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Che fare n.80 maggio 2014 - ottobre 2014

Bangladesh: un paese ancora sostanzialmente agricolo

Al momento dell’indipendenza circa l’80% della popolazione attiva era impiegata nelle campagne. Oggi, nonostante tale quota sia scesa a circa 41%, il settore agricolo continua ad avere un peso sociale ed economico determinante e due terzi del territorio nazionale sono adibiti alle coltivazioni (juta, tè, riso e senape la fanno da padroni).

La grande proprietà (che è nelle mani di compagnie straniere, ma anche di imprese e piccoli latifondisti locali) domina in alcuni campi chiave.

Innanzitutto in quello, prezioso per l’export, delle piantagioni di tè, dove la raccolta delle foglie viene ancora effettuata manualmente da circa duecentomila braccianti (quasi integralmente donne) sottoposti a un regime di durissimo sfruttamento.

Ma accanto alla grande è molto presente anche la piccola e, soprattutto, piccolissima proprietà. A determinarne la diffusione sono state tanto le caratteristiche orografiche e idrologiche, quanto la storica combattività delle masse rurali della regione. Fattori che, combinati tra di loro, hanno in un certo qual modo frenato l’espansione del latifondo e favorito la parcellizzazione delle terre.

Da questi, spesso microscopici, appezzamenti a fatica traggono elementare sostegno le famiglie di decine di milioni di contadini formalmente "indipendenti" che, per andare avanti, sono non di rado anche costretti a lavorare "a giornata" nei campi dei grandi possidenti. Ma nonostante le condizioni di miseria in cui versa il mondo rurale (spesso mancano acqua potabili ed elettricità, mentre i servizi sanitari sono scarsi e poco efficienti) la piccolissima proprietà terriera rappresenta comunque un elemento di stabilità sociale per il paese. Se questa venisse a saltare le grandi e già sovraffollate città come Dacca e Chittagong verrebbero letteralmente sommerse dalla marea umana proveniente dalle campagne. Inoltre l’attuale sviluppo industriale non sarebbe neanche lontanamente in grado di assorbire una quota sufficiente della manodopera così "liberata".

Il Bangladesh si trova dunque dinnanzi ad una problematica di difficilissima risoluzione. La sua agricoltura è troppo arretrata, troppo frammentata e troppo poco produttiva (impiega infatti oltre il 40% della manodopera, ma contribuisce con meno del 20% alla formazione del prodotto interno lordo) per permettere una crescita "coerente" del paese. A tal fine sarebbe necessario incamminarsi verso una "razionalizzazione" del settore che ne aumentasse notevolmente la produttività e ne restringesse l’impiego di manodopera. Ma un tale passo rischierebbe di generare una situazione socialmente esplosiva e incontrollabile.

Si tratta di un "problema" che affonda le radici nei meccanismi di funzionamento del capitalismo internazionale e delle sue gerarchie, con cui si trovano a impattare quasi tutti i paesi (giganti della portata di Cina e India a modo loro inclusi) che dopo secoli di schiacciamento coloniale puntano a dotarsi di un "proprio" sviluppo industriale capitalistico e che, proprio su questo punto, si giocano parecchio. Nel caso del Bangladesh il tutto è reso ancor più grave dalla ristrettezza geografica del territorio e dalla sua impressionante densità abitativa

Che fare n.80 maggio 2014 - ottobre 2014

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