Home page        Archivio generale "Che fare"         Per contattarci


Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014

Egitto: a quale "piazza" ha risposto

il generale al-Sisi?

Il golpe militare di al-Sisi è stato preparato e portato a termine dalla grande borghesia egiziana, dall’Arabia Saudita, da Israele e dall’imperialismo per rimettere la museruola ai lavoratori in Egitto e per sfasciare sul nascere la formazione di una trama borghese regionale unitaria e "autonomista", con sponda a Pechino, che si stava formando in Medioriente e nella quale si stava inserendo l’Egitto di Morsi.

La mazzata assestata al movimento degli sfruttati in Egitto si è giovata anche dello sfondamento che le potenze occidentali avevano messo a segno qualche mese prima in Libia, con un’aggressione che i lavoratori egiziani avevano, purtroppo, seguito con indifferenza o con simpatia. Che la lezione non vada dimenticata!

La natura contro-rivoluzianaria del golpe di al-Sisi non dipende dal fatto che il generale egiziano ha impiegato la violenza nella lotta politica. Non dipende dal fatto che egli ha infranto le regole del gioco democratico e deposto un presidente regolarmente eletto dalla maggioranza dei votanti.

La natura politica dell’azione di al-Sisi dipende dagli interessi sociali che l’hanno ispirata, dal disegno politico che egli intende portare avanti, dalle relazioni che gli uni e l’altro hanno con le potenze imperialiste. Su questi punti non ci incanta l’intervista rilasciata al manifesto del 21 agosto 2013 da Sabbahi, un esponente della "sinistra" egiziana che ha raccolto il 20% dei voti al primo turno delle elezioni presidenziali del 2012.

Nell’intervista Sabbahi afferma che le forze armate di al-Sisi si sono assunte il ruolo di rappresentare e difendere gli interessi della "gente" che si è mobilitata il 30 giugno 2013 contro il presidente Morsi, e che al-Sisi incarna la "seconda ondata della rivoluzione egiziana". Questa voce non ci incanta non perché al-Sisi sia un generale: il marxismo rivoluzionario ha riconosciuto il ruolo progressivo svolto nel processo di liberazione coloniale e nella lotta antimperialista dalle forze armate di alcuni paesi dominati. Ci viene in mente Gheddafi, protagonista nel 1969 della cacciata dei colonialisti italiani, britannici e statunitensi dalla Libia, ma qualcosa di simile si potrebbe dire persino di un Nasser, più moderato, è vero, ma anche lui rappresentante di un sommovimento popolare antimperialista, che, pur rimasto entro il solco di una politica moderata pronta a reprimere le ali più radicali del moto anti-coloniale, erose i privilegi delle tradizionali classi proprietarie egiziane, favorì l’ammodernamento capitalistico del paese e lanciò con la nazionalizzazione del canale di Suez il guanto di sfida all’imperialismo. Ma è questo il caso dell’Egitto 2013? Al-Sisi è anche solo un novello Nasser, come afferma Sabbahi?

Sì, è vero che il 30 giugno 2013 in Egitto vi è stata un’ampia mobilitazione di piazza (pur se nettamente inferiore, almeno di un fattore 100!, a quella strombazzata dai mezzi di informazione occidentali) e che la maggioranza di quella piazza ha chiesto l’intervento delle forze armate per porre fine al governo della Fratellanza Musulmana. Noi marxisti non siamo, però, feticisti della piazza. Per noi, non basta ad un orientamento politico o a una mobilitazione nascere "dal basso" per essere di sinistra o favorevole in senso lato agli interessi dei lavoratori. Neanche quando "il basso" è una piazza schiettamente proletaria, il che non è quello che è accaduto in Egitto, ci verremo fra un momento.

Ce lo insegna la nostra dottrina. Lo conferma l’esperienza storica. Quella dei paesi capitalisti avanzati, ad esempio con l’appoggio, anche proletario, al fascismo o al social-imperialismo democratico di Roosevelt-Truman. E quella dei paesi dominati o controllati dall’imperialismo, ad esempio con l’appoggio di strati di lavoratori al golpe di Pinochet organizzato nel 1973 in Cile dai grandi capitalisti, dagli agrari, dagli Usa con il sostegno degli scioperi dei camionisti e dei professionisti del paese. Ma come non vi basta, ci si potrebbe obiettare, che la piazza del 30 giugno al Cairo fosse contro Morsi e la sua politica? No, non ci basta, perché si poteva e si può essere contro Morsi per opposti interessi sociali.

In nome di quali interessi sociali l’opposizione a Morsi?

Si poteva essere contro Morsi perché egli (in coerenza con il programma della Fratellanza Musulmana) non aveva realizzato le aspirazioni che avevano portato le masse lavoratrici, prima di tutto quelle operaie, alla sollevazione contro Mubarak (1). Perché egli aveva tentato, anzi, di ricondurre i lavoratori all’ovile del dispotismo di fabbrica. Perché aveva puntato anche su questa compressione proletaria per realizzare lo sviluppo di un’economia capitalistica moderna meno succube dello strapotere delle multinazionali e svincolata dalle rendite della tradizionale classe dirigente egiziana organizzata attorno ai vertici militari.

Si poteva essere contro Morsi perché, pur se egli aveva mantenuto aperto il valico di Rafah tra l’Egitto e Gaza sbloccato dalla sollevazione del 2011, aveva, nello stesso tempo, portato avanti una politica estera contraria agli interessi dei popoli dell’area, sulla Libia e sulla Siria in primo luogo.

Si poteva, però, essere contro Morsi anche per altri interessi sociali. Perché Morsi si era mostrato troppo debole verso l’insubordinazione dei lavoratori, che ancora nella prima metà del 2013 avevano continuato a lottare per imporre le loro rivendicazioni immediate e soprattutto per consolidare il loro percorso di organizzazione sindacale e politico.

Si poteva essere contro Morsi perché il suo disegno di sviluppo capitalistico stava penalizzando gli interessi di alcuni settori della classe dominante egiziana (i vertici delle forze armate e delle imprese statali del settore turistico, agricolo, tessile e meccanico) e aveva osato incrinare il compromesso politico che si era stabilito dopo la sollevazione del 2011 tra le forze armate e i Fratelli Musulmani. O perché la politica estera di Morsi, pur all’interno del tradizionale sistema di alleanze dell’Egitto a fianco dei paesi arabi moderati e dell’Occidente, aveva osato avventurarsi nella costruzione di un mercato regionale non del tutto prono all’imperialismo, all’Arabia Saudita e ad Israele. Quest’ultimo punto è cruciale e merita qualche altra parola.

La sua prima visita fuori dal Medioriente, Morsi l’aveva compiuta a Pechino, il 28 agosto 2012. In quell’occasione aveva firmato 14 accordi bilaterali e ricevuto la promessa di investimenti per quasi 3 miliardi di dollari l’anno. Prima e dopo la visita cinese Morsi aveva collaborato con Erdogan per formare l’"asse regionale della fratellanza islamica" con la Turchia, la Tunisia, il Qatar e con i territori palestinesi governati da Hamas per acquisire un maggior peso di contrattazione nei confronti degli Usa, dell’Ue e degli altri attori regionali.

Infine, spinto dalle crescenti difficoltà economiche interne causate in parte anche dal boicottaggio del Fondo Monetario Internazionale e della finanza occidentale, dopo decenni di contrapposizione, Morsi aveva avviato una politica di distensione con l’Iran (all’epoca ancora guidato da Ahmadi-Nejad). Per le tradizionali classi dominanti dell’Egitto, per la casa regnante saudita, per Israele, per gli Usa e per l’Ue iniziava ad essere troppo: pur per interessi diversi, questi signori non potevano permettere che si incrinasse la balcanizzazione del Medioriente, uno dei pilasti del loro dominio, neanche nella forma timida e controllata operata sotto la direzione della Turchia e del Qatar (2). La politica di Morsi poteva, quindi, essere denunciata e combattuta per interessi sociali antitetici. Nel nome di una prospettiva proletaria coerentemente antimperialista o ad essa tendente. Oppure nel nome degli interessi tradizionalisti, interni ed esterni, tutt’altro che scomparsi dopo il gennaio 2011, com’era risultato anche dalle elezioni presidenziali del 2012, quando il candidato di Mubarak, il generale al-Shafik, rastrellò ben il 23% dei voti (Morsi arrivò al 24!), pescando anche in settori salariati legati alle industrie di stato. Arriviamo al punto: qual era la nota sociale-politica dominante della mobilitazione del 30 giugno 2013? La seconda! Il mulinello, spontaneo e orchestrato, verso il golpe È vero che i primi mesi del 2013 avevano visto la continuazione delle lotte proletarie, anche contro la pesante situazione economica determinata dal boicottaggio delle forze borghesi liberali e conservatrici. Ricordiamo in particolare lo sciopero dei lavoratori di Suez. Ma l’iniziativa che è sfociata nel 30 giugno 2013 e la manifestazione del 30 giugno stessa sono state promosse e indirizzate da ceti sociali, da forze politiche (il Fronte di Salvezza Nazionale e il Tamarrod) e da un programma politico antitetici agli interessi dei lavoratori. I gruppi proletari e antimperialisti presenti nella mobilitazione del 30 giugno 2013 vi hanno partecipato così alla coda del calderone del Fronte di Salvezza Nazionale e del Tammarod, che, in forza di ciò, hanno di fatto portato acqua, al di là delle loro intenzioni, al mulino del golpe. Loro malgrado, hanno permesso che si avvalorasse l’immagine di un pronunciamento militare in risposta a una "sana" richiesta popolare di giustizia sociale.

Le forze promotrici della svolta contro-rivoluzionaria in Egitto (i vertici delle forze armate egiziane, i capitalisti stile Sawiris, i liberali stile el-Baradei, i funzionari dei servizi segreti di Mubarak ancora ben solidi, la "sinistra" stile Sabbahi, i ministri e i servizi segreti dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti e di Israele) sapevano, infatti, che non potevano attuarla con le modalità con cui un simile passo era stato compiuto in Algeria nel 1992, dove "bastò" occupare le strade con i carri armati per cancellare la vittoria elettorale del Fis, una formazione politica apparentata con i Fratelli Musulmani. Nella primavera del 2013 in Egitto la cacciata di Mubarak era ancora "fresca" ed era avvenuta grazie a un moto di massa che aveva visto il proletariato e gli oppressi del paese scendere attivamente in piazza ed essere (malgrado le innegabili e non trascurabili debolezze politiche) protagoniste. La preparazione politica e sociale del golpe richiedeva maggiore accuratezza. Il governo Morsi doveva essere screditato e, contemporaneamente, bisognava "tirar su" almeno un’apparenza di movimento popolare e di piazza che ne chiedesse la cacciata in nome della "vera" democrazia. La giostra è stata abilmente organizzata. Con il boicottaggio economico di Morsi, con la covata di un’opposizione politica pilotata e con una martellante campagna stampa.

Sin dalla vittoria elettorale Morsi ha dovuto affrontare una situazione economica pesante. Il crollo delle entrate del settore turistico, l’esigenza di importare grano e carburante, la diminuzione delle riserve in valuta pregiata dal 36 a 15 miliardi di dollari fanno lievitare il bisogno di liquidità per lo stato egiziano. Gli (interessati) aiuti finanziari del Qatar non sono sufficienti (3). L’Egitto di Morsi si rivolge al Fondo Monetario Internazionale per ottenere un prestito di circa 5 miliardi di dollari. Le condizioni poste dal Fondo sono durissime: vengono richiesti draconiani tagli alla spesa e all’assistenza sociale. Mursì non accetta. La situazione peggiora. Nei primi mesi del 2013 inizia a scarseggiare la benzina. La stampa e i network satellitari egiziani ne accollano la responsabilità ai Fratelli Musulmani. In realtà solo 400 dei 2480 distributori egiziani sono controllati dallo stato e quindi dal governo. Gli altri sono in mano a imprese private, in virtù spesso delle licenze ottenute dal regime di Mubarak.

Intanto parte anche l’offensiva sul piano politico per raccogliere i frutti della semina precedente. Alcune importanti forze politiche che nel 2011 erano state alleate dei Fratelli Musulmani contro Mubarak e il suo apparato, si schierano ora con quelle fedeli a Mubarak. Si forma un’alleanza, il Fronte di Salvezza Nazionale, diretto dalle forze contro-rivoluzionarie, nel quale confluiscono el-Baradei, Sawiris e il "nasserista" Sabbahi. Spunta, improvviso come un fungo, il movimento Tamarrod ("ribelli"), la cui ossatura è costituita da esponenti del ceto medio giovanile urbano, da membri degli ex-servizi segreti legati a Mubarak e da uomini dello Scaf(4). 

Copiosi i finanziamenti e gli aiuti che giungono a Tamarrod dai servizi segreti dell’Arabia Saudita e dai Sawiris. Tamarrod, che è "radicato" ed ha le sue basi più sicure soprattutto nelle zone benestanti della capitale egiziana, costituisce anche autonome milizie armate (i "comitati di difesa popolare") che vedono agire fianco a fianco borghesi egiziani, figuri provenienti dall’esercito e comuni criminali lautamente ricompensati.

Ad aprile 2013 Tamarrod (che in Occidente viene presentato come un movimento costituito da giovani "puliti", forse un po’ "ingenui", ma amanti della giustizia e della democrazia e che esponenti della "sinistra" come Samir Amin considerano "un’iniziativa straordinaria, una cosa gigantesca totalmente ignorata dai media internazionali" [!!] (5) inizia la campagna di raccolta firme contro Morsi. A giugno 2013 le firme raccolte sarebbero 22milioni (boom!). La moltiplicazione dei numeri giunge al culmine il 30 giugno 2013, quando i mezzi di informazione affermano che le manifestazioni di piazza contro Morsi organizzate al Cairo ed in altre città avrebbero convogliato oltre 30 milioni di persone, 6 milioni solo a Il Cairo. Fatto qualche conto verrebbe fuori una densità di manifestanti per le strade della capitale egiziana di 30 persone per metro quadrato. La grande stampa egiziana e internazionale, quella che secondo Samir Amin starebbe ignorando il movimento democratico egiziano, conferma e certifica.

Cinque giorni dopo, il 3 luglio, l’esercito al comando del generale al-Sisi destituisce e arresta Morsi. Il biglietto da visita di al-Sisi è inconfondibile: chiusura del valico di Rafah(6), incasso del promesso assegno di aiuti di 13 miliardi di dollari dall’Arabia Saudita, complimenti da Tel Aviv, rilascio di Mubarak, legalizzazione del partito dell’ex-dittatore e giro di vite interno contro i Fratelli Musulmani. La benzina, magicamente, ricompare sul mercato. A ruota arriva la museruola agli organismi sindacali e politici egiziani legati alle lotte proletarie del 2011-2013...

E questa, signor Sabbahi, sarebbe la "seconda ondata della rivoluzione"? Se ce ne fosse ancora bisogno, la vera collocazione politica di questo soggetto è rivelata dall’elogio tessuto da Sabbahi all’Arabia Saudita, al principe Abdullah, il protettore di ogni disegno reazionario tessuto in Medioriente, l’organizzatore del pugno di ferro che inchioda milioni di lavoratori immigrati in Arabia Saudita, il responsabile diretto della repressione nel 2011 della (vera) primavera popolare in Bahrein.

A conferma della collocazione antiimperialista di al-Sisi, Sabbahi potrebbe invocare, come egli fa nell’intervista citata, il contrasto tra i vertici militari egiziani e gli Stati Uniti.

Questo contrasto è reale. Ma da dove nasce e cosa esprime? Innanzitutto, c’è da ricordare che gli Usa, che alla vigilia del 30 giugno avevano cercato di indurre Morsi ad accordarsi con un settore dell’opposizione liberale,  hanno poi coperto il golpe soprattutto per il quadro che si stava delineando nella regione, sanzionando l’eliminazione di Morsi con la sostituzione dell’ambasciatore statunitense al Cairo eccessivamente sbilanciato verso i Fratelli Musulmani e spianando la via, in questo modo, alla repressione compiuta nell’agosto 2013 dalle forze armate. Se nelle settimane successive gli Usa hanno sospeso gli aiuti economici inviati all’Egitto(7), è solo perché sono consapevoli che un ritorno puro e semplice a Mubarak sarebbe per loro e il loro dominio nell’area contro-producente. Essi auspicano che al Cairo si installi, come ha scritto il 7 luglio 2013 il Wall Street Journal, un novello Pinochet (8), cioè una combinazione di pugno di ferro antiproletario, liberismo, apertura politica ai ceti borghesi emergenti non compenetrati con la cricca di Mubarak e con i dirigenti delle imprese di stato.

Se è questa la natura del contrasto tra i generali egiziani e gli Usa, dove  starebbe la natura antimperialista di al-Sisi? Che al-Sisi non sia un novello Nasser ma un Mubarak-Mubarak o un Mubarak-Pinochet, che l’Arabia Saudita abbia agevolato in Egitto non la "seconda ondata" ma la controrivoluzione che il "rivoluzionario" Abdullah aveva imposto a suon di carri armati in Bahrein nel 2011, tutto ciò alla fine di agosto 2013 ha cominciato ad essere percepito anche da qualche esponente della sinistra egiziana entrato in precedenza nel calderone del 30 giugno con l’illusione (!?) di preparare la seconda ondata rivoluzionaria (v. intervista riportata sul manifesto del 27 agosto 2013). Ma siamo fuori tempo massimo per adottare le contro-misure del caso, anche a causa degli effetti suscitati nelle proprie stesse fila dalla insensatezza di poter muovere contro il governo Morsi a braccetto delle forze reazionarie.

La partita è tutt’altro che chiusa.

Rimane un punto da analizzare: come mai un movimento popolare come quello dei Fratelli Musulmani ha permesso che il suo presidente venisse cacciato via?

Innanzitutto non è vero che i Fratelli Musulmani siamo rimasti passivi. La base popolare del movimento ha tentato di reagire. La stampa occidentale ha sorvolato sulla faccenda, ma per settimane, a luglio e ad agosto 2013, le piazze egiziane sono state occupate dalle tende e dalla mobilitazione dei militanti islamici. Questa mobilitazione non ha però richiamato e non è stata accompagnata da quella, decisiva, del proletariato industriale. La gran parte degli operai è rimasta a guardare. E sono rimasti a guardare non perché, a nostro avviso, politicamente avanzati. I lavoratori egiziani avevano tutte le ragioni, come abbiamo detto, per organizzare la lotta contro il governo di Morsi, per denunciarne il programma e contrastarne la popolarità tra gli strati diseredati del Cairo e del paese. Proprio per questo, però, di fronte al golpe, un’avanguardia proletaria avrebbe dovuto denunciare che il golpe puntava, facendo fuori i Fratelli Musulmani, a ridurre ancor di più gli spazi di agibilità sindacale e politica conquistati dai lavoratori nella sollevazione del 2011. Avrebbe dovuto cercare di trascinare la massa dei lavoratori nella lotta contro il golpe in corso e contro il blocco sociale e politico che lo aveva organizzato. E non con l’obiettivo di difendere o restaurare Morsi, ma con quello di imporre migliori condizioni di organizzazione e di esistenza per gli sfruttati, di colpire in profondità le forze mubarakiane ancora predominanti nell’apparato statale, di allargare la propria influenza politica sugli strati popolari vicini alla Fratellanza Musulmana. In tal modo la classe operaia non solo avrebbe reso più complicate le cose per i militari e per i loro mandanti, ma avrebbe aumentato la sua influenza e il suo prestigio politico nei confronti del più ampio universo degli sfruttati e degli oppressi del paese.

Così non è stato. Così non poteva essere, per la debolezza politica complessiva del proletariato in Egitto. Una debolezza che, già emersa in occasione dell’aggressione alla Libia, aveva ed ha la sua principale causa non tanto nelle vicende egiziane o mediorientali ma in una situazione internazionale sfavorevole al proletariato mondiale. Una debolezza di cui erano state un riflesso le scelte dei vertici di buona parte degli organismi sindacali o dei partiti legati ai lavoratori che si erano sviluppati o rivitalizzati nel corso della mobilitazione contro Mubarak. Fino alla prima metà del 2013 questi organismi hanno flirtato col cosiddetto mondo politico "laico" e con supposti settori "democratici" dell’esercito nella prospettiva, illusoria e suicida, di poter costruire insieme con loro un percorso di riscatto e rilancio nazionale che tenesse conto delle esigenze dei lavoratori. Solo alla fine, quando la situazione era ormai precipitata, alcuni di questi organismi hanno aperto gli occhi.

Rilevata la "passività" del proletariato industriale, incassato il "silenzioso" sostegno degli Usa e dell’Ue, le forze armate egiziane si sono potute permettere di regolare i conti con la piazza dei Fratelli Musulmani. Tra la metà di luglio e la metà di agosto i militari, coadiuvati dai "comitati di difesa popolare" del Tamarrod, assassinano in tutto il paese centinaia di manifestanti. Il 17 agosto l’esercito sferra l’attacco "finale" servendosi di blindati, elicotteri e carri armati: è una strage. Le stesse autorità militari parlano di circa 700 morti. Quattro giorni dopo è arrestato Mohamed Badie, guida spirituale della Fratellanza. Contemporaneamente, è rilasciato Mubarak. Il 23 settembre viene messa al bando l’organizzazione dei Fratelli Musulmani.

La partita è comunque tutt’altro che chiusa. Non lo è quella tra i due programmi borghesi che si sono scontrati in questi due anni, quello della Fratellanza Musulmana e quello dei vertici delle forze armate. Non è quella tra questi due programmi e le esigenze di riscatto nazionale e sociale degli operai e dei diseredati. Proprio per questo è fondamentale che tra i lavoratori egiziani, chiamati a una lotta durissima per difendere dai colpi della dittatura militare gli spazi di agibilità sindacale e politica conquistati nel 2011-2013, si faccia strada un bilancio impietoso sulle scelte politiche compiute. E, in esso, emerga quanto l’essere rimasti passivi di fronte ai bombardamenti occidentali contro la Libia "di Gheddafi" e di fronte all’aggressione in corso contro la Siria, abbia anche facilitato il compito di chi voleva stringere e sta stringendo il cappio al collo del proletariato egiziano.

Note

(1) Per la nostra analisi delle cosiddette "primavere arabe" vedere il n. 74 del "che fare" e l’articolo "Le elezioni in Tunisia e in Egitto" comparso nel numero successivo. Tutti i materiali sono consultabili sul nostro sito.

(2) In un’istruttivo editoriale, Il Sole-24Ore del 14 agosto 2013 ha scritto che Morsi stava minacciando "la rivoluzione egiziana" soprattutto perché stava "anteponendo l’interesse dell’internazionalismo islamista rispetto a quello nazionale  dell’Egitto". "Qualcosa di intollerabile per l’esercito, pilastro dell’identità nazionale e custode della memoria di Nasser. Il quale, semmai, era riuscito a piegare il panarabismo all’interesse egiziano".

(3) Dopo la visita al Cairo dell’emiro Hamad bin Khalifa al Thani (12 agosto 2012), il Qatar ha versato quasi 2miliardi di dollari nella banca centrale egiziana.

(4) Lo Scaf controlla direttamente una ampia quota (dal 10 al 20% secondo diverse stime) della produzione egiziana. Non si tratta solo di imprese dedite alla produzione militare, ma anche di aziende impegnate nel settore agro-alimentare, manifatturiero e turistico. Per realizzare il suo programma borghese regionale la presidenza Morsi aveva messo in cantiere la privatizzazione di una quota di tali aziende.

(5) L’intervista è riportata dal manifesto del 5 luglio 2013

(6) Questo reticolo di tunnel è vitale per i6palestinesi. Senza il piccolo flusso di generi alimentari, medicine ed armi che corre attraverso i tunnel, sarebbe ancora più difficile per la popolazione palestinese resistere allo strangolamento ed all’accerchiamento israeliano.

(7) Ad ottobre 2013 gli Usa hanno sospeso (non eliminato) aiuti economici per 260milioni di dollari e sono state bloccate le forniture di caccia F-16, di elicotteri da combattimento Apache e di carri armati M1 Abrahams.

(8) A conclusione dell’editoriale del Wall Street Journal del 7 luglio 2013 si legge: "Egyptians would be lucky if their new ruling generals turn out to be in the mold of Chile’s Augusto Pinochet, who took power amid chaos but hired free-market reformers and midwifed a transition to democracy. If General Sisi merely tries to restore the old Mubarak order, he will eventually suffer Mr. Morsi’s fate."

Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014

    ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


Home page        Archivio generale "Che fare"         Per contattarci