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Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014

Le stragi all'arma chimica compiute dall'Italia in Etiopia. Com'era bello il colonialismo italiano in Etiopia

Non siamo in grado di stabilire chi, nell’agosto 2013, abbia lanciato le bombe chimiche sul villaggio di Goutha alle porte di Damasco in Siria. Riteniamo che, con grande probabilità, siano state le forze di opposizione a compiere il massacro per invitare i loro protettori a intervenire.

Riteniamo, inoltre, che, con grande probabilità, siano state queste stesse potenze o alcune di esse a suggerire l’azione. Quello di cui siamo sicuri è che se c’è un paese che i popoli afro-asiatici devono temere per l’uso contro di loro delle armi chimiche, questo paese è l’Italia.

Nel 1935 l’Italia aggredì l’Etiopia, l’ultimo stato africano formalmente indipendente dal colonialismo. L’Italia aveva già occupato la Somalia e l’Eritrea. Da queste due teste di ponte puntò ad Addis Abeba, alle sue fertili terre, alla sua posizione strategica.

Le precedenti spedizioni coloniali europee impallidirono di fronte allo spiegamento di mezzi italiano: nel corso del 1935, prima dell’invasione dei confini etiopici del 3 ottobre 1935, l’Italia aveva dispiegato nel Corno d’Africa 280 mila militari e operai in supporto alle operazioni belliche. Qualche mese dopo i militari sarebbero arrivati a 400mila (di cui 87 mila ascari), la più grande spedizione coloniale di tutti i tempi. Il corpo di spedizione, appoggiato dalla flotta da guerra alla fonda nell’oceano Indiano, disponeva di 10 mila mitragliatrici, di 1100 cannoni, di 250 carri armati, di quasi 100 mila quadrupedi, di 15 mila automezzi, di 350 aerei.

Dall’altra parte, l’esercito etiopico contava 280 mila militari, 200 mila fucili, 4 mila mitragliatrici, poche centinaia di cannoni leggeri ed era quasi completamente scoperto nella guerra aerea e anti-aerea.

Malgrado questa gigantesca disparità delle forze militari, l’esercito etiope, dopo un primo arretramento, passò al contrattacco e incollò il fronte a ridosso del confine con l’Eritrea. L’Italia riuscì a piegare in pochi mesi questa resistenza e ad arrivare già nel maggio 1936 ad Addis Abeba grazie all’impiego dell’arma chimica, con cui il comando italiano intese "terrorizzare le popolazioni nelle retrovie, irrorando di gas tossici i villaggi, le mandrie, i pascoli, i fiumi, i laghi" (Angelo Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale. La conquista dell’impero, Oscar Mondadori, Milano, 1992, p. 488).

In un’intervista a Geo (numero 3, marzo 2006) lo storico Del Boca ha dichiarato: "Per quanto riguarda il mio lavoro di storico, non ho avuto alcuna difficoltà, nel corso delle mie ricerche negli archivi italiani e stranieri, a reperire documenti che comprovano l’uso dei gas, prima in Libia, e poi, in misura più sistematica, in Etiopia.

(…) Nel corso del conflitto italo-etiopico del 1935-1936, furono lanciate dall’aviazione 1597 bombe a gas per un totale di 317 tonnellate. Il regime fascista si credeva eterno e incensurabile, pertanto non aveva alcun bisogno di distruggere le prove. Quando, il 7 febbraio 1996, il ministro della difesa italiano, il generale Domenico Corcione, ammise finalmente, seppur con un ritardo di sessant’anni, l’impiego dei gas venefici in Etipia, portò in arlamento come prova un documento firmato dallo stesso maresciallo Badoglio, con il quale egli riferiva di aver fatto lanciare da 197 aerei, sulle truppe etiopiche in fuga dall’Amba Aradam, ben 60 tonnellate di iprite".

Nel libro Gli italiani in Africa orientale lo storico Del Boca riporta, tra le altre, le seguenti testimonianze. "Era la mattina del 23 dicembre 1935, e avevo da poco attraversato il Tacazzè, quando comparvero nel cielo alcuni aeroplani. Il fatto non ci allarmò troppo, perché ormai ci eravamo abituati ai bombardamenti. Quel mattino, però, gli aerei non lanciarono bombe, ma strani fusti che si rompevano appena toccavano il suolo e proiettavano intorno un liquido incolore. Prima che mi potessi rendere conto di ciò che sta stava accadendo, alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche. Altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in un’agonia che durò ore. Fra i colpiti c’erano anche dei contadini, che avevano portato le mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini. I miei sottocapi, intanto, mi avevano circondato e mi chiedevano consiglio, ma io ero stordito, non sapevo che cosa rispondere, non sapevo come combattere questa pioggia che bruciava e uccideva" (Immirù, uno dei capi politico-militari dell’Etiopia, p. 490). "Scrittori così poco sospetti di sentimenti anti-italiani come Jér.me e Jean Tharaud -ricorda il giurista Charles Rousseau- hanno fatto vedere nei loro articoli gli apparecchi italiani che volano raso terra, irrorando instancabilmente con l’iprite le colture, distruggendo ogni vita vegetale e riducendo alla fame gli animali, rodendo i piedi e i polmoni delle popolazioni terrorizzate." (p. 491). "Il paese sembrava sciogliersi. Il silenzio si faceva ogni giorno più grande su questi magnifici altipiani dove gli orizzonti sono così vasti e l’aria così pura. Né gli uomini né le bestie erano più in grado di respirare" (Hailè Selassiè, imperatore dell’Etiopia, p. 491).

Il bilancio complessivo della guerra fu di alcune migliaia di morti tra gli italiani e  di oltre 700 mila morti tra gli etiopi. La strage all’iprite continuò anche dopo la conquista di Addis Abeba, contro la resistenza etiopica all’occupazione italiana. Già dal 6 luglio 1936 in un telegramma al governatore generale e vicerè dell’Etiopia, Mussolini scrisse: "Iniziare a condurre sistematicamente politica del terrore et dello sterminio contro i ribelli et le popolazioni complici". Tra gli strumenti di questa politica vi fu il lager organizzato sull’isola di Nocra, davanti a Massaua.

Si potrebbe dire: quell’impresa fu un’orrore, l’uso delle armi chimiche fu un orrore nell’orrore, ma l’uno e l’altro furono il frutto della follia di Mussolini e di qualche suo stretto collaboratore, che impose agli italiani quella spedizione, stracciando le regole di convivenza internazionale e respingendo gli inviti a desistere lanciati, con il supporto delle sanzioni, dalle potenze occidentali democratiche...

Nossignori, nessuna follia, nessuna mela marcia.

Primo. A lanciarsi nell’uso delle armi chimiche non fu il fascista De Bono, che comandò il corpo di spedizione italiano in Corno d’Africa nelle prime settimane della guerra, ma Badoglio, che Mussolini sostituì a De Bono per dare slancio alle stagnanti operazioni militari. E Badoglio (che si era già distinto nelle deportazioni delle popolazioni libiche in Cirenaica e si era fatto le ossa come giovane ufficiale nelle campagne d’Africa della fine dell’ottocento) fu anche il primo ministro a cui nel 1944 le forze anti-fasciste riunite nel Comitato di Liberazione Nazionale consegnarono il potere dopo il crollo del fascismo sotto i colpi dell’invasione anglo-statunitense. Badoglio fu uno dei protagonisti della nascita della repubblica democratica anti-fascista. Dopo la seconda guerra mondiale le autorità etiopiche ne chiesero il processo per crimini di guerra. La richiesta fu respinta dall’Onu (per intervento diretto del Foreign  Office) e dalle autorità repubblicane italiane. Badoglio morì (di vecchiaia!) nel 1958: i funerali di Badoglio furono celebrati con tutti gli onori militari della repubblica italiana alla presenza dei membri del governo.

Secondo. È vero che la gente in Italia non era al corrente dell’uso delle armi chimiche in Etiopia, tuttavia, e ciò è la cosa essenziale, essa appoggiò entusiasticamente l’aggressione all’Etiopia. Milioni di persone scesero nelle piazze d’Italia all’annuncio dell’invasione. La sostennero i grandi capitalisti, Agnelli, Conti, Pirelli, Ansaldo, le banche, i cui profitti salirono alle stelle grazie alle commesse belliche. La sostennero anche i lavoratori, anche il proletariato industriale, dove pure era ancora vivo un (ultra-minoritario) sentimento di classe contro il fascismo. Anche i lavoratori se ne aspettavano vantaggi: la possibilità di ottenere un fazzoletto di terra fertile in Etiopia; l’aumento dei posti di lavoro in Italia per l’allargamento della produzione bellica. E questi ritorni ci furono (v. Paolo Spriano, Storia del partito comunista italiano, Unità-Einaudi, Torino, 1990, vol. 5, capitolo "Fascismo e anti-fascismo di fronte alla guerra di Etiopia"). Certo, a incassare i proventi della conquista dell’impero furono i grandi e i piccoli capitalisti, ma l’impresa, per qualche anno, alleviò le difficoltà economiche immediate dei lavoratori, pesantemente colpite dalla crisi che si era abbattuta da Wall Street sull’Occidente nell’ottobre 1929.

Terzo. Le potenze occidentali democratiche permisero all’Italia di avviare e portare a termine l’impresa. La Gran Bretagna fece passare le navi italiane (da guerra e mercantili) attraverso il canale di Suez. Gli Stati Uniti non parteciparono alle sanzioni varate dall’Onu di allora e cioè la Società delle Nazioni.

Le sanzioni in ogni caso non riguardarono il petrolio, l’unica merce di cui il fascismo aveva stretto bisogno per le operazioni e la produzione belliche. L’opposizione delle democrazie fu di facciata e limitata all’interesse di Francia e Gran Bretagna a mantenere entro limiti circoscritti la brama del posto al sole fascista. La conquista italiana dell’Etiopia fu, infine, ufficialmente riconosciuta da parte della comunità internazionale, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa. Lo fecero in coerenza e non in contraddizione con le loro carte democratiche. Erano loro, in questo la propaganda fascista non aveva torto, le principali potenze colonialiste. E la democrazia britannica, poteva, forse, esistere senza l’impero britannico? Peraltro, la Gran Bretagna non sfigurava nel confronto con il fascismo neanche nei mezzi: tra i primi a usare le armi chimiche contro i popoli afro-asiatici era stato in Iraq il giovane Churchill, colui che, insieme a Roosveelt-Truman e a Stalin, avrebbe diretto la crociata della democrazia contro il nazi-fascismo durante la seconda guerra mondiale. Un fatterello in più per comprendere il senso di quella spaventosa guerra, scontro inter-imperialistico per la spartizione del mondo, per il saccheggio del Sud del mondo e per lo sgozzamento del processo rivoluzionario socialista.

Quarto. Anche il partito comunista italiano di Togliatti-Stalin, che pure alla vigilia dell’aggressione fascista all’Etiopia aveva pubblicato un manifesto disfattista, dopo la proclamazione dell’impero italiano, registrato l’accresciuto consenso di massa del regime fascista, rinculò da quella posizione e giunse a rivolgere un appello ai "fratelli in camicia nera" in cui chiedeva alle masse lavoratrici di rivendicare dal fascismo la piena realizzazione del programma sansepolcrista del 1919.

Ora, il programma fascista del 1919 aveva uno dei suoi perni nel rilancio dell’imperialismo italiano, che doveva scuotersi dalla "vittoria pugnalata" nella prima guerra mondiale e dare ai suoi figli il posto al sole che essi meritavano. Nell’appello del partito comunista di Togliatti ci si concentrava sulle rivendicazioni economiche (che il fascismo, in modo simile al nazismo e al keynesismo Usa, non stava in quegli anni disattendendo del tutto) e legava queste rivendicazioni all’obiettivo di far grande la patria, la nazione. Ci si opponeva solo al modo in cui l’affermazione della patria italiana sullo scacchiere mondiale era realizzato da Mussolini, a cui va riconosciuto (per così dire) il "merito" di aver mostrato che tale programma poteva essere realizzato dall’Italia solo nel modo in cui l’aveva realizzato lui e che, pertanto, tale programma non poteva che contrapporre proletari italiani e masse lavoratrici etiopi, non poteva che condurre alla catastrofe della seconda guerra mondiale, alla barbarie che avrebbe raso al suolo le tragicomiche briciole incassate dai lavoratori italiani nella seconda metà degli anni trenta anche grazie al colonialismo fascista.

La storia di questa "svolta" del partito comunista di Togliatti è raccontata da Spriano nel volume citato, ovviamente con lodi alla capacità del gruppo dirigente del Pci di svincolarsi dal dogmatismo del partito comunista d’Italia di Bordiga, di "avvicinarsi alle masse proletarie", di parlare un linguaggio a loro comprensibile.

Ed è una storia davvero istruttiva per la formazione dei militanti proletari.

Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014

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