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Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014

I proletari cinesi ridotti in schiavitù e contenti di esserlo esistono solo nei sogni dell'imperialismo

Nei numero precedenti del "che fare" abbiamo evidenziato uno degli elementi che ha messo alle strette lo sviluppo cinese e la stabilità dell’intero ordine capitalistico mondiale: la formazione di un enorme proletariato industriale in Cina e la mobilitazione di esso per migliori condizioni di lavoro e spazi effettivi di organizzazione sindacale.

Anche la stampa ufficiale ha cominciato a parlarne, lasciamo stare con quali strampalati commenti e interpretazioni. Riportiamo un esempio dalla rivista The Economist.

The Economist, 11 maggio 2013 - Shenzhen

"Donne in fabbrica. Poiché diminuisce l’offerta di operaie, le operaie acquistano forza contrattuale."

Seduti attorno ad un tavolo del  ristorante, sei lavoratori discutono i progressi della loro azione sul lavoro. Cinque di loro sono donne, come lo sono la maggior parte delle varie centinaia di loro colleghe che hanno occupato la fabbrica di giocattoli da metà aprile. Stanno dormendo sui pavimenti, affrontando ratti e zanzare, per fermare il proprietario che sta chiudendo la fabbrica senza dare loro un giusto compenso. Quelli al tavolo sono tutti migranti delle campagne. Un paio è in lacrime. Tutte sono arrabbiate e determinate a non cedere.

 Nella provincia del Guangdong, dove sono prodotte quasi il 30% delle esportazioni della Cina, le donne superano di gran lunga in numero gli uomini nelle linee di produzione ad alta intensità di lavoro, come quelle alla fabbrica di giocattoli di Shenzhen, vicino a Hong Kong. Le donne delle campagne sono assunte per la loro supposta docilità, le agili dita e l’attenzione da capogiro nei dettagli.

In anni recenti, però, la forza lavoro del Guangdong è cambiata. L’offerta di lavoro a basso costo non qualificato, che una volta sembrava illimitata, ha iniziato rarefarsi. Ora i capi delle fabbriche sono tutti lì a chiedere alle loro lavoratrici di rimanere. Allo stesso tempo, le donne che sono emigrate verso le città industriali sono divenute più istruite e più consapevoli dei loro diritti. Nelle fabbriche ad alta intensità di manodopera, gli stereotipi sulla passività femminile iniziano a rompersi.

Negli ultimi tre decenni la migrazione di decine di milioni di donne dalle campagne alle fabbriche nel Guangdong e verso le altre provincie della costa ha aiutato a trasformare la visione del mondo di un settore particolarmente oppresso della società cinese (il tasso di suicidi tra le donne di campagna è di gran lunga più alto che tra gli uomini di campagna). Le condizioni nelle fabbriche sono state spesso dure, con poca sicurezza, lunghi orari di lavoro illegali, alloggi stipati, poche e brevi pause, ma per molte lavoratrici questo è stato liberatorio e stimolante, sia da un punto di vista personale che finanziario. (...)

I cambiamenti demografici in Cina si sono spostati in modo cruciale in loro favore. La scarsità di lavoro, che ha iniziato a colpire le manifatture a bassa qualifica nella seconda metà del passato decennio, ha fatto crescere le remunerazioni e costretto le fabbriche a migliorare le condizioni di lavoro. Una volta tutti gli scioperi, ma impensabile (per entrambi i sessi), sono diventati in modo crescente sempre più comuni. Aneddoticamente almeno, le donne appaiono avere la stessa probabilità di prenderne parte come gli uomini.

Gli scioperi nel 2010 hanno coinvolto fabbriche nel Guangdong di proprietà dell’Honda, azienda di auto giapponese, che ha aiutato a galvanizzare l’attivismo (sindacale n.) sui posti di lavoro. Una delle lotte successive si è verificata nella città di Zhongshan, dove i lavoratori erano maggiormente di sesso femminile L’agitazione ha strappato aumenti salariali e ha imposto che la contrattazione collettiva fosse guidata da rappresentanti scelti dagli stessi lavoratori piuttosto che dai sindacati controllati dal governo. Alla fabbrica di giocattoli di Shenzhen, i lavoratori hanno scelto cinque rappresentanti per negoziare con la direzione. Tre di loro sono donne. Un lavoratore di sesso maschile dice che le donne sono più consapevoli dei loro diritti.

Il China Labour Bullettin, una sede ong a Hong Kong, il 19 marzo ha riferito, che circa un quinto degli scioperi nel Guangdong dall’inizio dell’anno era avvenuto in fabbriche e altri posti di lavoro in cui il personale era largamente femminile. Riferisce che le donne sono state anche "alcune dei lavoratori più attive nel pubblicare le informazioni on-line su scioperi e proteste, e nella ricerca di assistenza legale per i problemi inerenti al lavoro". La protesta dei lavoratori del settore dei giocattoli sono una prova di ciò. Essi hanno inviato fotografie e microblog di protesta di lavoratrici vestite con giubbe rosse di fronte agli schieramenti della polizia. (...) Nei prossimi anni la trasformazione industriale del Guangdong è probabile che riporti in parità numerica il rapporto tra i sessi in alcune metropoli dove si è squilibrato a favore delle donne. Nella circoscrizione (distretto) dove lavora la Ong, ci sono circa 30000 lavoratrici e pochi uomini. Il leader del gruppo, però, dice che questa situazione sta cambiando velocemente e le produzioni ad alta intensità di lavoro vanno fuori dalla zona e lasciano il posto a hub logistici emergenti. Dongguan una metropoli un tempo altamente insolita in Cina perché aveva molte più donne che uomini, ha una maggioranza maschile dal 2010.

Sono così disperate alcune fabbriche nel trovare manodopera a basso costo da consentire agli uomini di lavorare nelle linee di produzione, una volta esclusivamente riservate alle donne. Questo non significa, comunque, che le donne delle fabbriche della Cina stanno andando via e tornano a casa. Le lavoratrici di giocattoli molti fra i 30 e i 40 anni, che hanno lavorato in fabbrica da quando hanno aperto, circa 20 anni fa, sono tipiche della loro generazione di migranti. Sono diventate cittadine e i loro figli non conoscono altro. "Non possiamo coltivare campi ora", dice uno. No, concorda un altro, "Noi nonpossiamo tornare indietro".

Dall’Economist dell’11 maggio 2013.

Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014

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