In Italia, l'anno del rinnovi contrattuali si chiude con un bel magro bilancio. Solo la vertenza dei chimici è andata, provvisoriamente e in attesa del referendum, in porto; mentre per quel che riguarda il pubblico impiego è stato definito, proprio la mattina di San Silvestro, l'accordo-quadro sulla parte economica.
All'inizio di gennaio, restano aperte 120 vertenze contrattuali per 11 milioni di lavoratori; solo dall'8 gennaio ci sarà un'intensificazione della trattativa per la più importante politicamente, quella dei meccanici delle grandi aziende pubbliche e private.
Eppure i vertici confederali si aspettavano un ben altro andamento della stagione contrattuale.
A confortare la loro aspettativa di una positiva accoglienza, da parte padronale, delle piattaforme rivendicative, c'era innanzitutto la sostanza della mini-intesa conclusa con la Confindustria a fine aprile; sostanza alla quale si erano attenuti nel predisporre le rivendicazioni contrattuali nei settori industriali. Il "senso di responsabilità" e la moderazione sui punti cardine (salario ed orario) aderivano a quei proponimenti siglati in cambio dell'accordo sui decimali di contingenza: "il perseguimento degli obiettivi di rientro dall'inflazione per il triennio a partire dal 1986 e la crescita produttiva costituiscono un impegno comune di fondamentale importanza" e più avanti nell'ambito dei rinnovi contrattuali, la tematica degli orari deve essere coerente con gli obiettivi precedenti" ed infine "tali da tener conto delle esigenze di flessibilità delle imprese". In soldoni: rispetto assoluto dei tetti programmati di inflazione, centralità dell'impresa e delle sue esigenze produttive; in più: riconoscimento dei "quadri" e necessità di ri-organizzare inquadramenti e parametri per premiare la "professionalità - e battere l'eccessivo "appiattimento". Questi assi centrali possono ritrovarsi in tutte le piattaforme rivendicative: dell'industria, ma anche dei servizi e del pubblico impiego. Per quest'ultimo il sindacato sposava, anche, la necessità di rendere "efficiente e produttiva" la macchina (e, quindi, la spesa) statale. Con queste premesse, perché mai aspettarsi un qualche scontro sui contratti?
I conti dei vertici sindacali si sono subito mostrati sballati. Da un lato, il padronato interpretava l'atto di fine aprile come il varco attraverso il quale lucrare il massimo possibile in quanto a discrezionalità nell'uso della forza lavoro, approfittando anche delle divisioni interne agli stessi sindacati ed al loro visibile logoramento in termini di credibilità presso i lavoratori. E "battere il ferro finché è caldo" conveniva ad un padronato ringalluzzito da anni di offensiva e dai recenti successi sullo smantellamento della scala mobile.
D'altro canto, i lavoratori mostravano, già in sede di votazioni sulle piattaforme, di non accettare supinamente un nuovo contratto penalizzante, e di percepire come, senza porre, già da questi rinnovi un preciso "alt" alle insaziabili pretese padronali, sarebbe più arduo risalire la china, anche a partire dalla lotta sul posto di lavoro. Per di più, gli operai ed i lavoratori capivano (e capiscono) come non sia possibile suonare lo stesso ritornello per canzoni diverse: ieri era la "crisi" oggi la "ripresa da consolidare". Qualcosa non quadra, a partire dai bilanci familiari...
Lo scontro sui contratti, quindi, c'è stato. Lo hanno voluto i padroni; lo hanno accettato gli operai. I sindacati hanno fatto di tutto per contenerlo, evitando di unificare le lotte dei diversi settori, impedendo, in tutti i modi, che esse assumessero una valenza generale contro i padroni, contro i sacrifici, contro il governo.
E’ già storia: fra ottobre e novembre, gli operai di grandi, medie e piccole aziende sono scesi in lotta, con punte inaspettate di adesione. Raramente e solo localmente ci sono stati momenti di lotta unificata tra i diversi settori; sempre scioperi parziali, scaglionati per regioni, intervallati dalla più totale disinformazione sull'andamento della trattativa; i sindacati hanno poi avuto cura di evitare ogni ampliamento della lotta operaia dai contratti alla finanziaria, alla politica del governo. L'unico sciopero generale intersettoriale, quello del pubblico impiego proclamato per il 9 gennaio, è stato prontamente revocato all'apparire di una qualche disponibilità governativa. Infine, dopo i due mesi di massima disponibilità operaia alla lotta, e senza che ad essa si desse il necessario sbocco dello sciopero generale, a dicembre si è allentata la tensione. I padroni hanno, probabilmente, compreso di non poter chiedere più di quanto già offerto, accettando ipotesi di accordo per i chimici (6-12) e per i metalmeccanici delle piccole aziende (23-12). I lavoratori, espropriati completamente della possibilità di controllare la trattativa e di contare sulle decisioni di sciopero, hanno progressivamente limitato e ridotto la loro partecipazione alla lotta.
Le "ipotesi di accordo" concluse rispecchiano l'impostazione delle piattaforme rivendicative: quello che si è lasciato sul tavolo della trattativa è il prezzo pagato per tacitare le ulteriori pretese padronali. Per i chimici 100 mila lire medie scaglionate in due anni (con 68 mila lire, a regime, per il livello più basso), una nuova scala parametrale 100-238 (anziché 100-210); 10 livelli di inquadramento, con 70 mila lire in più per i quadri e 40 mila lire per gli impiegati di maggior livello: 20, 24 e 28 ore di riduzione annue (se ne chiedevano oltre 70 per i turnisti) con 32 ore di straordinari "liberi", compensati da riposo, nelle aziende pubbliche. Cinque mesi di trattative, 40 ore di sciopero; infine l'offesa delle 100 mila lire uguali per tutti per un anno di contratto perduto: il prossimo si avrà nel 1990!
Per i meccanici delle piccole aziende: 98 mila lire medie a regime, con 47 mila medie dal gennaio di quest'anno (ma in busta a febbraio), 200 mila lire, in due rate, come arretrati, 20 ore di riduzione annua usufruibili in base alla presenza con permessi giornalieri di cinque minuti; nuovo inquadramento su 9 livelli dal luglio 1987 con 70 e 100 mila lire per i quadri.
Il giudizio su queste "ipotesi" non può prescindere dal giudizio sull'impostazione della politica sindacale da dieci anni ad oggi. Queste ipotesi, quelle altre che stanno per essere siglate, vengono da lontano. L'accettazione delle compatibilità e dei tetti di inflazione, l'anti-egualitarismo propugnato ad oltranza, il riconoscimento delle "supreme esigenze della produzione" non sono " scoperte" recenti. Ma sono sempre meno giustificabili davanti ad una "base" che, anche in questa occasione, ha mostrato di avere la forza necessaria per potersi difendere adeguatamente, alla sola condizione di poter esprimere il proprio potenziale di lotta. I sindacalisti prima dei referendum di valutazione dell'accordo (quello dei chimici è fissato per i giorni 19-22 gennaio) avranno un bel dire che quello che si è ottenuto era il massimo, date le pretese padronali. I risultati di una vertenza, da sempre, non vanno giudicati "in astratto" ma relativamente a ciò che il potenziale di lotta, adeguatamente fatto pesare, avrebbe potuto ottenere nelle condizioni date. Da questo punto di vista, più di un'accusa può essere mossa ai vertici sindacali: per come sono state partorite le piattaforme, per come è stata preparata e vissuta la lotta contrattuale, per come è stata dispersa la forza operaia. I padroni sono andati allo scontro con il massimo di centralizzazione, il fronte operaio è stato condotto in ordine sparso. Ma la discussione in fabbrica sulle "ipotesi di accordo" deve diventare un momento di riflessione, innanzitutto per gli operai più combattivi, sulla crisi di tutte le forme di organizzazione sui posti di lavoro. Spesso i delegati non vengono rieletti da anni (alla Fiat da 6-7 anni), manca qualsiasi altra forma di auto-organizzazione, che - a prescindere dall'adesione o meno ai sindacati - si faccia carico della discussione, del dibattito, della circolazione di analisi e di proposte tra i lavoratori. Senza questi indispensabili strumenti, il mugugno diffuso, l'aperta sconfessione della linea sindacale dei sacrifici e delle compatibilità, rischia continuamente di farsi sfiducia, difesa individuale, scissione delle avanguardie dalla massa operaia, in definitiva delega obbligata e subalterna alle decisioni dei vertici sindacali. L'esperienza recentissima del varo della piattaforma dei metalmeccanici insegna come, laddove è emerso un momento organizzato di dissenso, esso ha aggregato energie e combattività, ha costituito e costituisce un "impaccio" con cui fare i conti anche per la conduzione sindacale della trattativa.
Proprio la questione dell'auto-organizzazione e di come è stata, nel concreto, sciolta, porta il nostro sguardo oltr’ alpe.
Organizzazione indipendente, fuori dall'immediato controllo sindacale ma con una precisa attitudine a coinvolgere la massa dei lavoratori, a prescindere dall'appartenenza o meno a questo o quel sindacato.
Organizzazione di base che sfida i sindacati di settore a "fare fino in fondo il proprio dovere", controllandone l'operato nella trattativa e nella conduzione della lotta, spingendoli infine - prima di essere ovunque scavalcati - a por mano, pur in ritardo, tra esitazioni e divisioni, al necessario allargamento del fronte di lotta. Organizzazione capillare di base che impone ai sindacati con la forza del coinvolgimento di massa, contenuti che farebbero rizzare i capelli ai qualsiasi "nostro responsabile sindacalista": egualitarismo salariale, rifiuto della riparametrazione "per merito", mantenimento degli "automatismi", rottura dei vincoli economici governativi (i famosi "tetti programmati di inflazione"), apertura di trattative sulle condizioni di lavoro, sui ritmi, sui carichi, sulla nocività. Ecco gli cheminots, quelli che hanno innescato uno scontro sociale contro la politica dei sacrifici e delle compatibilità.
Mentre scriviamo, i ferrovieri francesi sono al ventunesimo giorno di sciopero e sono appena iniziati gli scioperi in altri settori del pubblico impiego: proclamati dai sindacati ufficiali ma con un'immediata rivitalizzazione delle assemblee di base. Proprio dalla capacità di allargare il fronte di lotta, forzando in questa direzione le centrali sindacali, andando oltre esse stesse, ponendosi come esempio per tutti, da ciò dipende l'esito finale dello scontro. Chirac, come tutti gli altri governanti europei, sa che deve riuscire a piegare lo sciopero, costi quel che costi: una sconfitta in questo scontro, significherebbe dover seppellire la propria politica di rigore. Sa che l'esempio si estenderebbe alle fabbriche; come per madame Tatcher, il suo e un imperativo categorico.
Ma noi sappiamo, altrettanto bene, come, anche una sconfitta nell'immediato del singolo reparto in lotta, trasmetta preziosi insegnamenti al resto dell'esercito proletario: nulla sarà come prima, la lotta ripartirà da un livello più stabile e più alto.
Come i miners, gli cheminots si sono attrezzati con casse di resistenza e di sostegno, come i miners stringono legami di solidarietà con altri lavoratori dei luoghi di provenienza; come i miners si predispongono alla autodifesa dagli organi repressivi statali: pure coincidenze? E più esplicitamente, stavolta, gli stessi contenuti della lotta riguardano tutti, dentro e fuori i confini nazionali. Essa è partita contro lo smantellamento del sistema delle "anzianità" e la sua sostituzione con il sistema dei "premi di merito"; contro la riparametrazione degli aumenti, per l'egualitarismo. Oggi la lotta è per aumenti salariali oltre il tetto programmato di inflazione e migliori condizioni di lavoro. Una lotta "francese", forse?
Il giorno di San Silvestro è stato raggiunto l'accordo-quadro sulla parte economica per i pubblici dipendenti italiani.
Da Goria a Lettieri, un solo coro: "Abbiamo fatto piazza pulita dei perversi automatismi basati sull'anzianità", finalmente spazio "per la riparametrazione che premi la professionalità!".
La nuova scala tabellare è 100-309, contro la vecchia 100-223. I nuovi stipendi base vanno da 3.800.000 a 12.300.000, mentre i precedenti erano 3.300.000-7.700.000. Con il congelamento, per due anni, degli scatti "perversi", si è "resa disponibile" una somma di 1.500 miliardi devoluta a ripagare i livelli più alti dell'eccessivo "appiattimento" subito e ciò per "rendere il sistema pubblico concorrenziale con l'impiego privato nella ricerca delle migliori professionalità". Infine sono stati stanziati 37 miliardi per premiare coloro che avranno aumentato l'efficienza dei pubblici servizi, anche attraverso mobilità e flessibilità della forza lavoro.
Forse tutto questo non incontrerà, immediatamente, la risposta che merita da parte dei lavoratori. Ma ormai è solo questione di tempo, in questo come in altri settori. La misura è ormai colma; i segnali di una nuova disponibilità alla lotta non mancano; gli esempi della strada da percorrere sono davanti a noi. Gli eventi prossimi venturi si incaricheranno di fare giustizia di chi ha cantato troppo frettolosamente le lodi del capitale e dell'immortalità del suo sistema. La partita è aperta e tutta da giocare