Che fare n.81 dicembre 2014 - aprile 2014
I contrasti tra il Vietnam e la Cina nel mar Cinese e la lunga mano degli Usa
Maggio 2014. La compagnia petrolifera di stato cinese Cnpc monta una piattaforma marittima per prospezioni petrolifere al largo del mar Cinese meridionale nei pressi di un arcipelago chiamato Xisha dalla Cina e Paracelso dalla diplomazia occidentale. Il Vietnam, che rivendica la sovranità sull’arcipelago da esso chiamato Hòang Sa, protesta. L’arcipelago si trova a 300 chilometri di distanza dalla costa cinese e dalla costa vietnamita.
Qualche giorno dopo in alcune città del Vietnam si accendono manifestazioni popolari di protesta contro l’iniziativa della compagnia cinese. I manifestanti attaccano alcune imprese ritenute di proprietà cinese, e risultate, poi, oltre che cinesi, anche sudcoreane. Negli scontri muoiono due operai cinesi. Il governo di Pechino organizza il rapido rimpatrio di circa 7000 lavoratori e tecnici in trasferta in Vietnam. Ancora qualche giorno e il governo vietnamita stempera i toni, offrendo risarcimenti e sgravi fiscali alle aziende distrutte o danneggiate e ribadendo la volontà di mantenere i buoni rapporti che lo legano a Pechino e agli altri paesi dell’area. Nel luglio 2014 la Cnpc rimuove la piattaforma.
L’episodio non è una nuvola passeggera né discende principalmente dalle particolarità della situazione dell’Estremo Oriente. L’episodio segue episodi analoghi avvenuti negli ultimi anni tra la Cina e il Giappone e tra la Cina e le Filippine. In questi episodi sono intervenuti anche gli Stati Uniti, affermando che avrebbero difeso la libertà di navigazione nel mar Cinese meridionale (a 12 mila chilometri dalla loro costa) e sostenuto i paesi dell’area non intenzionati a subire le "prepotenze della Cina". Nel mar Cinese meridionale passano vitali rotte marittime tra il Giappone, l’Estremo Oriente, l’India, l’Africa, il Golfo Persico e il canale di Suez.
I due terzi del commercio marittimo planetario transitano in quel braccio di mare. L’ offerta di aiuto della Casa Bianca è stata rivolta anche al Vietnam, con l’invito a mettere da parte la storica contrapposizione e a iniziare una nuova epoca di cooperazione economica e diplomatica a favore del progresso economico e della pace regionale. La Casa Bianca parla con lingua biforcuta: gli Usa vogliono, in realtà, ridurre Hanoi a una pedina da manovrare e scagliare contro la potenza capitalistica emergente cinese e contro i lavoratori vietnamiti, cinesi e asiatici.
La classe dirigente vietnamita sta cautamente accogliendo l’offerta di collaborazione degli Usa ed è persino giunta a siglare accordi di cooperazione militare con gli Usa. L’incidente del maggio 2014 si colloca e va considerato in questo contesto.
I lavoratori del Vietnam, impegnati in un combattivo ciclo di scioperi per spingere in alto i loro salari, hanno interesse a non seguire la propria classe dirigente nel gioco di azzardo che essa sta intavolando con gli
Usa e che li porterà, li sta già portando, alla contrapposizione con i loro naturali alleati di classe: i lavoratori degli altri paesi asiatici, compresi quelli cinesi.
Se si tiene presente quello che fecero gli Usa tra la fine della seconda guerra mondiale e il 1975 contro la lotta di liberazione del popolo vietnamita, il comportamento aperturista della classe dirigente vietnamita verso le proposte Usa può sembrare sorprendente. Non lo è. Esso è invece il coerente sviluppo della politica antimperialista di Ho Chi Minh nella nuova situazione interna e internazionale che si è venuta a creare dall’ultimo decennio del XX secolo.
All’inizio degli anni novanta del XX secolo, dopo 15 anni dalla conquista della piena indipendenza, il Vietnam aveva orgogliosamente sanato alcune delle più gravi piaghe lasciate dalla dominazione coloniale francese e dall’aggressione statunitense, e pur tuttavia versava in gravi difficoltà economiche. Grazie alla cooperazione "socialista" il blocco "socialista" e soprattutto con l’Urss (1), la classe dirigente vietnamita aveva saputo mettere a frutto l’energia popolare sprigionata dalla lotta antimperialista per avviare la formazione del mercato nazionale, per impiantare alcune industrie di base nella siderurgia e nella meccanica e nella chimica, per ricostruire e ampliare la rachitica rete infrastrutturale (ferrovie, strade, canali fluviali, porti, rete elettrica) lasciata dalla mano "civilizzatrice" occidentale, per ampliare l’area investita dalla riforma agraria a favore dei piccoli coltivatori e delle cooperative, per disinquinare il territorio dai terribili effetti dei bombardamenti Usa (ad esempio dal cosiddetto "agente arancione" e dalle mine) e renderlo utilizzabile a fini abitativi e agrari, per costruire un sistema scolastico e sanitario rivolto a tutta la popolazione.
Questa politica di stampo democratico-borghese aveva condotto in pochissimi anni a risultati rilevanti in campo economico e sociale, che mettono alla gogna l’opera "civilizzatrice" in Vietnam dell’Occidente capitalistico. Per farsene un’idea, sono sufficienti due numeri. Nel 1950 la vita media in Vietnam era di 40 anni. Nel 1990 era passata a 63 anni. Nel 1950 il tasso di analfabetismo era elevatissimo, nel 1990 era ridotto al 6% per la fascia di età 15-24 anni e al 15% per la fascia d’età superiore ai 15 anni.
Pur in presenza di questi risultati, nell’ultimo decennio del XX secolo il Vietnam era un paese in gravi difficoltà. La rottura dei rapporti con la Cina (nel frattempo impegnatasi nel matrimonio di interesse con gli Usa) e l’implosione dell’Urss avevano privato la giovane pianticella del capitalismo vietnamita della sua serra protettiva prima ancora che il nuovo Vietnam fosse in grado, con le sue forze, di navigare nel mare del mercato mondiale dominato dai monopòli occidentali.
In questa situazione, la classe dirigente vietnamita non si chiuse a riccio, come accadde in altri paesi del blocco cosiddetto "socialista": anche in virtù delle risorse economiche e strategiche a disposizione del paese e dell’influsso morale ancora vivissimo derivante dalla storica vittoria sugli Usa, la classe dirigente vietnamita cercò invece di inserirsi nel processo di mondializzazione appena avviato in Asia e soprattutto in Cina.
Il "Doi Moi"
Questo processo continentale era sostenuto da spinte sociali diverse e divergenti. Da un lato, vi erano le multinazionali occidentali e il loro interesse verso i bassi salari e la disciplina dell’enorme massa di proletari "offerta" dal continente asiatico, anche in virtù della modernizzazione sociale suscitata dalle vittoriose rivoluzioni antimperialiste dei decenni precedenti che il capitale occidentale aveva osteggiato. L’obiettivo delle multinazionali era duplice: aumentare il tasso complessivo dei loro profitti grazie al doppio sfruttamento delle masse lavoratrici asiatiche e spingere nell’angolo il proletariato occidentale mettendolo in concorrenza con quello asiatico di recente costituzione.
L’iniziativa del capitale imperialista, resa tecnologicamente possibile dalle innovazioni in corso nella microelettronica, nelle comunicazioni e nei trasporti, s’incontrò, contraddittoriamente, con altre due spinte sociali: quella delle principali borghesie dell’Asia orientale di voler continuare in simbiosi con le multinazionali lo sviluppo capitalistico avviato nell’era della guerra fredda al riparo dal diretto intervento dell’Occidente; quella di centinaia e centinaia di milioni di proletari e semplici contadini che, dopo essersi liberati dal colonialismo, vedevano in questa collaborazione e nella conseguente industrializzazione dei loro paesi un’altra tappa della loro "lunga marcia" di riscatto dall’inferno coloniale.
La classe dirigente del Vietnam cercò di superare, dicevamo, le difficoltà in cui venne a trovarsi alla fine del XX secolo inserendosi in questa epocale trasformazione sociale del continente asiatico. Vi si inserì, forte delle acquisizioni democratico-borghesi precedenti, con una serie di riforme liberalizzatrici denominate "Doi Moi" (Nuovo corso).(2)
Per agganciare l’incipiente boom economico cinese e asiatico, per attrarre gli investimenti esteri e, nello stesso tempo, evitare di esserne travolta, per portare avanti nelle nuove condizioni il tradizionale obiettivo risorgimentale-stalinista di sviluppare il capitale nazionale e conquistargli uno spazio crescente sul mercato mondiale, la classe dirigente vietnamita ha dovuto modificare la politica centralista precedente, caratteristica di ogni paese giunto in ritardo sulla via dell’industrializzazione capitalista, rendere la gestione delle imprese (anche quelle rimaste statali) libera di operare secondo il criterio dell’attivo di bilancio, incentivare l’iniziativa privata in campo agricolo per elevare le rese delle colture e permettere il trasferimento di decine di milioni di persone (anche a intermittenza) verso i costituendi insediamenti industriali, permettere la libera fluttuazione dei prezzi e della moneta nazionale (il dong).(3)
Queste misure, che con la loro applicazione hanno permesso alle multinazionali di mietere da allora favolosi profitti, sono state accompagnate dallo sforzo del gruppo dirigente vietnamita di indirizzare i flussi degli investimenti (esteri e interni) verso lo sviluppo di un apparato industriale diversificato e "completo".
In parziale contrasto con i piani delle istituzioni finanziarie internazionali e delle multinazionali, il governo e la direzione del partito "comunista" al potere hanno, inoltre, cercato di bilanciare i costi sociali dell’operazione e le disomogeneità territoriali da essa spontaneamente indotta (4).
La combinazione di queste spinte, interne ed esterne al paese, ha portato il Vietnam ad una crescita economica rilevante e duratura. Per 25 anni il prodotto interno lordo è cresciuto al ritmo medio del 6,5%. L’economia del Vietnam, pur con due terzi dei suoi 90 milioni di abitanti (la metà al di sotto dei 30 anni) ancora legati alle campagne, è oggi trainata da un settore manifatturiero in espansione in cui sono impiegati dieci milioni di operai.(5) Alle tradizionali esportazioni di materie prime (caucciù, legno, petrolio) e di alimenti (riso, caffè, pesce), che raggiungono il 25% del valore delle merci piazzate all’estero (6), il Vietnam ha aggiunto quelle degli abiti (15% del valore delle esportazioni), delle calzature (7%) e dei prodotti elettronici (15%) (7). Oltre che da succursali delle multinazionali, nelle quali è impiegato, in alcuni casi con stabilimenti da 3 a 15 mila operai, il 3% della forza lavoro industriale, il settore manifatturiero è composto soprattutto da piccole e medie aziende che operano in regime di sub-appalto per le grandi imprese occidentali, sudcoreane, giapponesi e cinesi.
A segnare la struttura manifatturiera del paese è l’integrazione di essa con quella della Cina, con cui il Vietnam, dopo la guerra del 1979, ha ristabilito piene relazioni diplomatiche nel 1991. Dopo una prima fase in cui Pechino ha venduto tessuti e semilavorati tessili che le imprese vietnamite provvedevano a confezione ed esportare, da una decina di anni le imprese cinesi stanno delocalizzando segmenti più ampi dell’industria tessile e calzaturiera per beneficiare della differenza tra i salari vietnamiti e quelli, in troppo rapida crescita per i gusti dei capitalisti, delle città cinesi.
Sono inoltre cinesi le imprese che gestiscono il 90% dei lavori di costruzione delle infrastrutture, dei quartieri residenziali, dei parchi industriali che fervono in Vietnam. Pur se i salari vietnamiti continuano ad essere tra i più bassi dell’Estremo Oriente (in media 110 dollari al mese circa), il "miracolo" del Vietnam ha permesso, anche grazie al ciclo di scioperi iniziato nel 2007, un miglioramento del tenore di vita di larghe fasce della popolazione lavoratrice, rurale e urbana. Il tasso di povertà (usando la soglia ufficiale della Banca Mondiale) è diminuito dal 58% al 15%: 35 milioni di persone sono uscite dalla povertà.
Tutti soddisfatti, dunque, e tutti concordi, capitalisti e dirigenti vietnamiti, sfruttati vietnamiti, investitori occidentali, borghesi cinesi, contadini asiatici? Non proprio...
Il calcolo della classe dirigente vietnamita
Anche le imprese statunitensi sono risultate, ovviamente, interessate all’Eldorado vietnamita. E questo è stato uno dei motivi che hanno condotto gli Stati Uniti ad allentare progressivamente dal 2000 l’embargo introdotto sul Vietnam nel 1975- 1978. A questo motivo se n’è, però, progressivamente aggiunto un altro, diventato quello prioritario, man mano che gli Usa si sono resi conto che, per motivi discussi più volte nei numeri precedenti del nostro giornale, l’ordine capitalistico mondiale da essi guidato è messo in pericolo dall’ascesa della potenza capitalistica della Cina e dall’atteggiamento, tutt’altro che remissivo, con cui le masse lavoratrici asiatiche stanno partecipando alla mondializzazione capitalistica.
La strategia messa a punto dagli Stati Uniti (dai neocons e poi da Obama) per contenere la "presunzione" dei due (antagonistici) sfidanti punta ad accerchiare la Cina, a contrapporle (con le lusinghe e con le minacce) gli stati e i popoli vicini, a seminare diffidenza e odio tra i proletari delle varie nazioni asiatiche. Gli Usa hanno individuato nel Vietnam un paese chiave per questa strategia del "divide et impera".
I neocons e Obama hanno cominciato a cianciare del pericolo cinese incombente sul povero Vietnam, a decantare i successi a cui sarebbe destinato il Vietnam se non ci fosse il lupo cinese, a solleticare l’ambizione regionale della classe dirigente vietnamita, a lanciare la proposta di un’alleanza organica tra i due paesi e a proporre l’inserimento del Vietnam nel blocco filo-statunitense dell’Estremo Oriente comprendente già il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia e le Filippine. Per far dimenticare il passato e invogliare la classe dirigente e il popolo del Vietnam ad accettare l’alleanza, la Casa Bianca ha usato i buoni uffizi della ricca e politicamente conservatrice diaspora vietnamita negli Usa (un milione di persone!), ha offerto l’aiuto per l’ingresso del Vietnam nel Wto, ha prospettato la cessione di riservate tecnologie nucleari (simile a quella proposta contemporaneamente all’India), ha lanciato alcune iniziative di collaborazione tra le forze armate dei due paesi, soprattutto in campo marittimo.
La classe dirigente vietnamita ha raccolto la proposta di archiviare il passato e accettato alcune offerte statunitensi. Il Vietnam ha, per ora, respinto l’organica alleanza voluta dagli Usa. Ciò non toglie che dal 2005 le relazioni economiche e diplomatiche e militari tra i due paesi hanno conosciuto una storica svolta fino ad arrivare alla collaborazione militare nel campo marittimo, quello direttamente legato al confronto del Vietnam con la Cina.
La classe dirigente vietnamita ha iniziato a collaborare con gli Usa, pur senza diventarne un organico alleato, per due ordini di motivi. Da un lato, il Vietnam aveva bisogno di accedere completamente al circuito finanziario e commerciale internazionale da cui stava rimanendo parzialmente escluso per il potere di veto opposto dagli Usa e il peso di questo veto nelle istituzioni finanziarie internazionali.
Dall’altro lato, la classe dirigente vietnamita intendeva e intende usare le buone relazioni con Washington per bilanciare il peso della collaborazione con Pechino e per spuntare migliori condizioni nelle contrattazioni con la Cina e con le imprese cinesi. La classe dirigente vietnamita è convinta che riuscirà a condurre questo doppio gioco senza perdere la propria politica di non-allineamento, che esso l’agevolerà nel portare avanti il tradizionale programma di sviluppo del capitale nazionale e che questa politica multipolare le aprirà la strada al ruolo di potenza regionale a cui la classe dirigente vietnamita, come le altre borghesie regionali, aspira.(8)
Ammesso e non concesso che la classe borghese vietnamita ricaverà effettivi vantaggi dall’azzardata politica estera che ha ingaggiato, tale politica nuoce gravemente agli interessi dei lavoratori del Vietnam. La difesa di questi interessi non richiede solo l’ondata di scioperi per strappare aumenti salariali diretti e indiretti che i lavoratori vietnamiti stanno conducendo da quasi dieci anni, ma anche il collegamento di queste lotte sindacali con la denuncia della politica intrapresa dagli Usa in Vietnam e delle conseguenze delle crescenti rivalità borghesi tra le classi dirigenti dell’area, quelle vietnamita e cinese comprese.
Sappiamo bene che l’efficacia della prospettiva di portare avanti il riscatto nazionale e sociale dei lavoratori vietnamiti e asiatici attraverso la costruzione di capitalismi "indipendenti" e concorrenti sul mercato mondiale sembra essere avvalorata dalla storia delle lotte antimperialiste e dai recenti successi del Vietnam e della Cina. Ma questa è una distorsione ottica. Sorvoliamo, per ora, sul fatto che questa prospettiva ha, in realtà, fatto sentire le sue contro-indicazioni anche nella fase eroica della lotta per l’indipendenza, come si vide, ad esempio, in occasione della guerra del 1979 tra la Cina e il Vietnam: oggi essa avrebbe effetti dirompenti, all’immediato nella concorrenza che si sta scatenando tra i salariati dei diversi paesi nell’attrarre gli investimenti e in futuro nell’inevitabile guerra destinata a scatenarsi in Estremo Oriente per l’impossibilità di comporre pacificamente gli interessi delle varie classi in lizza.
La vera forza che, in realtà, permise alla lotta degli sfruttati del Vietnam di uscire dall’inferno coloniale fu solo e soltanto la solidarietà che essi ricevettero dagli sfruttati degli altri paesi e, almeno da un certo momento in poi e parzialmente, dai lavoratori degli Usa. È vero che questa solidarietà si espresse (distorta) nella prospettiva delle "vie nazionali al socialismo", ma fu essa l’elemento decisivo che aiutò i contadini e gli operai vietnamiti a sconfiggere la potenza finanziaria e termo-nucleare degli Usa.
Per continuare a migliorare la propria condizione e i propri diritti, i lavoratori del Vietnam e dell’Estremo Oriente non hanno interesse a proseguire su questa strada o su quella, sostanzialmente simile, portata avanti dalla borghesia cinese con l’intento di costruire un ordine capitalistico mondiale multipolare. Essi hanno interesse a legare le iniziative sindacali in corso e l’opposizione alla politica estera del governo di Hanoi da mettere in campo con lo sforzo per dissotterare una "nuova" via, quella del socialismo internazionale di Lenin, quella a cui si legò il primo Ho Chi Minh, quando egli era un giovane marinaio sulle navi passeggeri e mercantili che, negli anni dieci del XX secolo, facevano la spola tra l’Asia e l’Europa.
Note
(1) Il "blocco socialista" era per lo più composto dai paesi dell’Est Europa che intorno all’Unione Sovietica davano vita al Patto di Varsavia e al Comecon. Si trattava di due alleanze (militare la prima, economica la seconda) a carattere difensivo con cui questi paesi capitalistici tentavano di tutelarsi dall’invadenza dell’Occidente.
(2) Sul "socialismo reale" rimandiamo ai materiali raccolti nel quaderno "Dove va l’Urss?" (1990) e nel libro "Jugoslavia: una guerra del capitale" (1995). Il quaderno e il libro possono essere richiesti al nostro indirizzo al prezzo di 5 euro.
(3) Le famiglie contadine sono autorizzate a coltivare la terra autonomamente, possono consumare il raccolto e vendere le eccedenze. Sono incoraggiate le imprese private (fino a 10 dipendenti). Le imprese statali possono e devono muoversi in ambito economico senza contare sul paracadute del piano quinquennale.
(4) M. Cerimele "I costi sociali dello sviluppo. La lotta alla povertà" in Orlandi R. (a cura di),
Oltre guerra e pace. Il Vietnam nel terzo millennio, Il Mulino, Bologna, 2010.(5) L’agricoltura in Vietnam riveste comunque una grandissima importanza. E non a caso gli investimenti esteri si stanno da ultimo dirigendo, oltre che nel settore manifatturiero, anche nel quello agricolo.
(6) Il Vietnam è il secondo esportatore di riso dopo la Thailandia e il terzo esportatore di caffè dopo il Brasile e la Colombia.
(7) Hanoi, anche tramite cospicui investimenti in Laos e Cambogia, si sta di fatto candidando a guida di una possibile integrazione economica della penisola indocinese e dell’area del basso Mekong.
Che fare n.81 dicembre 2014 - aprile 2014
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA