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Che fare n.80 maggio 2014 - ottobre 2014

Bangladesh: dalla fine della dominazione britannica ai giorni nostri

L’anno scorso, il 24 aprile 2013, in Bangladesh crollò un edificio nel quale erano collocati i reparti di alcune fabbriche tessili. Morirono più di 110 operai e più di 2000 rimasero feriti.

La grande stampa ne parlò per alcuni giorni. Poi il silenzio. Da allora, il Bangladesh ha visto, però, importanti novità. La principale è stata la poderosa lotta dei lavoratori e delle lavoratrici tessili dell’autunno 2013, di cui abbiamo parlato nel numero precedente del che fare.

La lotta dei lavoratori del Bangladesh sta impattando con un apparato di sfruttamento e di dominio politico tutt’altro che locale. Agli interessi economici delle multinazionali (i veri burattinai dei padroni e dei padroncini locali) si intrecciano i piani geopolitici coltivati in Bangladesh (puntando su questo o quel settore della "classe politica" del paese) dall’Occidente, dall’India e dalla Cina.

Alla discussione su come affrontare questa duplice morsa può giovare una riflessione sulla storia del Bangladesh e sulla traiettoria che l’ha portato a diventare un importante tassello dello scontro internazionale tra gli stati capitalistici e della lotta tra le classi in Asia e nel mondo. A questa riflessione sono interessati anche i lavoratori d’Italia, le cui sorti dipendono, molto più di quanto essi non credano, da quello che accade in Asia, anche in paesi apparentemente marginali come il Bangladesh.

Nell’agosto del 1947 termina formalmente la dominazione britannica sul sub-continente indiano. L’immenso territorio su cui si estendeva l’impero inglese viene diviso su basi "religiose" tra due entità statuali: l’India "induista" e il Pakistan "musulmano".

La cosiddetta "partition" è l’ultimo "regalo"che il colonialismo di "sua maestà" riserva alle già martoriate popolazioni indiane, un "regalo" che costerà milioni di morti, divisioni ed odi ancora non sepolti tra le masse lavoratrici dell’area. Sul reale portato della "partition" e sul criminale, decisivo e interessatissimo ruolo giocato da Londra rimandiamo a quanto scritto sul n. 73 di questo giornale (il tutto è consultabile sul nostro sito), qui adesso occorre soffermarsi un momento sul Pakistan perché è dalla formazione di questo stato che prende le le mosse la nascita del moderno Bangladesh.

Un "capolavoro" nel "capolavoro"

La costruzione del Pakistan è, per così dire, un doppio "capolavoro" del colonialismo britannico. Non solo sul suolo dell’ex-impero è stato coltivato un sanguinosissimo seme della discordia "religiosa". Non solo i due novelli stati e le loro classi dominanti saranno sin da subito in acerrima (e armata) concorrenza per imporre la propria egemonia sulla regione. Ma, inoltre, il neonato "stato dei musulmani" è concepito in modo tale da fomentare divisioni e contrapposizioni esplosive al suo stesso interno.

All’atto della fondazione il Pakistan è composto da due distinte entità territoriali separate l’una dall’altra da oltre 1.700 km. di distanza e poco omogenee socialmente.

Nella parte occidentale (quella che costituisce il Pakistan odierno) dominano classi possidenti di stampo soprattutto latifondista e militare a cui si affianca la borghesia mercantile del Punjab e di Karachi e vigono rapporti agrari alquanto arretrati e semi-feudali.

L’industria è poco sviluppata e le infrastrutture sono quelle "ereditate" dagli inglesi. La lingua ufficiale è l’Urdu, ma in intere zone si adoperano altri idiomi. La popolazione è ampia (circa 58 milioni), ma sparsa su un territorio alquanto vasto.

La parte orientale (quella su cui oggi sorge il Bangladesh che è costituita dalla provincia orientale dello stato indiano del Bengala da cui venne scissa al momento della "partition") è più povera, ma socialmente più vivace. In essa vige un’economia agricola di tipo deltizio. C’è il latifondo, ma accanto ad esso è molto diffusa anche la piccola e piccolissima (quasi microscopica) proprietà contadina.

I rapporti agrari sono più moderni e una crescente quota di contadini poveri tende ad essere trasformata in proletariato bracciantile. Anche qui predominano le classi possidenti agrarie, ma il ceto medio mercantile e artigianal-industriale urbano appare più dinamico e intraprendente. È (relativamente) sviluppata l’industria manifatturiera della juta e la già abbondantissima popolazione (77 milioni) parla omogeneamente la lingua Bengali.

I rapporti tra le due province

Nonostante la maggioranza della popolazione risieda nell’East-Pakistan, le leve decisive dello stato sono saldamente nelle mani delle classi dominanti west-pakistane che monopolizzano gli alti ranghi dell’esercito e della burocrazia statale e che usano il potere politico per ridurre la provincia orientale ad una sorta di semi-colonia interna la cui economia è finalizzata allo sviluppo (o, meglio, al tentativo di sviluppo) del Punjab e dell’area di Karachi (1).

L’accentramento del potere statale nella zona occidentale del paese era stato favorito dagli inglesi e, in fin dei conti, accettato dagli stessi ceti possidenti agrari bengalesi che, temendo la combattività delle "proprie" masse rurali (2), si sentivano più al sicuro all’ombra di uno stato "forte e militarizzato" come quello che andava impiantandosi a Ovest sotto la  guida della Lega Musulmana. Uno strangolamento ancor più accentuato delle masse lavoratrici e un ulteriore impedimento allo sviluppo economico e sociale dell’East-Pakistan era un prezzo che le élites agrarie della regione erano ben disposte a pagare in cambio della loro sicurezza.

Chi invece non si mostrò facilmente propenso a pagare questo prezzo furono le classi lavoratrici delle città e delle campagne e, in una certa qual misura, il ceto medio urbano che dagli assetti di potere che andavano consolidandosi veniva fortemente frustrato nelle sue ambizioni di avanzamento e promozione sociale. Il tentativo operato nel ’48 di imporre l’urdu come unica lingua ufficiale anche nella provincia orientale fu la scintilla che portò al primo scontro aperto tra la popolazione dell’East-Pakistan con il governo centrale di Karachi. Le proteste culminarono nella manifestazione del 21 febbraio 1952 quando in violentissimi scontri con la polizia a Dacca (attuale capitale del Bangladesh) cinque manifestanti persero la vita. Il movimento di piazza fu temporaneamente sedato (3), ma intanto andavano a costituirsi le prime formazioni politiche specificatamente "locali" che iniziavano a rivendicare una spinta autonomia per la "provincia orientale".

Il pugno di ferro dei militari

La più importante di queste formazioni, la Lega Awami (Lega del popolo), sorge nel 1953. Il suo programma sociale è vago. Ciononostante raccoglie vastissimi consensi tra il ceto medio urbano e, grazie alla sua anima più radicale impersonata dal leader contadino Bashami, ha un largo seguito anche tra le masse lavoratrici delle campagne.

Nel 1954 in alleanza col Partito Comunista stravince le elezioni per l’Assemblea Provinciale del Pakistan Orientale sbaragliando "sorprendentemente" la Lega Musulmana (il partito che governa a livello nazionale).

La risposta del governo centrale è durissima e assecondata da Stati Uniti e Inghilterra. A preoccupare non è tanto la vittoria elettorale della Lega Awami quanto l’attivismo delle masse lavoratrici che l’ha accompagnata.

L’intera Asia è scossa dai moti anti-coloniali. In Cina, Mao e il suo esercito contadino stanno consolidando la loro vittoria. La Corea è in fiamme e le truppe d’invasione statunitensi sono inchiodate a ridosso del 37° parallelo. La Francia, sotto i colpi della resistenza popolare vietnamita, sta per essere cacciata dalla penisola indocinese. Gli Usa, che da anni sono ormai l’incontrastato capobastone dell’imperialismo mondiale, non hanno alcuna intenzione di assistere passivamente all’apertura di altri incendi, soprattutto se questi rischiano di manifestarsi in zone di grande importanza strategica quali il golfo del Bengala.

La situazione nel Pakistan orientale deve quindi essere prontamente riportata sotto controllo. Il governo centrale nomina il generale Mirza governatore militare della provincia orientale e scatena una feroce repressione contro il movimento proletario e contadino. Mentre scorre il sangue dei lavoratori e mentre il Partito Comunista è messo fuori legge (sia a Est che a Ovest), Mirza riesce a trovare un accordo con l’ala più moderata della Lega Awami che porta ad una riapertura dell’Assemblea Provinciale.

In fin dei conti il ceto borghese e mercantile di Dacca mira ad acquisire un maggior peso politico ed economico, ma teme come la peste il dilagare delle mobilitazioni operaie e contadine. È quindi disposto a mitigare parte delle sue aspirazioni purché sia posto un argine al "disordine" sociale che sta prendendo piede.

Questo "atteggiamento" della borghesia east-pakistana, caratteristico di tutte le classi possidenti e sfruttatrici, accompagnerà l’intera vicenda che condurrà alla nascita del Bangladesh e comporterà un salato prezzo politico e materiale per gli sfruttati del paese.

Da Mirza ad Ayub

Il macellaio Mirza sembra aver raggiunto lo scopo: nelle campagne e nelle città della provincia orientale il

movimento degli sfruttati è ridotto al  silenzio. L’ordine è ripristinato. Ma all’interno di questo stesso movimento, si inizia a riflettere sulla necessità di costruire azioni unitarie di lotta tra i proletari delle due province. Intanto nel ’57 si consuma la scissione dell’ala sinistra della Lega Awami e la conseguente fondazione del Nap, in cui confluiscono tutti i membri del disciolto Partito Comunista westpakistano e una quota considerevole di quello bengalese. La nuova formazione ha un considerevole peso nell’ondata di lotte contadine contro il latifondismo che nel ‘58 investe l’intero paese, e nello sciopero di Lahore (nell’Ovest) dove gli operai scendono massicciamente in lotta trascinando con se gli studenti e altri ceti urbani.

Per la prima volta gli sfruttati e i giovani delle due province manifestano apertamente una reciproca simpatia e una solidarietà. Per la prima volta si intravede la reale possibilità di gettare le basi per una comune lotta. Anche per questo la reazione governativa (benedetta da Washington) è rapida e durissima. A Est e a Ovest l’esercito reprime nel sangue le manifestazioni ed è imposta la legge marziale. Il potere viene preso da Ayub Khan, generale legatissimo agli Usa.

In campo internazionale Ayub promuove un avvicinamento del Pakistan alla Cina. L’operazione ha il beneplacito della Casa Bianca che mira ad arginare il peso che l’Urss sta acquisendo in Asia meridionale anche grazie all’alleanza con Nuova Delhi.

Sul versante interno il generale, mentre usa il pugno duro contro ogni movimento degli sfruttati, tenta l’avvio una politica moderatamente modernizzatrice. Viene varato un abbozzo di riforma agraria e nasce la "Società per lo sviluppo industriale del Pakistan orientale". La politica di Ayub in campo rurale avrà risultati pressoché nulli (solo il 2% delle terre verrà ridistribuito), mentre in campo industriale porterà di fatto ad un ulteriore drenaggio di risorse da Est verso Ovest e al rafforzamento di un piccolo strato borghese bengalese di stampo "affaristico-parassitario" legato agli appalti statali e infeudato ai centri di potere di Karachi.

Intanto nel 1964, anche per quietare il malumore che andava diffondendosi in parte della popolazione, vengono indette elezioni presidenziali che il generale Ayub vince di misura.

Nonostante il successo elettorale,  la situazione continua ad essere effervescente. La politica economica dei militari non è riuscita ad andare incontro né alle esigenze della masse lavoratrici delle campagne né alle aspirazione dei ceti medi urbani del futuro Bangladesh.

A Dacca la Lega Awami rilancia la sua azione con un programma (i "six points") che richiede esplicitamente la netta autonomia monetaria e commerciale dal governo centrale e rivendica la creazione di una milizia bangladese.

Nella sua azione, la Lega (memore dell’esperienza del ’54), fa però estrema attenzione ad arginare preventivamente ogni tendenza all’auto-organizzazione e all’armamento dei contadini e degli operai. La spinta delle masse lavoratrici serve. E come! Ma deve essere rigidamente canalizzata in una prospettiva grettamente nazionalistica da cui siano espunte le rivendicazioni sociali, politiche ed economiche di cui il proletariato e il semi-proletariato può essere portatore.

Scoppia il "68"

A Dacca si succedono scioperi e manifestazioni. Il 7 giugno del 1966 la polizia uccide dieci manifestanti e, proprio mentre la situazione nella provincia orientale si fa effervescente, anche il Pakistan occidentale viene travolto da un’ondata senza precedenti di lotte e scioperi. Nel ’68 tutti i più importanti centri della provincia occidentale sono investiti dalle lotte proletarie: le rivendicazioni sono economiche e politiche allo stesso tempo.

A ottobre e novembre, con epicentro a Rawalpindi, ci sono momenti di scontro aperto in cui i lavoratori si battono a lungo con esercito e polizia. Torna a fare capolino l’istinto di solidarietà di classe tra gli oppressi e gli sfruttati delle due province (4). E Il 17 gennaio del 1969 per la prima volta l’intero paese viene investito da un grande  sciopero generale congiunto dei lavoratori dell’Est e dell’Ovest.

Qui ci sia consntita una parentesi. La costruzione dell’unità organizzativa, programmatica e di lotta tra le due sezioni "territoriali" dei proletari e dei contadini pakistani era l’unica via tramite la quale gli sfruttati del paese avrebbero davvero potuto provare a imporre le loro rivendicazioni politiche, sociali ed economiche. Purtroppo le masse lavoratrici, nonostante il loro istinto, non riuscirono a percorrere tale strada dopo lo sciopero di gennaio. Ciò avvenne per un insieme di cause essenzialmente oggettive e internazionali. Ma avvenne anche per la assenza (a sua volta determinata proprio da motivi oggettivi ed innanzitutto extra-pakistani) di un saldo e coerente nucleo di militanti portatori della prospettiva comunista e internazionalista.

Un simile nucleo (nel mentre si sarebbe dovuto impegnare a fondo per l’unificazione delle lotte tra le due sezioni del paese) avrebbe dovuto dire ai proletari west-pakistani di non contrapporsi alle eventuali pulsioni indipendentiste delle masse "orientali", anzi di riconoscerne la legittimità. Mentre, contemporaneamente, agli sfruttati della provincia orientale avrebbe dovuto indicare la di diffidare pienamente della "propria" borghesia, di organizzarsi in modo completamente indipendente da essa e di vedere nell’unità con gli oppressi "dell’altra" parte del paese la vera e unica via da seguire. Una via attraverso la quale si sarebbero potuti e dovuti gettare dei ponti anche verso gli sfruttati delle regioni settentrionali dell’India che, al di là degli artificiosi confini generati dalla "partition", vivevano analoghe condizioni di sfruttamento e oppressione.

Certo, la storia non si fa con i "se". Infatti, il senso di questa parentesi non è certo quello di recriminare su una (presunta) "occasione perduta", ma quello di contribuire a trarre degli insegnamenti per il futuro.

L’ultimo atto

L’inizio del 1969 vede un’ulteriore acutizzazione delle tensioni nella provincia orientale. L’8 febbraio a Dacca i giovani ed i proletari si scontrano a mani nude con l’esercito lasciando nelle strade oltre cento caduti, mentre i contadini occupano le terre dei latifondisti procedendo a volte anche alla loro eliminazione fisica.

Di contro il governo centrale col generale Yahya Khan impone nuovamente la legge marziale e cerca, trovandola, una mediazione "pacificatrice" con la Lega Awami. Si arriva così alle elezioni nazionale del 7 dicembre 1970 in cui la Lega fa il pieno di voti nella provincia orientale e diventa il primo partito dell’assemblea nazionale, superando il partito west-pakistano di Bhutto grande favorito della vigilia. I militari non accettano il verdetto delle urne e bloccano la convocazione dell’assemblea legislativa. Da questo momento gli avvenimenti "precipitano" impetuosamente.

Il primo marzo del 1971 a Dacca l’esercito apre il fuoco contro i manifestanti provocando centinaia di morti. La Lega Awami proclama 5 giorni sciopero. La situazione nelle campagne e nei sobborghi poveri delle città si fa incandescente: la borghesia east-pakistana e gli stessi dirigenti della Lega Awami tentennano di fronte all’ampiezza e alla radicalità che sta assumendo lo scontro. Ma il 24 marzo 70 mila soldati vengono aviotrasportati dalla provincia occidentale, l’università e i quartieri popolari di Dacca sono bombardati e tutti i centri nevralgici della città vengono occupati dalle truppe. La popolazione lavoratrice reagisce a mani nude lasciando decine di migliaia di morti sul campo. La repressione che si abbatte sulle masse sfruttate (e soprattutto sulla componente femminile) è massiccia.

Nel frattempo la dirigenza della Lega Awami si è rifugiata in India e da lì coordina le attività resistenziali della propria milizia, il Mukti Bahini. Si tratta di una formazione militare messa in piedi con l’aiuto indiano, discretamente armata che conta circa 50 mila effettivi (accuratamente selezionati tra le fila della borghesia, del ceto medio e tra gli ex-militari "regolari" bengalesi) che nel corso dei mesi si distinguerà per una serie di operazioni militari contro l’esercito pakistano, ma anche per gli attacchi portati contro le male e poco armate formazioni della resistenza bangladese di natura popolare e proletaria (5).

Nonostante la guerriglia partigiana, l’esercito west-pakistano sembra avere la meglio e nelle città vige un regime di autentico terrorismo militare. Ben presto però la situazione verrà rovesciata dall’intervento militare di Nuova Delhi.

L’India è spinta ad intervenire direttamente nel conflitto da due fondamentali ragioni. Da un lato punta a rimarcare la propria egemonia regionale assestando un colpo al concorrente pakistano e al suo alleato cinese.

Dall’altro lato vuole evitare che le tensioni sociali dell’East-Pakistan possano andare ad intrecciarsi con quelle già presenti nei suoi stati del Bengala e del Bihar (6).

L’India inoltre si sente con le spalle al sicuro anche perché è chiaro che nell’amministrazione Usa (il grande alleato del governo pakistano) sta prendendo il sopravvento una corrente che considera (a ragione) la dittatura militare su Dacca traballante e presto destinata a saltare e che vede nella "soluzione indiana" il male minore da accettare pur di ripristinare uno stabile "ordine sociale" nella regione (7).

Il 4 dicembre l’esercito indiano entra in azione, sbaraglia in due settimane le truppe pakistane e il 17 fa il suo ingresso vittorioso a Dacca. Pochi giorni dopo giungono i dirigenti della Lega Awami che instaurano il primo governo del neonato Bangladesh.

L’indipendenza è raggiunta, ma il suo segno è distante dalle aspirazioni degli sfruttati che tanto sangue hanno versato nei decenni.

Dopo l’indipendenza

All’indomani dell’indipendenza il Bangladesh è un paese in gravi difficoltà. Al pesantissimo fardello lasciato dal colonialismo britannico, si sono aggiunte le macerie di una guerra breve, ma intensa. Circa tre milioni di bangladesi hanno perso la vita nei combattimenti, sotto i bombardamenti o colpiti dalle rappresaglie pakistane. Buona parte delle già scarse infrastrutture sono distrutte. Le campagne, dove lavora circa l’80% della popolazione, sono letteralmente Il primo governo del paese, guidato dalla Lega Awami, procede alla nazionalizzazione delle poche grandi imprese esistenti che altrimenti, per assenza di capitali liquidi, sarebbero presto scomparse peggiorando ulteriormente la situazione economica della neonata nazione. Vengono anche varate misure per favorire il controllo delle nascite e per stimolare il miglioramento della coltura del riso e degli altri cereali vitali per la semplice sussistenza alimentare.

Al primo governo della Lega si succederanno, a partire da ’75, una serie di governi guidati dai cosiddetti "presidenti-dittatori" militari (dal 1972 il Bangladesh ha conosciuto diciannove tentativi, riusciti o meno, di colpo di stato) che alterneranno la legge marziale ad aperture di stampo democratico. È in questo periodo che il Bangladesh, pur mantenendo ottimi rapporti con l’India, comincia ad operare una più esplicita apertura diplomatica verso i paesi occidentali. L’era dei "presidenti-dittatori" si chiude nel 1991 sotto la pressione popolare (a cui si associano anche i ranghi medi e bassi delle forze armate) che impone nuove elezioni presidenziali.

Da questo momento il paese sarà di fatto governato alternativamente dalle sue due più grosse formazioni politiche: la Lega Awami e il Bnp (8). Ma soprattutto è da questo momento  che il Bangladesh inizierà a conoscere un inizio di reale (anche se relativo) sviluppo economico la cui causa di fondo risiede nel più generale processo di sviluppo industriale e capitalistico che da tempo incubava nell’intera Asia e che, a partire dalla Cina, proprio in quegli anni, iniziava a decollare (9). bengalese.

Un paese in crescita, ma ancora povero

La crescita economica del paese ha poi subito un ulteriore accelerazione a partire dall’inizio del nuovo millennio attestandosi su un 6% annuo. Parallelamente dal 1990 al 2010 la popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà è scesa dal 57% al 37%, la vita media è aumentata di circa dieci anni (oggi tocca i 68 anni), l’alfabetizzazione è cresciuta notevolmente) e la mortalità infantile, pur restando elevata (37 per mille) è stata abbattuta di due terzi. Nonostante questi miglioramenti il Bangladesh resta una nazione molto povera: meno del 50% della popolazione ha accesso all’elettricità, appena il 40% riesce è raggiunto dalla sanità pubblica, solo l’80% della abitazioni ha l’acqua potabile, l’87% dei lavoratori sono impiegati nel cosiddetto settore "informale" (corrispondente più o meno al nostro lavoro "nero"), mentre per l’intera economia nazionale sono vitali le rimesse effettuate dagli oltre 6 milioni di emigrati e ammontanti a circa 13 miliardi di dollari. Inoltre l’intero assetto produttivo del paese è tuttora molto fragile e poco equilibrato: l’agricoltura presenta profondi problemi strutturali, le infrastrutture sono scarse e per lo più obsolete, mentre l’industria è poco diversificata e troppo dipendente dagli investimenti esteri e dall’export.

È in questo quadro che si muovono sia la borghesia, sia il proletariato La prima mira a conquistare un ruolo meno marginale nel panorama regionale e internazionale. Il secondo aspira a che lo sviluppo (ancora non "stabilizzato") del paese si traduca anche in un miglioramento complessivo delle sue durissime condizioni di vita e lavoro. Aspirazione che non potrà concretizzare senza scontrarsi non solo coi "propri" imprenditori e col proprio governo, ma soprattutto con i grandi dominatori del mercato internazionale che risiedono principalmente qui in Occidente.

Note

(1) Dal ’48 al ’55 il valore delle esportazioni dell’East–Pakistan costituisce il 55% del totale delle esportazioni del paese, ma solo il 12,6% degli stanziamenti statali "per lo sviluppo" sono investiti nell’odierno Bangladesh.

(2) Le masse contadine del Bengala (ma in parte anche i ceti medi urbani) per decenni erano state protagoniste di lotte (anche armate e "terroristiche") contro i britannici e contro i loro alleati interni. Inoltre già prima della "partition" nelle campagne della regione operava clandestinamente e con un certo seguito il Partito Comunista bengalese.

(3) Nel 1954 comunque il Bengali sarà riconosciuto come lingua ufficiale accanto all’Urdu.

(4) Anche su questo importantissimo punto invitiamo a leggere quanto pubblicato sul n. 73 del che fare.

(5) Il leader della Lega Awami in esilio, Rahman così si esprimeva in quei giorni: "Il governo del Pakistan occidentale non si rende conto che io sono il solo che possa salvare il Pakistan orientale dal comunismo".

(6) L’India tra l’altro colse l’occasione per trasferire negli stati nord-orientali (i più "inquieti" socialmente) importanti contingenti militari. Nel 1971 (quasi parallelamente all’avvio delle azioni militanri in Bangladesh) il governo centrale di Nuova Delhi destituì il governo "rosso" del Benagala occidentale scatenando la più massiccia caccia al comunista dell’intera storia indiana.

(7) La Cia, sin dall’invasione pakistana di marzo ’71, aveva in un certo qual modo appoggiato la Lega Awami apprezzata per il suo viscerale anti-comunismo e per la sua determinazione nel disarmare le masse. Inoltre, nell’ottobre del 1971, il presidente statunitense Nixon, sospese ogni vendita di armi ai generali pakistani.

(8) La differenza tra le due formazioni è soprattutto nella loro politica estera. La "più laica" Lega, pur puntando a mantenere e sviluppare ottimi rapporti con gli Usa e l’Occidente, è fautrice di una politica più spiccatamente filo-indiana. Il Partito nazionalista del Bangladesh (Bnp) è fautore di una prospettiva un po’ più filo-occidentale.

(9) Su questo fenomeno di enorme importanza più volte siamo ritornati sulle pagine del che fare. Per un approfondimento si veda quanto scritto sulla Cina nei n. 76, 77, 78 e 79 del giornale e l’articolo "La grande Intifada araba scuote il mondo intero" del n. 74.

Che fare n.80 maggio 2014 - ottobre 2014

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