Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014
Gli scioperi e le lotte degli operai e delle operaie del Bangladesh
Negli ultimi quindici anni il settore tessile del Bangladesh è cresciuto a tal punto che oggi il paese è il secondo esportatore mondiale di abbigliamento. La sua industria lavora al servizio delle multinazionali della moda statunitensi ed europee e, con un giro di affari di circa 20 miliardi di dollari, è vitale per l’economia del piccolo e popolosissimo (150 milioni di persone) paese asiatico.
Il "segreto" di tale successo risiede nelle tremende condizioni di sfruttamento a cui sono costretti i lavoratori. Gli orari effettivi oscillano tra le dieci e le sedici ore giornaliere, i salari raramente superano i 40 dollari mensili e i ritmi lavorativi sono intensi. La aziende mancano spesso delle più elementari condizioni di sicurezza. Gli "incidenti" mortali sono pane quotidiano.
Lo sviluppo tumultuoso del settore tessile ha prodotto anche la crescita di una giovane e combattiva classe operaia (oggi il comparto sfiora i 4milioni di occupati). La sua sindacalizzazione è cresciuta rapidamente dopo i tragici fatti del 24 aprile 2013 (quando a Savar sotto le macerie del Rana Plaza persero la vita oltre 1100 operai): in pochi mesi alcune tra le principali strutture sindacali e di lotta (Bangladesh Center for Worker Solidarity, Bangladesh Garment and Industrial Workers) hanno accresciuto notevolmente i loro aderenti.
Questa spinta di massa all’azione sindacale ha dato i suoi primi frutti nel luglio 2013 strappando due significativi accordi: il "compact copre" e il cosiddetto "Accord on fire e building safety in Bangladesh". Il primo è un accordo con il governo del Bangladesh in cui viene sancito (almeno a livello formale) il diritto all’organizzazione sindacale e allo sciopero anche nelle zone franche, il diritto alla contrattazione collettiva e alcune misure preventive ed ispettive finalizzate alla sicurezza nei luoghi di lavoro. Il secondo è un’intesa stipulata con le aziende produttrici locali e con alcuni grandi marchi committenti occidentali sulla sicurezza nei luoghi In questo clima, all’inizio del settembre 2013, è esplosa la lotta degli operai tessili di Dacca la capitale del paese.
Decine di migliaia di giovanissimi e soprattutto giovanissime) lavoratori hanno bloccato per giorni la produzione e sono scesi in strada per chiedere l’applicazione degli accordi sottoscritti a luglio e per rivendicare l’aumento dei minimi salariali, orari più umani e condizioni di lavoro meno pericolose.
Nel corso delle manifestazioni (alla più grande hanno preso parte oltre 200mila operai) vi sono stati violenti scontri con la polizia. Decine i feriti. Una caserma nella zona di Gazipur (uno dei principali d istretti tessili di Dacca) è stata saccheggiata da gruppi di lavoratori che hanno portato via armi e munizioni. La mobilitazione, che ha permesso di consolidare l’organizzazione operaia, ha ripreso vigore agli inizi del novembre 2013 con nuovi scioperi e nuove manifestazioni di massa, che non si sono fermati neanche quando la polizia ha fatto uso di armi da fuoco uccidendo in piazza due giovani operai di 22 e 25 anni. Alla metà di novembre, il governo ha proposto un incremento del 50% sul salario minimo (da 38 a 58 dollari) e sembra (il tutto accade mentre scriviamo) che i sindacati e i lavoratori siano propensi ad accogliere tale mediazione. Il timore che le multinazionali possano abbandonare il paese e rivolgersi altrove pende sulla testa dei proletari come una spada di Damocle e li sta spingendo ad accettare di accantonare l’iniziale richiesta (102 dollari) e a moderare le proprie rivendicazioni.
A questo odioso ricatto si accodano involontariamente anche le campagne di boicottaggio (sviluppatesi soprattutto negli Usa) contro le case di abbigliamento occidentali che si riforniscono in Bangladesh. Anche quando mirano a denunciare le responsabilità dei grandi marchi di "casa nostra" nello sfruttamento del proletariato bangladese, tali iniziative rischiano in ultima istanza di trasformarsi in un boomerang per questi lavoratori. Non a caso una giovane operaia di Dacca, parlando delle tremende condizioni di lavoro vigenti nelle aziende del paese e delle campagne di boicottaggio internazionale, ha detto: "Noi sappiamo di essere proletari bangladesi e sappiamo di aver bisogno di lavorare. Ma almeno vorremmo avere il diritto a lavorare in un ambiente sicuro.
Ma sappiamo anche che se le d persone all’estero che comprano i nostri vestiti iniziano a boicottare i nostri prodotti, allora le nostre vite diventeranno ancora più dure" (The Nation, 15 novembre 2013).
A modo suo, questa lavoratrice sta dicendo che per spezzare il ricatto delle multinazionali il combattivo proletariato del Bangladesh ha bisogno che dall’Occidente giunga un altro tipo d’aiuto. Ha bisogno che la classe operaia europea e statunitense inizi a rendersi conto che le lotte dei proletari asiatici e di tutto il Sud del mondo la riguardano da vicino. Che ogni battaglia condotta da quei lavoratori per il miglioramento delle proprie condizioni va sostenuta qui in Occidente con la lotta contro le "nostre" multinazionali e i "nostri" governi. Che ogni conquista ottenuta dagli operai di quelle "lontane" terre va salutata con entusiasmo perché rende più vischioso e meno efficiente quel meccanismo che, mettendo in reciproca concorrenza al ribasso i proletari di tutti i continenti, sta contribuendo a chiudere nell’angolo i lavoratori occidentali.
Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA