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Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014

No al patto tra "produttori"! No alla collaborazione tra padroni e lavoratori!

Lo "sciopero generale"del 13 novembre 2013

Scriviamo quando è appena terminato lo sciopero "generale" del 13 novembre 2013 indetto da Cgil, Cisl e Uil per ottenere alcune (leggere, aggiungiamo noi) modifiche della legge di stabilità per il 2013-2014. Si è trattato di uno sciopero parziale (4 ore in alcuni settori, una sola ora nella scuola), spezzettato regione per regione, con alcune categorie (i trasporti pubblici e il credito) chiamate addirittura a scioperare in un altro giorno, per "conto proprio", separatamente dagli altri lavoratori. A queste (mezze) giornate di cosiddetta "mobilitazione", si è inoltre giunti senza che (salvo eccezioni) i luoghi di lavoro abbiano visto assemblee o altre significative iniziative di propaganda e discussione.

La preparazione e la conduzione dello sciopero sono state, insomma, pessime, e ciò ha contribuito alla limitata partecipazione dei lavoratori alla fermata. Diciamo "contribuito", perché le cause di fondo che al momento ostacolano il dispiegarsi della lotta di massa dei proletari in Italia ed Europa non sono ascrivibili a semplici fattori organizzativi. Queste (ne abbiamo più volte parlato sulle pagine di questo giornale) vanno ricercate nella complessa ristrutturazione del mercato del lavoro operata dal capitale mondializzato a scala planetaria e nella conseguente messa in concorrenza dei lavoratori occidentali con quelli degli altri continenti. Un’adeguata preparazione e "giuste" parole d’ordine non basterebbero, quindi, alla riuscita di uno sciopero generale. Lo sappiamo bene e non saremo certo noi a "farla semplice". Detto questo, è, tuttavia, importante provare a comprendere "il perché" di un determinato "atteggiamento" organizzativo della Cgil e "il come" favorire (qualunque sia la propria attuale collocazione sindacale) la messa in campo di un indirizzo di battaglia sindacale coerente con la difesa degli interessi proletari. Determinati "comportamenti" non dipendono tanto dalla pigrizia o dalla insulsaggine di qualche dirigente (che non mancano) ma dall’attuazione di una politica che affonda le proprie radici in una visione secondo la quale i lavoratori possono sperare di tutelare la loro condizione solo legandosi e subordinandosi alle esigenze delle "proprie" aziende, della "propria" nazione e del mercato. Radici antiche, di cui i recenti "comportamenti organizzativi" sono la coerente conseguenza, insieme agli altri aspetti della politica portata avanti dai vertici della Cgil verso il governo Letta e l’attacco del padronato. Questa politica si è svolta nel segno della collaborazione di classe con il governo, con la Confindustria e con le altre forze padronali.

Essa ha trovato il suo suggello in due importanti accordi firmati nel 2013: quello sul "patto di produttività" e quello sulla sottoscrizione del "protocollo di intesa" sulla rappresentanza sindacale. Vediamone gli aspetti politicamente salienti.

Il "patto sulla produttività"

L’accordo sulla produttività prende "spunto" dal decreto governativo  del 22 gennaio del 2013. Con esso il governo si impegna a ridurre al 10% la tassazione delle quote di salario (fino a un massimo di 200-500 euro) legate agli incrementi di produttività aziendale. Nel decreto vengono indicati con precisione i criteri a cui ci si dovrà attenere per accedere allo sgravio fiscale: da un lato, si specifica che ne potranno godere le quote di retribuzione legate direttamente a incrementi di produttività ottenuti grazie a "particolari sistemi di orario adottati dall’azienda" (cicli continui, reperibilità, modifica delle turnazioni, orario elastico, lavoro festivo , ecc.); dall’altro lato, si chiarisce che il ricorso al lavoro notturno "ordinario" e allo straordinario "comandato" non costituisce titolo sufficiente per accedere alle agevolazioni. È sulla base di un simile decreto che il 24 aprile 2013 si giunge alla firma dell’accordo con cui i vertici sindacali e la Confindustria dichiarano quanto segue: "È volontà delle parti sociali favorire lo sviluppo e la diffusione della contrattazione collettiva aziendale quale strumento per perseguire la crescita della competitività e della produttività delle imprese". In pratica si punta ad accordi aziendali che, agendo sugli orari, sui turni e sull’utilizzo lavorativo dei giorni festivi, favoriscano la competitività delle imprese e assecondino maggiormente le richieste dei mercati. Inoltre il "patto" ribadisce quanto affermato con l’accordo inter-confederale del 28 giugno 2011, e cioè che gli accordi aziendali possono anche derogare in peggio rispetto a quanto sancito in sede di contrattazione nazionale.

È vero che la Cgil è riuscita a far cancellare alcuni punti della iniziale piattaforma che rincaravano la dose, come il demansionamento o il controllo a distanza del lavoratore. La sostanza politica del "patto" non muta, tuttavia, di una virgola. Esso spinge verso il ridimensionamento della contrattazione nazionale a favore di quella aziendale, verso il ridimensionamento del salario "fisso" a vantaggio di quello variabile legato all’andamento della singola e specifica impresa (1). L’andare in questa direzione, la si metta come si vuole, favorisce l’ulteriore indebolimento dei lavoratori, promuovendone ancor di più la frammentazione e la divisione per vie aziendali e territoriali e quindi accentuando le difficoltà a mettere in campo l’unica arma in grado di difendere gli interessi proletari, l’organizzazione e la lotta collettive. Il "degno" coronamento di un simile  patto lo si è avuto durante le manifestazioni del primo maggio 2013, quando in alcune località (Prato e Treviso, ad esempio) i rappresentanti degli industriali sono stati chiamati a salire sui palchi sindacali. Padroni e operai, imprenditori e cassintegrati, capitani di industria e disoccupati, tutti insieme sulla stessa barca!

L’intesa sulla "rappresentanza"

Dopo solo un mese dalla firma del patto è arrivata la seconda intesa (31 maggio 2013), quella sui criteri della "rappresentanza sindacale". Essa può apparire come un neutro accordo "tecnico" che serve a certificare e a quantificare la reale rappresentatività delle sigle sindacali. Non è così. Nell’accordo è scritto: "Le parti firmatarie e le rispettive Federazioni si impegnano a dare piena applicazione a non promuovere iniziative di contrasto agli accordi" firmati in coerenza con il quadro di regole stabilite; "dovranno essere definite clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti e le conseguenze di eventuali inadempimenti sulla base dei principi stabiliti con la presente intesa".

Non bisogna essere dei premi Nobel per capire come questi passaggi mirino a bloccare esperienze analoghe a quella intrapresa dalla Fiom alla Fiat di Pomigliano, dove il sindacato dei metalmeccanici, in presenza di un accordo che prevedeva un secco incremento dello sfruttamento in fabbrica, tentò in vari modi di opporsi all’intesa siglata tra l’azienda con Cisl e Uil.

Ciliegina finale: "Sono ammesse alla contrattazione collettiva nazionale le Federazioni delle Organizzazioni Sindacali firmatarie del presente accordo" e "in coerenza con le regole definite nella presente intesa, le Organizzazione Sindacali, favoriranno in ogni categoria, la presentazione di piattaforme unitarie". Giustamente, dal suo punto di vista, il vicepresidente di Confindustria Stefano Dolcetta, dimostra di apprezzare l’accordo e sul Sole 24 ore del 2 giugno 2013 può dichiarare: "Certamente non penso che [l’accordo, n.] possa evitare scioperi e cause legali, ma è un passo avanti che aiuta a ridurre il contenzioso. È la prima volta che i sindacati accettano di misurarsi, di rimettersi al principio di maggioranza e, soprattutto, di limitare la propria libertà ed autonomia in ragione del rispetto di questo principio. Mi pare anche un bel segnale aver concordato sulla necessità di avere procedure per raffreddare il conflitto [leggi: procedure che renderanno più difficoltoso scioperare e indire assemblee contro la politica anti-proletaria delle aziende, n.]".

Gettare le basi per un’altra politica sindacale

Quei lavoratori e delegati che hanno provato un senso di "fastidio" di fronte al modo con cui lo sciopero del 13 novembre 2013 è stato preparato e che, anche a partire da simili constatazioni, intuiscono che "c’è qualcosa che non va" e vogliono provare ad opporsi anche solo ad alcuni aspetti della politica dei vertici della Cgil, sono chiamati ad una riflessione più ampia.

Quelle che appaiono "incapacità organizzative" sono il coerente frutto di un preciso indirizzo politico e della visione del ruolo del sindacato che ne deriva. Secondo questa visione il sindacato deve essere sempre meno un "luogo di organizzazione e di lotta" e diventare invece sempre più parte integrante dell’apparato statale e della complessiva macchina amministratrice del capitale nazionale. Certo, in questa ottica il sindacato deve far sì che lo stato e il governo abbiano un occhio di (relativa) attenzione verso i lavoratori. Ma lo deve fare rinunciando il più possibile alla pressione della piazza. Lo deve fare comportandosi da lobby con addentellati di massa, da corporazione tra le corporazioni.

Al più, i lavoratori devono essere chiamati a manifestare il loro dissenso verso alcuni aspetti delle politiche governative e confindustriali, ma devono farlo, in ogni caso, non "da proletari contro i padroni" ma "da cittadini tra i cittadini".  Ecco, quindi, che lo stesso sciopero (se proprio lo si deve indire) più che un momento di lotta deve diventare un momento di semplice testimonianza del dissenso. Ecco che, anziché indicare nella legge di stabilità (come avrebbe voluto una coerente difesa dei lavoratori) un altro colpo contro i lavoratori, anziché denunciare l’obiettivo contenuto in essa di "rafforzare e rendere strutturale la detassazione del salario di produttività", anziché valutare nel loro effetto complessivo la manciata di euro che forse arriverà dalla defiscalizzazione del salario prevista dalla legge insieme alle altre conseguenze della politica del governo Letta sui lavoratori, anziché far emergere l’effetto suicida per i lavoratori di questa politica complessiva e della sua prospettiva europeista, anziché organizzare la discussione su questi punti tra la massa dei lavoratori per incoraggiarne la mobilitazione, anziché cercare di collegare anche  una prima e ultra-minoritaria mobilitazione in Italia con le iniziative in campo negli altri paesi europei in vista di un collegamento internazionale della battaglia sindacale capace di fronteggiare il fronte internazionale dei padroni e dei governi, anziché mettersi sulla strada tracciata da queste esigenze, ecco che la Cgil (in coerenza con la sua impostazione di fondo) ha invece accettato l’indirizzo politico del governo Letta, ha confermato il semaforo verde a questo governo dei padroni, della Ue e dei capitalisti, si è limitata a mettere il dito in alcuni dettagli.

I nostri compagni hanno cercato di opporsi a questo andazzo, laddove se ne è data l’occasione, nelle iniziative preparatorie del 13 novembre 2013 e in altre iniziative sindacali dell’autunno 2013. Lo abbiamo fatto e continuiamo a farlo senza sognare di disporre della formula magica per accendere la lotta di classe proletaria, l’unica "svolta" che può cominciare a porre un argine all’attacco capitalistico.

Ad accendere questa lotta sarà lo stesso capitale, con l’inferno nel quale le sue politiche scaraventeranno i lavoratori. Noi puntiamo a predisporre il miglior terreno possibile a questo terremoto. Anche con la "minuta" e apparentemente infruttuosa attività sindacale, rivolta soprattutto verso la nuova generazione proletaria, al di là delle sigle sindacali o politiche di riferimento. Tale attività, a nostro avviso, è chiamata a legare l’iniziativa sui problemi immediati (foss’anche particolari ma reali e sentiti) con l’esigenza di ampliare il raggio visuale e di azione dei lavoratori all’intera politica del padronato e del governo e al destino che il sistema capitalistico sta riservando agli sfruttati e all’umanità.

Non si tratta di una strada facile. Siamo, anzi, consapevoli che nel percorrerla si impatterà con lo stesso "senso comune" dei lavoratori che (provvisoriamente) vedono nelle politiche dei vertici sindacali e nello stare "fianco a fianco" con l’azienda l’unica via (malgrado tutto) realisticamente praticabile per attutire i colpi che arrivano da ogni dove. E allora, tutto inutile? Nient’affatto. Ne abbiamo discusso in un articolo sul numero 78 a cui rimandiamo e di cui torniamo a riproporre la conclusione: "E allora tutto inutile? Nient’affatto. Innanzitutto perché senza la minuta iniziativa sindacale compatibile anche con i rapporti di forza sfavorevoli oggi esistenti, l’arretramento nelle condizioni immediate dei lavoratori sarebbe ancor più pesante. E poi perché è solo in essa che chiunque voglia farsene carico può verificare come, per fronteggiare il rullo compressore del capitale e porre le condizioni soggettive favorevoli alla nascita del nuovo movimento operaio, sia necessario un impegno collettivo, teorico e politico, che va oltre quello strettamente sindacale. Un impegno politico incardinato sulla militanza comunista a 360 gradi."

Note

(1) Uno dei punti centrali dello sciopero sulla legge di stabilità è, tra l’altro, proprio la richiesta di stanziare maggiori finanziamenti per "rafforzare e rendere strutturale la detassazione del salario di produttività …"

Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014

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