Il problema del debito estero dei paesi arretrati, dominati o controllati dall'imperialismo, ha assunto proporzioni tali ed ha avuto conseguenze politiche così vaste che il movimento proletario ed i rivoluzionari delle metropoli non possono ulteriormente ritardare di prendere posizione su di esso. Lo sciopero generale dei lavoratori brasiliani (il primo nella storia di questo paese) che si è svolto l'11 dicembre contro il " Piano cruzado", formulato dal governo Sarney in attuazione delle direttive del Fondo Monetario Internazionale (FMI) è soltanto l'ultimo dei molti "pressanti inviti" che ci sono pervenuti. Negli stessi giorni, e per le medesime ragioni di base, scoppiavano tumulti per il pane in Zambia, che riproducevano le violente proteste di massa degli scorsi anni della Tunisia, del Marocco, della Repubblica Dominicana. Nel mezzo, a luglio-agosto dell'85, a Cuba, la Conferenza latino-americana sul debito estero ed il 23 ottobre dello stesso anno il primo sciopero di tutto il continente latino-americano sulla questione del debito estero. Ce n'è abbastanza per non poter dire: non abbiamo visto, non ne sappiamo nulla.
L'asservimento finanziario dei paesi minori o dominati da parte delle potenze capitalistiche maggiori e delle istituzioni bancarie dei paesi più ricchi è un classico modo di operare del sistema imperialista e lo sarà sino alla sua fine. Ma mai, forse, questo meccanismo impersonale ha agito in forma tanto ampia e devastante sulle condizioni di vita delle immense masse lavoratrici dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina. La forma ed il grado presenti del problema sono un altro dei frutti necessari della crisi generale del capitalismo.
Si è arrivati alla situazione attuale che vede un certo numero di paesi indebitati al punto da essere costretti a destinare l'intero valore delle proprie esportazioni o una quota rilevante di esso al pagamento del semplice interesse sul debito, perché - in sostanza - i costi della crisi economica si sono ripartiti in misure del tutto diseguali e correlate alla forza dei diversi paesi ed al loro grado nella gerarchia internazionale del capitalismo. In particolare, a partire dalla metà degli anni '70, sono crollate le ragioni di scambio dei paesi esportatori di materie prime (come mostra il grafico dello stesso FMI), che sono poi, per il 90%, i paesi dei continenti appena usciti dalle vecchie forme di colonialismo, i quali - d'altra parte - si sono trovati a fronteggiare crescenti misure protezionistiche da parte del "pugno" di paesi imperialisti che controllano il mercato mondiale. Il crollo delle entrate e le crescenti difficoltà delle esportazioni verso le metropoli, hanno costretto i paesi più deboli ed arretrati a far ricorso ai crediti internazionali, ovviamente monopolizzati dal capitale finanziario facente capo agli USA, agli stati europei, al Giappone, e in parte minima, all'URSS.
Questi paesi "soffrivano", in contemporanea, di un eccesso di capitali liquidi da dislocare là dove ve ne era domanda ed alle condizioni più vantaggiose (per sé), Fiumi di dollari, petrodollari, marchi, yen, lire e qualche rublotto "socialista" si sono diretti verso i fortunati paesi dei tre continenti. Per qualche anno la produzione dei paesi più arretrati ha tirato, in proporzione, più di quella dei paesi imperialisti. Poi, quando un secondo tornante della crisi li ha investiti in pieno (negli anni '80-'82), è emerso che i generosissimi crediti avevano fatto la fortuna delle banche commerciali americane ed europee (profitti nel "terzo mondo" triplicati nell'arco di 9 anni), ma avvicinato alla bancarotta i paesi "beneficiari". Il Messico per primo - siamo nel 1982 - dichiara di non poter pagare. Da allora il problema è posto a tutte le classi e frazioni di classe interessate. Le soluzioni sono, al momento, tre: pagamento (soluzione imperialista), ricontrattazione (soluzione delle borghesie nazionali dei paesi dominati e, in forma attenuata, dei partiti riformisti delle metropoli), disconoscimento del debito (soluzione proletaria). Ma gli ulteriori sviluppi dell'economia internazionale e dello scontro tra le classi porranno la questione nelle forme più estreme, bruciando anche su questo terreno le già oggi precarie soluzioni intermedie.
La soluzione imperialista del problema, espressa bene dal FMI, è: chi ha avuto i crediti, deve restiruirli con gli allegati interessi. Perché questo rientro si realizzi, non si deve indietreggiare davanti a nessun piano di "austerità", leggi: di fame. Le istituzioni finanziarie internazionali ed i governi interessati non debbono concedere alcun ulteriore credito senza vincolarlo a rigide direttive di taglio dei salari e dei consumi e di abolizione dei prezzi politici dei generi di prima necessità nei paesi debitori. La garanzia che il sistema bancario ed i paesi imperialisti realizzino integralmente gli utili del loro infame strozzinaggio sta nell'ulteriore peggioramento delle condizioni di vita delle masse proletarie e lavoratrici dei paesi poveri. Ricordate la stupenda sintesi di Lenin? "li capitalismo si è trasformato in un sistema mondiale di oppressione coloniale e di strangolamento finanziario della schiacciante maggioranza della popolazione del mondo da parte di un pugno di paesi progrediti". Inutile aggiungere che il normale accompagnatore dei piani di austerità è lo "stato di emergenza" ed ogni sorta di restrizione delle già limitate libertà delle masse.
Il massimo tra i paesi creditori sono gli USA, o direttamente o per interposta struttura (le proprie banche). Davanti alle molteplici pressioni provenienti sia dalle borghesie debitrici che dai concorrenti europei e giapponesi, in vena di liberalità pelosa quando si tratta dei crediti... altrui, l'amministrazione Reagan si è vista costretta a formulare un "piano" ad hoc per "aiutare" i paesi più indebitati. Il Piano Baker - tanto atteso e reclamizzato - non contraddice in nulla i criteri di base fissati dal FMI. Se ne distingue solo per un po' di demagogia a basso costo in più, in quanto si mette a dipingere scenari di sviluppo dei paesi indebitati a ritmi superiori alla media mondiale... e non manca, ovviamente, di restituire pari per focaccia agli "amici" europei e giapponesi, chiedendo loro un maggiore impegno nell'aiutare i debitori degli USA. Per il resto: riconferma del principio del pagamento del debito senza concessioni ("Fare concessioni sul debito crea solo inutili precedenti verso gli altri debitori", ha affermato il responsabile della Federal Reserve di New York, G. Corrigan) e dure condizioni per il rifinanziamento.
L'unica reale novità del piano Baker è il cosiddetto l'approccio caso per caso". Il debito estero è riconosciuto come un problema politico. E pertanto la leva del credito si deve manovrare in connessione più diretta e con una selettività più mirata rispetto al compito supremo: frenare o prevenire il processo rivoluzionario che sale dai paesi dominati. Prima applicazione del principio al Messico, turbolento vicino dalle contraddizioni esplosive. Anzitutto: assicurarsi ; confini (e con quel problema chicano dentro casa...).
Gli altri paesi imperialisti europei - l'Italia tra essi - "manovrano" con qualche astensione sulle decisioni più impopolari, ma condividono totalmente i fini da perseguire, chiosando talora su sfumature attinenti ai mezzi.
Quanto all'URSS, il suo "socialismo" in materia si è limitato a punzecchiare il FMI, criticandone l'assunzione di compiti "impropri". Stop. La seconda puntata ce l'ha regalata la impagabile "glasnost" con cui Gorbaciov ha imposto al Vietnam un aumento di produttività del lavoro, un ritorno alla produzione agricola del tempo... coloniale ed una nuova direzione politica in cambio della riconferma e dell'aumento del credito.
La soluzione borghese nazionale del problema è quella della ricontrattazione. E vero che, a cominciare dalla borghesia messicana nel 1982, i governi dei paesi domi nati o controllati ventilano di quanto in quando l'ipotesi del non pagamento. Ma è solo per esercitare una pressione psicologica nei confronti delle centrali imperialiste e per presentarsi come portavoce del malcontento di massa dei rispettivi paesi; non esiste in nessun caso l'interesse, la possibilità e l'intenzione di portare a compimento una tale minaccia verbale.
Se si eccettua un certo numero di paesi minori (per es. quelli dell'America centrale o dell'Africa centrale) le cui borghesie sono tout-court "compradore" e vivono e prosperano sui crediti imperialisti, la borghesia dei paesi debitori ha reali contrasti di interesse con il capitale finanziario e con la borghesia imperialista. Essa, quindi, si è fatta, si fa e si farà avanti con proteste e proposte tese a difendere i propri interessi materiali e politici anche nei confronti dei potenti governi amici. Perfino un servo fedele dell'Occidente quale Mubarak non può fare a meno di criticare la politica di alti tassi di interesse praticati con l'Egitto dagli USA, di affermare che "la stabilità di un paese è più importante delle pretese del FMV e di concludere che il suo paese pagherà, ma "per gradi". Da parte sua, il presidente del Brasile, Sarney, erede legittimo delle oligarchie militari, propone al suo "popolo" un fronte di unità nazionale e un patto sociale in modo da poter trattare a muso duro con la "comunità finanziaria internazionale". E un Garcia si spinge anche più avanti con la prospettiva di "una azione comune" tra i paesi debitori e del tetto del 10% delle esportazioni da destinare al servizio del debito.
Ma fin dove si può spingere questa borghesia e quanto coerentemente può dare seguito alle sue denunce ed attuazione unilaterale alle proprie proposte? Ce lo mostra il vecchio Fidel, che non è poi l'ultimo, in fatto di "antimperialismo", nel campo di queste borghesie. Il suo governo, anzi, è stato sinora l'unico ad avere osato convocare una conferenza internazionale per tentare un coordinamento tra i debitori "contro le formule inumane del FMI postulando "la impagabilità del debito estero". Alla "impagabilità" non fa seguito il non pagamento, ma la seguente proposta "costruttiva", ancorché riformatrice: "che gli stati dei paesi sviluppati si facciano carico, presso le proprie banche, del debito dei paesi del Terzo Mondo. E che il 12% di quello che oggi si impiega in spese militari si dedichi alla ammortizzazione di quel debito". Aggiunge Castro: " Noi non postuliamo la bancarotta del sistema finanziario internazionale (c.n.), né che i correntisti dei paesi capitalisti industrializzati perdano il proprio denaro, o che i contribuenti debbano pagare più tasse... E speriamo che sia attraverso il dialogo e non attraverso catastrofiche crisi che questi debiti ricevano il proprio certificato di morte..." Come si potrà conciliare - stanti le leggi di funzionamento del sistema imperialista, la crisi in corso e le dimensioni assunte dal problema del debito - una timida proposta riformistica con il bene che anche Castro riconosce intangibile, della stabilità del sistema finanziario internazionale?
Un anno di pazienza ed il mistero è svelato. Dal 3° Congresso del Partito comunista cubano in poi, tutta la dirigenza cubana ha lanciato una campagna di lunga durata per innalzare la produttività del lavoro e la redditività delle imprese, accusando apertamente la massa dei lavoratori cubani di essere dei fannulloni. Questa campagna ha toccato l’acne (per ora) nel discorso con cui Castro ha annunciato, all'Assemblea Nazionale, duri sacrifici per molti anni, commentando in questo modo i provvedimenti: "Speriamo che ciò serva ai cubani ad essere più efficienti, ad apprezzare il risparmio e ad eliminare le numerose cattive abitudini ereditate dal colonialismo e dal neocolonialismo, dall'egoismo e dal capitalismo" (La Repubblica, 28 dicembre). Ahi, viejo lider maximo, dopo che il FMI, l'imperialismo (il neo-colonialismo vero! non quello dei lavoratori cubani) e i tuoi amici "socialisti" e "progressisti" di tutto il mondo hanno deriso o lasciato cadere nel nulla la tua costruttiva proposta di riforma, non trovi nulla di meglio che prendertela con gli inefficienti lavoratori cubani? Tutto qui l’ "antimperialismo"?
Altri governi, ovviamente, come quello di Sarney, prima hanno stroncato con le autoblindo la rivolta di Brasilia, e poi hanno proposto l'unità nazionale contro "chi ci vuol strangolare", sulla base dello strangolamento delle libertà e delle condizioni di vita delle masse.
La soluzione proletaria è quella del non riconoscimento del debito, in quanto l'intero meccanismo da cui esso è nato ed è esploso è il meccanismo della rapina imperialista ai danni dei paesi arretrati. Il movimento rivoluzionario delle aree oppresse si è già messo in marcia contro questa rapina, e non ha alcuna importanza se, al momento, esso e ancora provvisoriamente confuso dentro aborti di "blocchi nazionali" (il che, comunque, è sempre meno la regola, dato che le insurrezioni nei paesi dominati avvengono sempre più non solo contro l'imperialismo, ma anche contro i servi locali di esso).
E da qui, dalla metropoli, che ancora non si sente la voce di classe del proletariato metropolitano che metta sotto accusa dall'interno il sistema imperialista e si schieri nel fronte comune con le masse doppiamente sfruttate dalle "nostre" e dalle "loro" borghesie.
L'unica voce percepibile a queste ultime è quella, sciovinista e controrivoluzionaria, delle socialdemocrazie e dei partiti riformisti "operaio" -borghesi, attestate sulla posizione della ricontrattazione, ma perfino su questa "trincea" bancarottiera per il movimento proletario, attestate a chiacchiere. Nei fatti, non vi è sostanziale demarcazione dei riformisti dai rispettivi governi, qui nella metropoli europea. Ha forse alzato un dito il PCI a sostegno della timida e riformistica proposta Castro? Si è limitato a far capire che ci si poteva dialettizzare, tutt'al più, con quella più "realista" di Garcia. ma ha forse fatto qualcosa quando le istituzioni finanziarie internazionali hanno dichiarato insolvente il Perù? Nulla, assolutamente nulla; i crediti sono crediti e vanno restituiti: questo principio è sacro, ovviamente, per un riformismo che si regge proprio sulla base della continuazione del saccheggio e dell'oppressione imperialista!
E ai comunisti internazionalisti ed alle avanguardie conseguenti del proletariato che spetta di sollevare il problema nei suoi termini di classe e di indicare la politica necessaria per rafforzare l'unità del nostro fronte su scala internazionale. Il movimento proletario delle metropoli deve dissociarsi apertamente e senza mezzi termini dalla macchina strangolatrice del debito estero, che affama e reprime i nostri compagni di classe dell'Africa, dell'America latina e dell'Asia e da tutte le nuove forme di oppressione e di sfruttamento imperialista. Solo se assumeremo in modo militante una tale posizione, potremo favorire la decantazione di una più netta collocazione di classe anche in periferia e dare una mano ai lavoratori dei paesi dominati a liberarsi dalle ipoteche interclassiste e nazionaliste.
In particolare, a noi tocca la denuncia della responsabilità imperialista della borghesia italiana e delle sue manovre, attraverso i mezzi finanziari come attraverso quelli politico-militari, nel nord-Africa, nel Medio Oriente e nel Corno d'Africa. L'assassino torna sul luogo del delitto... l'Etiopia, la Somalia, la Libia, Malta, la Tunisia... Qui e da qui dobbiamo dichiarare da che parte stiamo.