Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014
Siria, Iran: la "distensione" avviata nel settembre 2013 è un "missile intelligente" contro la lotta antimperialista degli sfruttati
Nell’estate 2013 il vulcano mediorientale sembrava di nuovo sul punto di esplodere: avvisaglie di "guerra civile" in Egitto; minaccia di un intervento militare diretto contro la Siria di Assad da parte degli Usa, della Gran Bretagna e della Francia; opposizione della Russia a questo intervento e invio della flotta russa dal mar Nero nelle acque mediterranee...
Poi "improvvisamente" la situazione è sembrata distendersi. 1) In Egitto il potere è stato assunto dal generale al-Sisi. La stampaoccidentale si è felicitata dell’avvenimento e ha commentato:l’azione delle forze armate egiziane (pur con qualche "eccesso") ha finalmente ripristinato la tranquillità sociale e la tolleranza religiosa nell’Egitto ammorbato dall’integralismo dei Fratelli Musulmani.
2) In Siria il governo di Assad, grazie alle trattative tra Mosca e Washington, ha accettato di mettere il suo arsenale chimico sotto il controllo internazionale. La stampa occidentale si è felicitata dell’avvenimento e ha commentato: il "dittatore" di Damasco comincia a sentire il peso dell’ira della comunità internazionale, si va verso la composizione pacifica della crisi siriana.
3) La classe dirigente iraniana ha deciso di accettare il blocco del suo programma nucleare e di avviare, dopo trent’anni, la riappacificazione con gli Stati Uniti. La stampa occidentale si è felicitata dell’avvenimento e ha commentato: la linea dura degli Usa e della Ue con la repubblica islamica ha finalmente dato i suoi frutti; la vittoria di al-Sisi in Egitto, l’accordo sulle armi chimiche in Siria e l’avvio dei negoziati di Ginevra con l’Iran stanno aprendo la via ad una soluzione pacifica ed equilibrata dei conflitti che attraversano la regione; ne trarranno profitto tutti i soggetti della contesa, comprese le "martoriate" popolazioni dell’area.
Anche questa volta, la nostra "lettura" degli avvenimenti mediorientali è opposta a quella della stampa occidentale. Per noi del "che fare" a scendere sul Medioriente non è la brezza della pace ma una cappa di piombo che rafforza la prigionia delle masse lavoratrici dell’area. Sarà difficile per gli sfruttati mediorientali accettare le conseguenze della "distensione" così tanto celebrata nella stampa ufficiale, tanto più che le potenze occidentali, la Russia, la Cina e gli stati dell’area, attraverso i salamelecchi diplomatici in corso, stanno disseminando il terreno di mine per imporre totalitariamente il proprio interesse anche a danno dei provvisori alleati, in un tira e molla che è destinato a riaprire, improvvisamente e senza che nessuno lo voglia, la bocca del vulcano.
Per comodità di esposizione, divideremo l’analisi della situazione mediorientale in due articoli: nel primo ci soffermeremo sulla "crisi siriana", nel secondo sui fatti egiziani. Invitiamo il lettore a tenere a mente che non si tratta di "vicende" separate e indipendenti, bensì di inter-connesse articolazioni di un’unica "vicenda". Che chiama e chiamerà in causa direttamente anche chi oggi se ne sente lontano: i lavoratori occidentali.
La "distensione" che si è improvvisamente aperta in Siria nel settembre 2013 è fetida almeno quanto lo strike militare che stava per essere lanciato. Il "pacifismo" del Papa, di alcuni parlamenti europei, il "neutralismo" della Bonino e di Merkel sono missili contro il popolo della Siria e contro gli sfruttati del Medioriente (e dell’Occidente) quanto le bombe dei caccia Usa e Nato.
Estate 2013: la Siria è da tempo nel mirino di Israele, del Qatar, dell’Arabia Saudita, della Giordania, della Turchia e, apparentemente più defilati, dei veri direttori d’orchestra dell’operazione: gli Usa, la Gran Bretagna, l’Italia, l’Ue (1). I gangstersoccidentali e i loro (più o meno fidati) alleati mediorientali non agiscono direttamente. Lo fanno attraverso una finta opposizione siriana, composta da mercenari, ricconi siriani, agenti dei servizi segreti occidentali. Ognuno ha le sue specifiche mire brigantesche, spesso anche contrapposte a quelle degli altri soci in affari. Il Qatar, la cui "progressista" al-Jazeera inondò il mondo nel 2011 con un’infame campagna contro Gheddafi e la repubblica della Jamaria, punta ai giacimenti di gas del deserto siriano e alla costruzione di un’autostrada energeticaverso l’Europa via Turchia (2). Israele intende regolare i conti definitivamente con chi continua a non accettare la propria occupazione delle alture del Golan, così da assumere anche indisturbato il controllo delle acque dell’area. La Francia "socialista" di Hollande, nel solco della migliore tradizione social-imperialista, vuole riconquistare il suo ex-protettorato in Libano-Siria. L’Italia espandere verso la Siria la testa di ponte già stabilita in Libano sotto le tende Unifil...
I padrini della cosiddetta opposizione siriana sono però interessati anche a un comune obiettivo, che nel 2013 diventa urgente mettere a segno e che li unisce in una Santa Alleanza Democratica.
La cacciata di Mubarak e Ben Ali e la contro-offensiva imperialista
La Siria di Assad è un vitale perno del blocco di stati e movimenti popolari che nell’ultimo decennio si è costruito intorno alla repubblica dell’Iran. Tale blocco va da Teheran al Libano degli Hezbollah al lager a cielo aperto straziato ma tutt’altro chedomo di Gaza. Damasco è il crocevia di collegamento Est-Ovest di questo blocco. Negli ultimissimi anni esso è arrivato ad estendere la sua influenza anche su un settore dell’Iraq occupato dalle truppe Nato, quello a maggioranza sciita.
Tale blocco cerca di portare avanti una politica di sviluppo capitalistico autonomo dalle imposizioni dei centri finanziarii occidentali. A tal fine, si è appoggiato alla Cina, alla disponibilità di mezzi finanziari e industriali di Pechino (3). La quale, a sua volta,è attentissima a consolidare e ramificare la sua presenza in un’area da cui arriva il 45% del petrolio e del gas importati e dalla quale si controllano le rotte dall’Africa orientale, da cui proviene un altro 25% delle importazioni energetiche di Pechino.
In questa dinamica già preoccupante per le potenze occidentali e i loro alleati, nel 2010-2011 arriva un terremoto che fa scattare l’allarme rosso: i regimi di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, due cani da guardia degli interessi delle potenze occidentali nell’area, cadono ad opera di due ampie sollevazioni popolari.
La contro-offensiva dell’imperialismo, che, pur se a parole elogia la primavera araba, in realtà digrigna i denti, non si lascia attendere: dal Sudan, altro paese diretto da una politica borghese autonomista in ottimi rapporti d’affari con Pechino, viene sganciata la regione meridionale, quella dove sono collocati i pozzi petroliferi controllati dalle imprese cinesi; parte l’aggressione alla Libia di Gheddafi; partono le manovre e ricatti finanziari per normalizzare le piazze della Tunisia e dell’Egitto.
L’aggressione alla Siria è l’altro anello di questa catena. Costringere la Siria a sganciarsi dal blocco iraniano oppure installare un regime fantoccio a Damasco oppure jugoslavizzare il paese in tre-quattro cantoni sotto il controllo della "comunità internazionale" permetterebbe di distruggere il ponte di collegamento Est-Ovest della trama borghese "autonomista" tessuta da Teheran e di rendere precario il flusso energetico dal golfo Persico e dall’Africa verso Pechino. Il bastone contro Damasco servirebbe anche a far scendere una cappa di piombo sulle masse lavoratrici della regione (al di là della loro nazionalità e religione) rimurandole entro le divisioni statali e religiose entro le quali il colonialismo storico, le classi aristocratiche locali, il neo-colonialismo e le borghesie nazionali locali le hanno (ciascuno con il proprio ruolo) recintate. Il blocco Beirut-Damasco-Teheran non può forse potenzialmente offrire agli sfruttati mediorientali un campo di lotta antimperialista più ampio di quello delimitato dai meschini recinti statali o micro-statali? L’esperienza degli sfruttati libanesi legati a Hezbollah, per quanto incapsulata entro una prospettiva non coerentemente antimperialista
è emblematica di questa potenzialità.Sottomettere o spazzare via la Siria di Assad diventa per le potenze occidentali ancor più urgente nellaprimavera del 2013, quando l’orizzonte imperialista, pur alleggerito dal doppio successo in Libia e nel Sudan meridionale, è rabbuiato da altri due nuvoloni.
1) L’Egitto di Morsi, che in una prima fase si era schierato contro la Siria di Assad e contro l’Iran nella Santa Alleanza Onu-Nato-Ue, si apre al dialogo e alle trattative economiche con Teheran. Vi è spinto dal tentativo di trovare il supporto economico che i grandi capitalisti egiziani e il capitale finanziario occidentale gli stanno facendo mancare. Per Israele, le petro-monarchie arabe e le potenze occidentali è il colmo: la presidenza Morsi non solo non intende sigillare il valico palestinese di Rafah aperto dalla sollevazione egiziana nel 2011, ma si permette di ipotizzare l’aperturadi una breccia verso il fronte "sciita"iraniano!
2) Contro l’"opposizione siriana" e il piano dei suoi mandanti scendono in campo le milizie popolari libanesi di Hezbollah, che giustamente, come denunciato in alcuni comunicati che la stampa occidentale si guarda bene dal riprodurre, hanno intuito che quella in corso in Siria è un’aggressione imperialista rivolta non "solo" contro il popolo siriano ma anche contro quello libanese e contro tutti i popoli mediorientali.
Nello stesso tempo, anche per effetto di questa ridislocazione delle forze, arranca sempre di più il cavallo di Troia che la Santa Alleanza Democratica ha messo in piedi in Siria contro Assad. Nonostante i generosi aiuti delle petro-monarchie del Golfo e nonostante la continua copertura militare e diplomatica di Washington, Londra, Parigi, Ue (4), l’opposizione siriana non ha ottenuto i risultati attesi dai suoi padrini. Dopo un iniziale sbandamento, l’esercito e il governo siriano hanno ripreso in mano l’iniziativa e riconquistato il controllo di quasi tutte le zone strategiche del paese. Si sono giovati sicuramente dell’aiuto giunto dalla Russia e dall’Iran, ma gli elementi essenziali che hanno permesso al governo di Assad di resistere e di contrattaccare sono stati "interni".
1) Da un lato, è entrato in gioco il già ricordato intervento delle milizie di Hezbollah nelle zone vicine al confine libanese.
2) Dall’altro lato, la massa della popolazione lavoratrice siriana, che pure avrebbe tutte le ragioni per scendere in lotta contro la politica di Assad (5), non ha abboccato all’amo. La stragrande maggioranza dei lavoratori e dei contadini poveri siriani, anche grazie alla testimonianza dei milioni di emigrati iracheni stabilitisi nel paese dopo il 2003 sul destino dell’Iraq "liberato dalla dittatura" di Saddam ad opera della Coalizione dei Cavalieri della Democrazia, ha intuito che dietro l’"opposizione siriana" si staglia l’ombra della dittatura imperialista, che gli "oppositori siriani" contestano ad Assad il fatto di non essersi sufficientemente piegato al liberismo e alla svendita richieste dall’Occidente, piuttosto che i cedimenti e le inconseguenze nella lotta contro queste richieste.
Balcanizzare il Medioriente, con la "pace" o con la guerra
In questa situazione è comprensibile che alcuni pezzi da novanta della coalizione anti-siriana decidano di sparare qualche altra cartuccia. L’Arabia Saudita spinge il piede sull’acceleratore del golpe militare in Egitto, anche per pungolare gli Usa e per riaffermare il proprio ruolo egemone nella penisola arabica ai danni dell’ascendente e intraprendente Qatar, a cui si rimprovera di non essere del tutto consapevole dei rischi a cui si può aprire la strada con la politica economica di alleanza con Morsi e la Turchia. La Francia del "socialista" Hollande vuole ripetere la fuga in avanti sperimentata con successo contro la Libia. Israele, che ha già colpito con la propria aviazione il territorio siriano, smania per regolare i conti definitivamente con Damasco e, nell’occasione, per lanciare un affondo chirurgico contro l’Iran. Anche l’amministrazione statunitense mette il dito sul grilletto ma per attuare un disegno strategico più ampio a cui gli Usa sono indotti dal proprio ruolo di gendarme planetario e la cui sofferta messa a punto scava fratture in seno alla stessa squadra di Obama.
Il Pentagono e il Dipartimento di Stato, anche per effetto del vittorioso golpe in Egitto, vorrebbero lanciare l’attacco militare diretto contro la Siria. Obama e il gruppo che dirige con lui dalla Casa Bianca la macchina Usa non sono d’accordo con questa tattica. Temono, come già accaduto in Iraq e in Afghanistan, di conquistare facilmente la capitale della Siria ma di rimanervi poi impantanati per la resistenza, sorda o organizzata, della popolazione. Questo avrebbe contraccolpi morali ed economici all’interno degli Usa, indebolirebbe gli Usa nel più decisivo scacchiere asiatico, facendo mancare ossigeno al "pivot to Asia" lanciato da Obama. L’amministrazione Obama è inoltre consapevole che gli Usa non possono mantenere il dominio sul Medioriente nelle forme in cui lo hanno esercitato dalla seconda guerra mondiale, con lo stesso sistema di alleanze: lo sviluppo dei rapporti capitalistici e la modifica delle strutture sociali avvenuti nel frattempo nella regione non sono più compatibili con quelle forme, con quel sistema. Di qui i contrasti crescenti tra l’amministrazione Obama con Israele e con l’Arabia Saudita. Di qui la decisione della Casa Bianca di appoggiare il golpe in Egitto e, nello stesso tempo, di sospendere gli aiuti alla giunta militare di al-Sisi, paventando il rischio di tornare a un ormai insostenibile regime stile Mubarak.
Nello stesso tempo, la Casa Bianca non può neanche far finta di niente di fronte alla situazione che si è venuta creando in primavera in Medioriente, anche per la corrosione che ciò comporta sul potere egemonico della potenza globale, persino rispetto ai propri tradizionali alleati, Israele e Arabia Saudita, che vorrebbero un colpo militare urgente, pressati come sono da interessi capitalistici non pienamente coincidenti con quelli globali a cui cerca di rispondere l’amministrazione Obama. La decisione cui perviene la Casa Bianca è quella di minacciare un pesante affondo militare contro la Siria e nello stesso tempo di mostrarsi disponibile alla trattativa nel caso Assad si dichiari disponibile a consegnare il suo arsenale chimico. L’obiettivo è di spianare la via alle forze mercenarie nel primo caso oppure quello di allargare gli spazi di manovra della comunità internazionale entro i confini siriani nel secondo caso.
Nell’uno e nell’altro caso la Casa Bianca punta a stanare la disponibilità all’avvio di negoziati diretti registrata entro la classe dirigente iraniana e simboleggiata dalla vittoria (con la benedizione dell’"intransingente" Khamenei) del diplomatico Rohani alle elezioni presidenziali del giugno 2013. Non è la risposta della potenza globale di una volta, è vero, ma non è la dichiarazione di impotenza che tanti analisti hanno ritenuto di mettere in luce. A meno che la sua politica non trovi una risposta intransigente da parte della Cina o, su un altro piano, da parte delle masse lavoratrici dell’area, risposta che alla Casa Bianca giustamente ritengono al momento improbabile, Obama prevede che il suo "doppio binario", in ogni caso, indebolirà il fronte popolare e borghese, con sponda a Pechino, minacciosamente delineatosi in Medioriente nel 2012-2013.
Quale sia stato l’esito, è noto. La Russia ha raccolto (per mantenere la propria area di influenza in Siria) lo spiraglio lasciato aperto sulla Siria da Obama, Obama ha accolto la riformulazione di Putin della propria proposta e, pur dovendo incassare la strigliata del presidente russo sul New York Times, è riuscito ad avviare le trattative con l’Iran. Sembra la sconfitta delle pulsioni belliche degli Usa, la vittoria della pace e delle ragioni dei popoli.
Tutt’altro!
Il senso della "svolta" diplomatica
Sul senso contro-rivoluzionario del golpe in Egitto ci soffermiamo nell’articolo a pag. 15. Vediamo qui quello delle trattative siriane ed iraniane.
Sin dalla sua vittoria elettorale del giugno 2013 in sostituzione di Ahmadi-Nejad, il "nemico giurato" di Israele e degli Usa, il neo-presidente Rohani si è dichiarato favorevole alla riappacificazione con gli Usa. La "svolta" di Rohani (avallata dalla "guida suprema" Khamenei) è dovuta alle pesanti conseguenze sull’economia del paese del trentennale embargo imposto dagli Usa e dalla Ue (6).
A causa di queste sanzioni, le esportazioni di greggio dell’Iran (l’80% dell’export iraniano) sono passate dai 2,3 milioni di barili giornalieri del 2012 ai 900 mila del 2013, con una riduzione degli incassi dagli 8 miliardi di dollari mensili del 2011 ai 3,4 miliardi del 2013. Il blocco dei pezzi di ricambio e delle tecnologie più avanzate posseduti dall’Occidente ha aggravato la difficoltà iraniana nel modernizzare la propria industria petrol-chimica a tal punto che in Iran, tra i principali produttori di petrolio, scarseggia la benzina. L’inflazione è arrivata a superare il 45%. I tempi sono, insomma, cambiati da quando nel 2005 (all’epoca dell’elezione di Ahmadi-Nejad) l’Iran, soprattutto grazie al corso dei prezzi delle materie prime, disponeva di riserve in valuta per oltre 100 miliardi di dollari. La borghesia e la classe dirigente iraniana non vogliono certo tornare a svolgere il ruolo subordinato sostenuto ai tempi dello scià. Ma con l’avvicinarsi della minaccia militare sulla Siria, proprio storico alleato e cuscinetto protettivo, cominciano a temere che il boicottaggio economico dell’imperialismo e l’apertura di un fronte militare diretto possano farle perdere tutto come accaduto a Saddam Hussein e a Gheddafi. Né intendono favorire la scesa in campo dell’unica forza sociale (e militare) in grado di tenere testa all’imperialismo: la lotta degli sfruttati iraniani e mediorientali organizzata unitariamente oltre gli artificiali steccati religiosi e nazionali oggi esistenti.
Ecco il calcolo di classe (borghese) che ha portato la classe dirigente iraniana ad aprire agli Usa e a mettere la sordina alla denuncia della politica colonialista di Israele dalla tribuna dell’Onu. Gli Stati Uniti hanno così cominciato a raccogliere la semina iniziata dal 1979.
Avanza la pace? Sì, la pace imperialista, peggiore, se possibile, della guerra imperialista, perché fondata sull’arretramento della mobilitazione degli sfruttati, sul consolidamento dei muri statuali che li imprigionano. Tornano a parlare le diplomazie perché devono parlare di meno gli sfruttati, perché questi ultimi devono tornare zitti ai luoghi di produzione senza fiatare, senza dire la propria (cercando di imporla) sui destini del proprio paese e del mondo, perché gli operai, i diseredati e i contadini poveri dell’area devono restare prigionieri dei confini statali entro cui sono provvisoriamente incapsulati. Verso fatti egiziani e l’accordo diplomatico sulla Siria. L’iniziativa diplomatica russa in Siria ha contribuito a evitare l’azione militare contro la Siria. Ma a che prezzo? "Chiedendo" al popolo e agli sfruttati siriani di accodarsi al proprio governo nell’accettare il controllo e le decisioni dei cosiddetti "organismi internazionali", Mosca ha, di fatto, lavorato alla passivizzazione dei proletari siriani e ha indicato all’insieme degli oppressi mediorientali la via della sottomissione entro i "propri" confini statuali come l’unica praticabile dinnanzi alle pretese dell’imperialismo. Russia e Cina hanno interesse a limitare la preminenza statunitense in Medio Oriente, ma mirano a farlo evitando che si possa scatenare un incendio sociale nella regione. Mosca e Pechino (la cui politica estera è interamente dettata dalle esigenze di crescita dei propri capitali nazionali) sanno che una sollevazione delle masse proletarie e sfruttate dell’area minerebbe non solo il dominio Usa, ma anche i loro interessi strategici, economici e politici.
L’esito complessivo (provvisorio) dello scontro non segna, quindi, una
débâcle degli Usa. Washington incassa, invece, un iniziale sfrangiamento del progetto unitarista borghese che stava prendendo piede in Medioriente. La Cina, pur conservando le sue posizioni, è costretta a far buon viso a cattivo gioco. Conta sul fattore tempo e si accontenta di questo. Ad incassare un colpo profondo è, invece, la mobilitazione degli sfruttati, il sentimento di avere destini intrecciati nutrito dai lavoratori e dai diseredati mediorientali. E questo proprio quando la cappa imperialista, sotto l’apparente distensione e tavolo di pace, predispone nuove conflagrazioni.È vero che l’apertura dell’Iran offre un aiuto alla strategia della declinante super-potenza Usa, ma il "nuovo corso" tra Washington e Teheran, se consolidato, acuirà i già tormentati rapporti tra gli Usa e l’Arabia Saudita. La Cina, da parte sua, fino a quando potrà accettare di limitare la sua espansione in una regione da cui dipende il suo rifornimento energetico? L’Ue converge con gli Usa nel tagliare l’erba sotto i piedi a ogni piano unitarista borghese islamico, sotto la direzione del Qatar o dell’Iran che sia, ma non trova certo conveniente avere il caos alle porte di casa, in un’area da cui essa trae una consistente quota della sua energia e da cui vorrebbe trovare una fonte alternativa al gas russo, da cui al momento l’Ue dipende. Le convergenze raggiunte nel settembre 2013 sono, quindi, provvisorie. Ogni attore le ha accettate come male minore per prepararsi meglio a rimetterle in discussione a vantaggio proprio e a danno altrui. In Medio Oriente, cova sotterraneo uno scontro di enormi dimensioni che coinvolgerà grandi e piccole potenze e che sarà consumato, più di quanto non stia già avvenendo, tutto sulla pelle delle masse lavoratrici della regione. Queste ultime, per non esserne stritolate, sono e saranno chiamate a prendere direttamente in mano la bandiera della battaglia antiimperialista, cercando la loro forza, non nell’alleanza con le borghesie nazionali dell’area, ma nella propria unificazione al di sopra degli steccati nazionali-religiosi esistenti e in un programma che leghi la lotta contro l’oppressione imperialista con quella contro lo sfruttamento capitalistico.
La partita mediorientale riguarda anche i lavoratori occidentali. Da un ulteriore sfondamento ("pacifico" o militare che sia) in Siria e in Medio Oriente i governi e le aziende occidentali trarrebbero nuova forza anche contro i proletari d’Occidente. Utilizzerebbero la sottomissione del popolo siriano e l’ulteriore schiacciamento delle masse lavoratrici mediorientali anche per dare una maggiore spinta alla concorrenza al ribasso tra gli sfruttati dei vari continenti, rafforzando così una delle loro principali armi di ricatto puntate alla tempia dei lavoratori occidentali. Inoltre, la politica e la propaganda di guerra (e di "pace") mirano a incatenare i lavoratori al carro della "propria" nazione e della "propria" azienda. Oggi questo "legame" è usato per piegare il più passivamente possibile i lavoratori alle esigenze e ai voleri delle imprese; domani, qualora la competizione internazionale tra grandi potenze dovesse passare dal piano commerciale a quello militare, questo "legame" servirà come base per far accettare come cosa "naturale" ai lavoratori di diventare carne da cannone contro altri lavoratori nel nome della difesa della patria. Anche per questo tra i proletari occidentali deve iniziare a farsi strada la consapevolezza di non aver alcun interesse ad appoggiare né le politiche di guerra né le politiche di "pace" dei propri governi. Di avere, al contrario, tutto l’interesse a sostenere la resistenza anti-imperialista degli sfruttati arabi e islamici in modo pieno e incondizionato, a prescindere dalle bandiere in cui essa al momento si riconosce.
Note
(1) Per la nostra analisi della "crisi siriana" rimandiamo all’articolo "Giù le mani assassine dell’Occidente imperialista dalla Siria e dall’Iran" apparso sul n. 76 del
che fare e consultabile sul nostro sito.(2) Vedi gli articoli "Gli errori di Doha, il ritorno di Riyad: la guerra vista dal Golfo" e "Il Qatar rientra nei ranghi" pubblicati sul numero 9 del 2013 della rivista
Limes.(3) La Cina oltre ad opporsi alle sanzioni è anche il primo partner commerciale dell’Iran. Nel 2011 l’interscambio tra i due paesi si è aggirato sui 45miliardi di dollari.
(4) L’Italia, tra l’altro, è stata sin da subito una delle nazioni animatrici (insieme a Usa, Inghilterra, Francia, Arabia Saudita, Turchia e Qatar) del gruppo "amici della Siria", il consesso diplomatico costituitosi in risposta al veto opposto dalla Russia e dalla Cina alle mozioni di condanna contro Damasco.
(5) Come abbiamo scritto sul n. 76 del che fare, il partito Baath nei decenni ha costantemente ripiegato dalle sue (pur moderate) iniziali posizioni "anti-imperialiste". Nel (vano) tentativo di non entrare nel mirino degli Usa ha partecipato 1990-1991 alla coalizione Onu-Nato contro l’Iraq di Saddam e successivamente ha accettato i diktat del Fondo Monetario Internazionale.
(6) Secondo una stima del Carnegie Endowment le sanzioni sono costate sinora all’Iran circa 100 miliardi di dollari (Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2013). Va ricordato che Washington colpisce con apposite sanzioni anche i paesi che non riducono progressivamente i loro acquisti di greggio da Teheran.
Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA