Che fare n.80 maggio 2014 - ottobre 2014
Bangladesh: uno sviluppo industriale ancora incerto
Nei due precedenti numeri di questo giornale abbiamo succintamente dato conto delle grandi ondate di lotta di cui si sta rendendo protagonista la giovane e combattiva classe operaia del paese asiatico. Vediamone sinteticamente le basi materiali e strutturali. Il settore manifatturiero contribuisce al Pil del paese per oltre il 18% ed impiega circa 6 milioni di lavoratori (cifra da prendere con le pinze poiché è molto esteso il settore "informale dove ogni censimento è alquanto complicato). Storicamente hanno una certa rilevanza la lavorazione della juta, della pelle, del tè e della canna da zucchero. Recentemente (anche con l’intervento cinese) si sta sviluppando l’industria dei fertilizzanti e quella farmaceutica. Ma il vero e assoluto perno attorno al quale sta ruotando lo sviluppo manifatturiero della giovane nazione è senza alcun dubbio rappresentato dal settore dell’abbigliamento e tessile che in venti anni ha conosciuto un autentico boom (il valore in dollari delle sue esportazioni è passato dai circa 600 milioni di dollari degli anni ‘90 agli 11 miliardi del 2011).
Si tratta di un settore che dipende quasi integralmente dagli investimenti esteri e dalle esportazioni. I salari sono bassissimi (nonostante i recenti aumenti imposti dalle lotte continuano ad essere i più bassi del continente) e gli orari lunghissimi (10-16 ore). Praticamente nulle le misure di sicurezza (le stragi di operai sono una costante). Su un tale regime di super-sfruttamento si fondano non solo e non tanto i profitti degli imprenditori locali, ma soprattutto quelli delle grandi multinazionali della moda e dello sport per cui tali industrie operano come contoterziste.
I grandi marchi occidentali (tipo Adidas e Nike) la fanno da padrone, ma recentemente anche le imprese cinesi (impegnate in patria in una ristrutturazione che punta sull’ammodernamento tecnologico) hanno iniziato a investire e a delocalizzare in Bangladesh alcune produzioni ad "alta intensità di manodopera".
Nel campo dell’abbigliamento agiscono oltre 5 mila aziende e lavorano 4 milioni di operai. L’80% è costituito da giovani e giovanissime donne che gettate violentemente nella fornace del moderna impresa capitalistica stanno imparando velocissimamente a rivendicare con la lotta collettiva i propri diritti e a conquistare per tal via un protagonismo e una dignità sociale prima sconosciuta.
Il tessile può fare e sta facendo da volano. Ma l’industrializzazione di un paese non può basarsi solo su di esso. Si tratta tra l’altro di un settore molto volatile (le produzioni possono essere spostate da un paese ad un altro con relativa facilità e in questo campo la concorrenza di vicini come Vietnam, Indonesia e Cambogia si fa sentire) ed inoltre le aziende bangladesi sono per lo più specializzate solo nell’assemblaggio e nella confezione degli abiti. Proprio per questo i governi di Dacca stanno tentando, non senza difficoltà, di indirizzare gli investimenti esteri anche verso altri comparti e, soprattutto, di legare una parte di tali investimenti alla acquisizione di tecnologie e know-how. A tal fine si sta cercando di dare maggiore impulso alla creazione di "zone economiche speciali" (zone con un regime fiscale estremamente favorevole agli investitori), ma soprattutto si continua a puntare sull’appetibilità di una manodopera giovane, numerosissima (stimata intorno ai 75 milioni) e poco costosa (1).
Il Bangladesh sta quindi tentando di consolidare e di rendere un tantino più "indipendente" il proprio sviluppo capitalistico. Che i lavoratori del paese possano vedere nell’avanzamento del "proprio" capitalismo nazionale un cavallo su cui puntare è (visti soprattutto gli attuali rapporti di forza internazionali tra proletariato e borghesia) più che normale. È però fondamentale che essi lo facciano senza dismettere la via della lotta e dalla mobilitazione.
Non solo perché questa è l’unica strada con cui dar corpo alle proprie aspirazioni, ma anche perché è l’unica via per la quale la giovane classe operaia bangladese potrà contribuire alla costruzione di ponti verso il proletariato internazionale (a cominciare da quello asiatico) con cui il capitalismo mondializzato la sta e la vuole mettere in una crescente e dolorosissima competizione al ribasso.
Nota
1) A tal proposito è indicativo come l’istituto statale per gli investimenti cerchi di invogliare finanziamenti esteri verso il settore elettronico sottolineando come nel paese si possono costruire semiconduttori impiegando "lavoro a domicilio".
Che fare n.80 maggio 2014 - ottobre 2014
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