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Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014

Alcune notizie sulla politica di Pechino in materia agricola

Uno dei talloni di Achille del sogno (capitalistico) cinese è rappresentato dall’agricoltura. In Cina abita il 20% della popolazione mondiale e nel paese è collocato l’8% delle terre coltivabili del pianeta (Fao, 2011). In 35 anni, dal 1978 al 2013, la popolazione lavoratrice delle campagne cinesi rispetto a quella totale cinese è diminuita dal 60% al 40%. Contemporaneamente è diminuita la superficie usata per le coltivazioni e l’allevamento. Eppure fino a pochissimi anni fa la Cina è riuscita ad aumentare progressivamente la produzione agricola e a nutrire la crescente (in termini assoluti e in termini relativi) popolazione urbana. Le trasformazioni sociali ed economiche nelle campagne sono state uno dei volani dello sviluppo capitalistico cinese.

Anche questo volano ha, tuttavia, raggiunto un limite, e questo è un aspetto cruciale dell’esaurimento della fase estensiva dell’accumulazione capitalistica cinese di cui parliamo nell’articolo.

Dal 2010 le importazioni agricole della Cina (soia, cereali, carne, zucchero, cotone) sono in forte aumento. Nel 2012 esse sono aumentate del 12% rispetto all’anno precedente, superando le esportazioni (in crescita lenta) di 56 miliardi di dollari. Il deficit agricolo è cresciuto del 20% rispetto al 2011. L’importazione delle farine e dei cereali è addirittura aumentata del 100%. Questo trend preoccupa la classe dirigente cinese. Tanto più che il paese da cui Pechino sta aumentando la dipendenza agricola sono gli Stati Uniti, che forniscono il 20% delle importazioni agricole cinesi.

L’aumento della produzione agricola cinese al ritmo richiesto dallo sviluppo capitalistico del paese è ostacolato da un insieme cause, sociali, tecnologiche e geografiche. L’esito e le conseguenze del programma delineato dalla classe dirigente cinese non possono essere analizzate senza considerare la relazione esistente in regime capitalistico tra agricoltura e industria, i vincoli imposti dal sistema capitalistico mondiale sullo sviluppo agricolo della Cina (e del Sud del mondo) e gli effetti derivanti dall’uso capitalistico delle risorse ambientali. Ci limitiamo per ora ad accennare ai tasselli principali di questo programma.

I dirigenti di Pechino stanno, innanzitutto, cercando un tampone in un’accorta politica estera. Da un lato, la Cina sta cercando di riorientare le importazioni agricole dagli Usa all’America Latina e all’Africa. Dall’altra parte sta cercando di siglare accordi con alcuni paesi dalle significative risorse agricole, tra i quali spiccano quello firmato nel 2013 con l’Ucraina e quello ancora appena impostato con la Romania. Se questa politica offre un sollievo, nello stesso tempo essa aumenta la vulnerabilità della Cina nel clima di turbolenza delle relazioni internazionali in cui stiamo entrando. Anche per questo motivo la classe dirigente cinese sta dedicando grande attenzione alla modernizzazione dell’agricoltura cinese.

L’introduzione delle sementi ogm, l’ampliamento dell’uso delle macchine, il completamento delle gigantesche opere idrauliche in corso di  realizzazione porterebbero sicuramente a un aumento delle rese agricole. Ma oltre che tecnologico, il problema è sociale, è legato ai rapporti agrari ereditati dal periodo maoista.

Quando furono stabiliti nel corso dell’epopea rivoluzionaria antimperialista, tali rapporti segnarono un netto progresso storico e colpirono in profondità la struttura agraria che aveva ostruito lo sviluppo borghese del paese e favorito la conquista (diretta o indiretta) di esso da parte delle potenze colonialiste. La proprietà collettiva della terra fu uno degli ingredienti della riforma agraria maoista. La proprietà collettiva della terra è ancora in vigore e essa non favorisce l’ulteriore espansione degli investimenti in agricoltura. È vero che con la riforma di Deng i campi dei villaggi sono stati divisi e appaltati alle famiglie per un periodo trentennale, ma questa misura, capitalisticamente stimolante per trent’anni, ora risulta insufficiente.

Per affrontare questo versante del problema, nel 2013 la direzione del partito "comunista" cinese ha introdotto la monetizzazione dei diritti d’uso della terra. Non si conosce molto degli effettivi interventi previsti, ma si può prevedere che gli effetti della misura non saranno di poco conto, anche per il consenso che essa sembra incontrare nella popolazione lavoratrice delle campagne, quella povera e quella "imprenditrice".

Attualmente la proprietà della terra è collettiva e l’uso è conferito in appalto per circa trent’anni alle singole famiglie per condurre libere attività agricole e/o industriali. La terra destinata alle coltivazione è stata ed è rosicchiata dall’espansione delle città e dei loro insediamenti industriali. Se un’impresa edile o industriale chiede alla municipalità o al distretto l’acquisto di un’area per la costruzione di un quartiere o di uno stabilimento, la terra viene confiscata alle famiglie contadine e venduta all’impresa dall’amministrazione locale responsabile.

Una parte del ricavato viene distribuito tra le famiglie che ne condividevano l’uso o la proprietà. Un’altra parte è riservato alle finanze dell’amministrazione locale. Sono state e sono numerose le vertenze dei contadini per ottenere una quota del ricavato più ampia di quella stabilita dagli amministratori, per scovare i soldi intascati sotto-banco da questi ultimi.

Spesso le famiglie contadine non sono contrarie alla vendita dell’area per l’uso residenziale o industriale. Si aspettano che con il gruzzoletto intascato possano mettere su un’attività privata (taxista, commerciante al dettaglio, artigiano) più redditizia di quella agricola oppure comprare una casa, far studiare i figli e andare a lavorare nelle fabbriche. Sono scontenti dei maneggi e degli arbitrii compiuti dagli amministratori  locali in combutta con le imprese e ciò li porta talvolta a violente lotte. Per questo sono in genere favorevoli alla privatizzazione della terra anche sul piano formale del diritto di proprietà, così da vendere direttamente il lembo che verrebbe loro assegnato.

Solo il 5% della popolazione rurale vive, però, nelle aree investite dalla urbanizzazione e dagli insediamenti industriali. Il resto (oltre 600 milioni di persone) vive in zone ancora concentrate sull’agricoltura. Anche in queste regioni, tuttavia, la spinta alla privatizzazione della terra da parte dei contadini è forte. Sia inchi vuole trasferirsi definitivamente in città, dove ritiene di trovare o ha già trovato (in fabbrica o nei piccoli commerci) una vita meno stentata di quella contadina o almeno la prospettiva di un futuro diverso per i propri figli. Sia in chi intende allargare la propria attività agricola, magari prendendo in affitto altra terra e avendo la certezza di mantenere, a differenza di quanto accade oggi, il controllo degli investimenti compiuti in lavori e attrezzature per allevamenti e coltivazioni intensive anche dopo la fine dell’appalto.

A spingere gli uni e gli altri è la spontaneità della riproduzione allargata dei rapporti sociali capitalistici e l’iniziativa organizzata dello stato e delle grandi imprese di espropriare le comunità di villaggio per disporre delle aree di insediamento industriale e della manodopera da impiegarvi. Introdotta, anche parzialmente, la privatizzazione della terra, rimane in ogni caso il problema dell’accorpamento delle porzioni in cui oggi è suddiviso il territorio dei villaggi e della modifica delle tecniche di coltivazione.

Anche in collegamento con questi problema, le cronache hanno riportato un esperimento, quello del villaggio-grattacielo di Huaxi. Sappiamo ancora troppo poco per prevederne la diffusione e l’efficacia capitalistica. Di sicuro, il grattacielo-villaggio di Huaxi fa vedere gli incubi che lo sviluppo capitalitico e l’antagonismo campagna-città ad esso connaturato hanno ancora nel loro cassetto.

Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014

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