarchizzazione per razze e per nazioni dei lavoratori d’Europa.

Questa "terza via" capitalistica tra il programma di Merkel e quello di Obama-Renzi non ha, inoltre, gambe storiche per marciare. Essa può spianare la strada o al primo programma o al secondo programma. Può indebolire l’Europa di Bruxelles, favorendo una disarticolazione del continente che spiana la strada, come vuole Renzi, all’accentramento attorno agli Usa. Può evitare questo esito, che non corrisponde certo agli interessi autentici delle borghesie europee, come emerge anche dai danni sofferti per le sanzioni all’Ucraina, solo se, con più forza di Merkel, alza la bandiera degli Stati Uniti di Europa e l’allarga alla Russia nella prospettiva dell’euroasiatismo, oggi sostenuto da piccoli gruppi di estrema destra eredi delle correnti "plebee" del nazi-fascimo.

Nel frattempo, qualunque sia l’esito dello scontro in corso in seno all’alleanza atlantica, il programma dell’" Europa dei popoli" rafforza i veleni politici che già intossicano le fila del proletariato, tra i quali spicca quello del razzismo, della contrapposizione verso i lavoratori immigrati, della micidiale illusione di arginare l’arretramento proletario schiacciando i lavoratori immigrati, specie quelli di fede islamica.(4)

La formazione di grandi aggregati statali è imposta dall’evoluzione della struttura produttiva capitalistica mondiale e i lavoratori possono difendersi dalla stretta operata da questi mostri in formazione non certo sognando di tornare indietro, non certo regredendo, nelle relazioni tra capitale e lavoro salariato, dall’orizzonte nazionale a quello regionale.

I lavoratori d’Italia possono respingere i diktat della Ue solo puntando sull’organizzazione comune con i lavoratori degli altri paesi europei e con i lavoratori immigrati per la difesa dei comuni interessi contro tutti i governi europei e contro la mano "invisibile" dei "mercati internazionali" che li ispira. Questo richiede di impostare una battaglia per parificare al rialzo le condizioni proletarie entro i confini europei, per mettere fine alle discriminazioni e allo sfruttamento differenziale sfruttati torchiato, in modi e gradi diversi attraverso la mediazione di altri blocchi statali, dallo stesso meccanismo che colpisce in Italia e in Europa: da un lato, l’insieme dei lavoratori degli Usa; dall’altro lato, l’insieme dei proletari e dei diseredati del Sud e dell’Est del mondo, che gli Usa, l’Ue e la Nato (pur in contrasto tra loro) puntano a schiavizzare, anche con le loro missioni "umanitarie" e le loro sanzioni, per rafforzare quella spirale di concorrenza al ribasso tra proletari dei vari continenti che il capitale mondializzato e i governi occidentali usano come arma di ricatto contro gli stessi lavoratori occidentali. Ne è un esempio quello che è successo in Ucraina: gli Usa e l’Ue sono intervenuti in Ucraina con politiche concorrenti ma Washington e Berlino hanno mirato, per vie diverse, allo stesso obiettivo anti-proletario, la conquista del pieno controllo sulle risorse e sulla manodopera dell’Ucraina.(5) Ne è un altro esempio la politica del governo Renzi in Africa e in Medioriente (Libia, Algeria, Mozambico, Israele, Iraq e Siria).

Come proseguire la mobilitazione dell’autunno 2014

La politica del governo Renzi va, quindi, respinta dalla A alla Z e non, come sostengono le direzioni della Cgil e della Fiom, corretta e migliorata. Questo indirizzo di Camusso e di Landini, che sta, di fatto, intralciando la stessa organizzazione di una lotta dispiegata contro il Jobs Act, è legata all’illusione di poter combinare il rilancio della competitività delle aziende italiane (che è l’obiettivo dichiarato di Renzi) con la difesa dei diritti dei lavoratori. Camusso e Landini non criticano la volontà di "rimettere in pista" l’azienda Italia, ma il modo in cui il governo Renzi vuole farlo.

Per questo la Cgil e la Fiom hanno operato, nella primavera 2014, quella iniziale apertura di credito verso Renzi che ha ottenuto l’unico risultato di rendere il governo più sicuro, aggressivo e arrogante. Ed è per questo che le stesse successive mobilitazioni e gli scioperi dell’autunno 2014 non sono stati finalizzati a combattere il governo, non sono stati finalizzati a costruire la forza di piazza capace di fermare il Jobs Act nell’unico modo possibile e cioè licenziando il governo che se ne è fatto alfiere, ma a trovare un compromesso con esso per indirizzarlo verso un’impossibile armonia tra il rilancio della competitività e la tutela dei diritti dei lavoratori.

Il problema è che per questa strada, alla fine, ha e avrà sempre ragione il Renzi di turno. Perché, al di là di ogni chiacchiera, la ricerca della competitività non può essere scissa dalla spremitura dei lavoratori, dall’erosione dei loro diritti, dalla loro crescente subordinazione ai soffocanti ritmi aziendali, dalla spietata messa in concorrenza tra lavoratori di aziende e nazioni diverse, dalla gerarchizzazione dei lavoratori per nazionalità e razza. Come ha detto Renzi: il "Jobs Act" è l’intervento più di sinistra che è compatibile con il rilancio del capitale nazionale entro i vincoli dei "mercati mondiali", a cui tutti, moderati e laburisti del partito democratico, destra e "sinistra", ci inchiniamo.

Nelle mobilitazioni in corso va, dunque, data battaglia per far emergere un orientamento politico che sappia predisporre il terreno a un movimento di lotta generale per far cadere con la forza della piazza il governo Renzi e per legare le mani, su modificati rapporti di forza, a qualsiasi altro nuovo governo dovesse sostituirlo. Lo si potrà fare con un’iniziativa di massa nella quale prenda corpo l’impegno a mettere in pista una linea sindacale e politica che faccia i nostri esclusivi interessi di classe lavoratrice mondiale, che lavori su questa linea per ricomporre il mondo del lavoro che il capitale ha frammentato, per ritrovare quella forza che sola può permettere di estendere ai giovani e agli immigrati le tutele che il padronato vorrebbe eliminare anche per coloro che ancora ne godono oggi. Particolare attenzione va, a questo proposito, rivolta verso i giovani lavoratori che non sono stati coinvolti finora dalla mobilitazioni e che potrebbero illudersi di trovare nelle promesse di Renzi un salvagente dalla precarietà e dalla disoccupazione.

La lotta contro il Jobs Act e contro il governo Renzi sollecita e richiede, quindi, un impegno per definire e mettere in campo un’alternativa a tutto campo alle mille varianti, di destra e di "sinistra", del partito unico del capitale. Un’alternativa che contrapponga alla devastante realtà del mercato la prospettiva di una società che pieghi le forze produttive non al perseguimento dello sfruttamento capitalistico ma ai bisogni, al benessere e alla felicità degli esseri umani, in una parola al comunismo! Più prenderà corpo questa battaglia politica complessiva, più essa favorirà le condizioni per la formazione del partito di classe che questa stessa battaglia richiede, e più le stesse lotte di resistenza dei lavoratori trarranno coraggio, forza e determinazione. Sia quella sul Jobs Act che quelle settoriali o aziendali in corso alle Acciaierie di Terni o nelle aree industriali di crisi della Sardegna o nei call center, che, parzialmente intrecciate, hanno sfilato nelle strade di Roma nella manifestazione nazionale del 12 ottobre 2014.

Note

(1) L’esempio dell’industria aeronautica è significativo. Per sottrarsi ai condizionamenti del monopolio dei giganti Usa (Boeing, McDonnell Douglas, Lockeed Martin), un gruppo di paesi europei ha promosso la formazione di un’impresa autonoma, l’Airbus. I principali azionisti sono lo stato tedesco, quello francese, quello spagnolo e alcune multinazionali europee (ad esempio Daimler). Il gruppo impiega 55 mila dipendenti e sta trovando un fiorente mercato nel Sud-Est asiatico. Capitalisticamente parlando, il programma di Merkel non fa una piega, semmai rimane debole lo sforzo della Germania di dotare l’Europa di una politica estera e militare comune, e autonoma da quella degli Stati Uniti.

(2) Nel luglio 2014 Renzi ha compiuto una visita ufficiale in Mozambico (prima volta di un primo ministro italiano), in Congo e Angola. Renzi è stato accompagnato dal nuovo amministratore delegato di Finmeccanica (Moretti) e dal nuovo amministratore delegato dell’Eni (Descalzi). In occasione della visita, Descalzi ha annunciato che l’Eni ha scoperto in Mozambico un enorme giacimento di gas e che l’Eni ha intenzione di investire 50 miliardi di euro nei prossimi 6 anni nello sfruttamento del giacimento. Descalzi e Renzi hanno sottolineato il valore delle importazioni di gas e di petrolio dai paesi africani per ridurre la dipendenza italiana dal gas e dal petrolio della Russia. Nel corso della visita, Renzi ha dichiarato che "l’Africa per l’Italia e per l’Europa deve essere una priorità", che "ci vuole più Africa nella politica estera italiana" (dal Sole24Ore del 20 luglio 2014). Più Africa, cioè maggiore partecipazione italiana alla rapina delle risorse del continente, alle manovre finanziarie-diplomatiche dell’Occidente per riprendere il totale controllo del continente.

(3) Nel 2013 le esportazioni italiane verso la Federazione Russa hanno raggiunto il valore di 10,4 miliardi di euro. L’Italia è il quinto paese esportatore verso la Russia. Le sanzioni Usa e Ue alla Russia colpiscono alcune aziende italiane anche indirettamente: accade a quelle che forniscono semi-lavorati e pezzi di macchine ad aziende tedesche che esportano a loro volta in Russia.

(4) Su questo versante il "Movimento-5Stelle" non è meno fetido della Lega di Salvini, come mostrano ad esempio le prese di posizione di Grillo e Casalleggio contro lo "ius soli", contro l’abolizione del reato di clandestinità e a favore della proposta della Lega Nord di escludere gli immigrati dalla fruizione degli 80 euro di Renzi. In risposta alla presentazione da parte di due senatori M5S di un emendamento per l’abolizione del reato di clandestinità nell’ottobre 2013, Grillo e Casaleggio rilasciarono questa dichiarazione: "La loro posizione è del tutto personale. (...) L’abolizione del reato di clandestinità non faceva parte del programma votato da otto milioni e mezzo di elettori. (...) Se durante le elezioni avessimo proposto l’abolizione del reato di clandestinità, il M5S avrebbe ottenuto percentuali da prefisso telefonico... Nel merito questo emendamento è un invito agli emigranti dell’Africa e del Medioriente a imbarcarsi per l’Italia. (...) Quanti clandestini siamo in grado di accoglliere se un italiano su otto non ha i soldi per mangiare?" Questa posizione razzista non è un tradimento del programma originario di Grillo e dei CinqueStelle ma la coerente applicazione di esso. Altrettanto si può dire dei buoni rapporti di Grillo con il britannico Farage, con la francese Le Pen e con il leghista Salvini.

(5) Si veda l’articolo pubblicato sul n. 80 del Che fare intitolato: "L’intervento della Ue e degli Usa in Ucraina è un’aggressione ai proletari dell’Ucraina, della Russia, della Ue e del mondo intero". L’articolo è consultabile sul nostro sito.

Che fare n.81 dicembre 2014 - aprile 2014

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