E’ cosa pacifica, per i marxisti, l'esistenza di una continuità tra le forme, pur fenomenicamente diverse, nelle quali si esercita, in concreto, il dominio di classe; così come è ovvio che il rapporto tra proletariato e borghesia non è, almeno nelle democrazie imperialiste conformatesi nello sviluppo del secondo dopoguerra, pura violenza, potenziale o fattuale che sia.
Anche nella crisi, sebbene con crescenti e maggiori difficoltà, lo stato borghese non rinuncia, e non rinuncerà a presentarsi come un qualcosa di distinto dalla classe dei capitalisti, non si svelerà volontariamente, come "forza organizzata per mantenere in schiavitù il lavoro". Accanto al potenziamento dei propri apparati repressivi, accanto ad una propria centralizzazione e blindatura, i livelli direttivi dello stato non rinunciano (né rinunceranno in prospettiva) a nuove tecniche partecipative che mirano a far agire i proletari come cittadini democraticamente consultati in referendum e plebisciti, confusi nella massa indistinta del "popolo", il più possibile divisi gli uni dagli altri. Ciò che è stato possibile, in buona misura, grazie alle risorse disponibili nel periodo di sviluppo precedente, dovrà, pur con difficoltà, essere comunque possibile oggi, ed in futuro, quando i campi di classe si vanno rapidamente distinguendo e contrapponendo. Resta quindi comprensione di "pochi" l'unitarietà della catena che lega l'occhio vigile del capo sui luoghi di lavoro ed, all'altro estremo, la deterrenza massima della detenzione "speciale".
E’ compito di quei "pochi", comunque, mostrare l'adeguamento, nel concreto, delle varie forme di quella unitaria catena al quadro oggettivo dello scontro in atto. Ancorandosi a quest'ultimo per non separare i singoli fatti dalla totalità del reale e, dunque, per capire attraverso quale dinamica le condizioni, già poste, nel quadro attuale, ne garantiscono il suo inevitabile superamento.
Il quadro oggettivo dello scontro di classe, nel quale si collocano le varie forme di prevenzione e repressione attuali, non è lo stesso degli anni settanta.
Certo, in molti collochiamo l'inizio della crisi capitalistica nei primi anni settanta e, concordiamo quindi, nel vederla aggravata, diffusa, irrisolvibile con "mezzi ordinari e pacifici".
Ma questo aggravamento ha inciso profondamente nei rapporti tra proletariato e borghesia ed anche all'interno della massa proletaria.
Non ci troviamo, cioè, di fronte solo ad un ingigantimento delle contraddizioni, ad una putrescenza degli attuali rapporti sociali che rende attuale e percepibile l'aut aut di fondo tra comunismo o barbarie, tra annichilimento della specie umana o sua, unica, possibilità di sviluppo ulteriore.
Non è unicamente un quadro più ricco di potenzialità.
Si è andata logorando, insieme alle basi sulle quali era materialisticamente fondata, l'idea di una "solidarietà" di tutte le classi e gli strati sociali ' in nome di un nuovo sviluppo per il "bene di tutti". Questo sviluppo si è, già, rivelato un'illusione per gli allocchi. Se sviluppo c'è stato, esso ha ingrassato ed ingrassa ceti e classi sociali determinate, contro non più i soli emarginati dalla società dell'opulenza ma contro milioni di proletari e salariati. Non fu, quello della solidarietà nazionale, il progetto carognesco di un gruppo di politologi picisti per fregare la classe (supposta "rivoluzionaria'" bensì un'illusione vissuta da masse imponenti di operai e proletari come l’obbligata proiezione dentro lo stato delle lotte tradeunioniste dei primi anni settanta. Il riflesso sul "politico" di un'avvenuta "popolarizzazione" del proletariato, di una sua forza (reale, allo stadio di allora) come classe del capitale. Il punto unico di contingenza, a metà degli anni settanta, suggellò anni di lotte, di ascesa dentro (e perché mai "oltre"?) i rapporti dati, modificandoli nelle forme di rappresentanza, le quali, al termine del più grande ciclo di sviluppo capitalistico mai conosciuto, poterono adeguarsi, senza compromettere l'essenza del rapporto proletariato-borghesia. Chi ha dimenticato cosa, realmente, significò lo Statuto dei lavoratori, l'agibilità in fabbrica, il diritto di assemblea e, poi, l'ascesa ed il rafforzamento del PCI nei comuni, nelle regioni, nel parlamento? Il " farsi stato " non fu vissuto, tra le fila operaie, come la blindatura socialdemocratica, oppressiva e criminalizzante, che ha spezzato la vita di migliaia di giovani. Ma proprio perché posta al termine di un ciclo di sviluppo chiuso ed irripetibile, l'illusione della "solidarietà nazionale", pur logorata rapidamente nelle sue basi oggettive, ha permeato di sé gli anni immediatamente successivi. Se l'EUR è figlia diretta della solidarietà nazionale, anche i primi anni ottanta hanno visto la massa proletaria subire i sacrifici, nell'illusione di ripristinare quelle basi materiale che ne erano il presupposto.
Noi rivendichiamo appieno quel ciclo di lotte come l'espressione di un primo risveglio di classe, pur su un terreno tradeunionista e necessariamente come classe in sé.
Il soggettivismo anni settanta ha pagato duramente l'aver confuso un primo risveglio con il pieno dispiegamento della classe che si riconosce in quanto tale. La sua prima sconfitta - e questa è un'analisi sempre meno controversa - non avvenne su un piano "militare", di forza dispiegata statale, bensì su un piano sociale e politico. Le condizioni del quadro dello scontro sociale di allora non consentivano alcun assalto al cielo se non nelle volontà, nei progetti, nell'immaginario di un ristrettissimo nucleo di militanti. Non vedevano alcune classe "rivoluzionaria" (dopo trent'anni di sviluppo cloroformizzante? Dopo decenni di controrivoluzione borghese e di corruzione ideologica e materiale?). Non c'era alcun "coperchio" da rimuovere, non volevano educazionismo o detonatori.
La repressione statale non determinò, bensì lucrò appieno, quella cesura, incolmabile da una qualsiasi volontà soggettiva, tra il quadro oggettivo dello scontro, la collocazione soggettiva della classe dentro quel quadro e le aspirazioni di coloro che la subirono. La democrazia borghese non ne uscì indebolita, persino nella rappresentazione di sé come "democrazia di tutto il popolo", nonostante che mise in piedi un armamentario mostruoso di leggi, di carceri, di uomini e mezzi, di "illegalità". Rimasero a strillare querule colombe, senza un riferimento di classe, adoratrici delle garanzie del diritto giusto sulle abnormità della "emergenza". Ma lo stato doveva lucrare anche oltre lo stretto contingente. Alla fine di quegli anni si cominciavano ad intravedere, per la classe dominante, i pericoli di una fase in cui, ristretti i margini economici, la "democrazia di tutto il popolo" doveva svelarsi come la macchina statale garante di inique distribuzioni di ricchezze, di sacrifici e disoccupazione per tanti, di profitti e surplus per pochi.
Dialetticamente, un assalto al cielo nemmeno tentato si è rovesciato in una potente arma in mano alla borghesia. Mantenuto l'attrezzaggio di fondo in uomini, mezzi ed allarme sociale, essa ha potuto scatenare un'ulteriore offensiva ideologica. Limate le leggi della fase della "emergenza", ha sbandierato la ri-associazione alla "democrazia" di quelli che ne erano stati, fino a ieri, i "nemici mortali". Un potente messaggio di fiducia nello "stato di cose presenti", in questo sistema sociale e nelle sue forme promana, insieme al ripudio della lotta di classe ed ad ogni ideale di trasformazione, da tante dichiarazioni. Il "resto" - quelli che non hanno capito e non capiranno in futuro - merita il marchio del criminale e come tale va, ed andrà, trattato. La legge "Gozzini" nella misura in cui istituzionalizza la detenzione differenziata e speciale (proprio sulla base del "reinserimento sociale" del detenuto), suggella una fase lucrata, al massimo possibile, dall'avversario di classe. La prassi dell'uso dei reati associativi (di cui stanno facendo le spese, ancora mentre scriviamo, tre compagni dei Comitati Autonomi Romani) viene consolidata e ritrasmessa ' in funzione di intimidazione preventiva, ad oggi ed agli svolti prossimi venturi.
Ma l'intimidazione e la prevenzione, sulla scorta dell'allarme sociale amplificato dai mass-media, non possono esaurire le necessità della classe dominante nell'attuale quadro dello scontro e delle sue evoluzioni possibili.
Sul banco degli imputati, quindi, vengono messe le stesse acquisizioni del ciclo di lotte dei primi anni settanta: lo sciopero, lo "statuto", l'agibilità sui luoghi di lavoro.
La ristrettezza dei margini di manovra finanziari, mentre ceti, strati e corporazioni borghesi esercitano sullo stato il massimo della pressione (evasori, medici, speculatori di borsa) rende arduo per la democrazia borghese presentarsi come apparente unità degli interessi delle classi opposte. La società va polarizzandosi ai lati opposti. Cresce, a strappi, l'iniziativa operaia; le nuove generazioni condannate ad un futuro di precarietà e di disoccupazione riprendono a scendere in lotta; si fa profonda e diffusa l'estraneità ad un sistema sociale produttore ostinato di inquinamento, morte e degradazione; si estende la vigilanza di massa contro i pericoli di guerra e di un nuovo massacro generale.
A questo, a tutto questo, devono adeguarsi le diverse forme concrete in cui si esercita il controllo e la repressione preventiva dell'avversario di classe. La repressione diventa diretta pertinenza delle lotte sociali: ogni lotta operaia deve tenerla in debito conto: all'Italsider di qualche anno fa; le occupazioni di ferrovie ed autostrade della lotta per i 4 punti di scala mobile; la difficile riorganizzazione dei disoccupati; gli studenti, che fanno i conti con la brutalità statale e con l'intimidazione poliziesca.
Una diretta pertinenza delle varie forme repressive (dentro un'unitaria catena) al movimento di massa in lotta, pone le condizioni concrete per un terreno di denuncia, e quindi di delegittimazione del ruolo "neutrale" dello stato. Il movimento di massa crescerà anche su questo terreno, come hanno dovuto fare gli operai polacchi ed i minatori inglesi ritrasmettendo potenti insegnamenti al resto delle fila dell'esercito proletario internazionale.
Certamente la lotta alle forme più odiose e più insidiose della deterrenza e della prevenzione statale non potrà essere un "prius" per un processo di riacquisizione di consapevolezza che marcerà sulle gambe del movimento di classe, unico e di massa. Certamente oggi, mentre si incubano potenti lotte e l'avversario può menare, troppe volte indisturbato, la danza, saranno le avanguardie politiche a subire provocazioni, montature e repressione. Chi si è illuso, durante gli anni settanta, che la "legalità" borghese colpisse solo i comportamenti, arrivando - anche tra le supposte avanguardie - a ritenere la repressione un affare interno tra soggetti in lotta (e per questa via la più alta forma di legittimazione dei "comunisti") avrà di che sorprendersi. A subirla, in varie gradualità e forme, saranno, in quanto a "soggetti" men che riformisti, a difendersene dovranno essere operai, semplici lavoratori.
Ma proprio per la precarietà, oggettiva, del suo dominio attuale, lo stato deve, e dovrà, misurare con attenzione i suoi passi: l'atmosfera sociale è troppo carica di tensioni per poter sopportare azioni repressive troppo scoperte. Le agibilità saranno minacciate ed, in casi determinanti, ristrette ma non soppresse: la posta in gioco è, per entrambe le classi in lotta, la "politica" (in quanto complesso di rapporti che legano le varie classi e tutte queste allo stato) che si incontra in ogni lotta l'economica". L'esperienza degli studenti francesi parla, sotto questo profilo, un linguaggio internazionale. Per questo il periodo davanti a noi ci è favorevole: ogni assaggio di repressione e di attacco alle "agibilità" sui luoghi di lavoro deve diventare il terreno concreto di delegittimazione del ruolo statale e della natura classista della "democrazia"; il "far pagare un prezzo all'avversario di classe" in questo senso deve diventare l’imperativo categorico; l’affidare allo sviluppo del movimento di massa questo terreno di denuncia e di lotta il nostro asso vincente. Sono poste tutte le condizioni per il rovesciamento della situazione attuale: a tanto, e non a meno, occorre prepararsi.