Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014
Contro la politica europeista di Letta, Draghi e Merkel va stretta l'unità di lotta tra lavoratori d'Europa e tra questi e gli sfruttati degli altri continenti
La politica dei vertici delle borghesie europee per consolidare l’Unione Europea e aumentarne la competitività sul mercato mondiale continua ad andare avanti. E continua ad andare avanti l’attacco che tale politica riserva ai lavoratori d’Europa, europei ed immigrati. Contro questo attacco non ci si può difendere sostenendo l’uscita dall’euro e il ritorno alle monete nazionali. Va accettata la sfida alla stessa scala a cui la portano avanti i padroni e i loro governi, mettendo in campo una politica di difesa dei lavoratori dallo schiacciasassi della concorrenza tra sfruttati di regioni, paesi, continenti diversi basata sull’organizzazione e sulla lotta unitaria dei lavoratori europei ed immigrati in collegamento prospettico con quelle dei lavoratori degli altri continenti. Per discutere questo punto, occorre analizzare cosa sta davvero succedendo in Europa. Mettendo da parte, innanzitutto, l’idea che la costruzione dell’Ue sia un teatrino o un castello di carta. Il consolidamento dell’Unione Europea è effettivo. Anche nell’ultimo anno, nel 2013, la marcia, pur con passi contrastati, è proseguita.
Alla fine dell’estate 2013 è stata avviata
la procedura perorata da Draghi per stabilire una vigilanza centralizzata della
Bce sulle banche europee. Non è ancora la formazione di una banca centrale
simile al Federal Reserve degli Stati Uniti, ma la misura avvicina questo
traguardo.
Nelle stesse settimane la maggioranza dell’elettorato della Germania si è
espressa per la conferma dell’orientamento europeista alla guida del principale
paese europeo: la sconfitta elettorale dei liberali (fautori di una politica
liberista e disponibili a rivedere
la scelta monetaria unitaria) e il marginale consenso raccolto dai gruppi
anti-europeisti nazionalisti (alcuni gruppi di destra e l’ala Lafontaine della
Linke) hanno portato alla formazione di un’alleanza tra la Cdu- Csu e il partito
socialdemocratico, i due partiti più decisi a costruire un blocco
capitalistico europeo entro e per mezzo di una specie di Stati Uniti d’Europa. È
andato nello stesso senso il consolidamento avvenuto nel 2013 delle politiche di
ristrutturazione applicate in Italia e negli altri paesi dell’Europa
mediterranea.
La seconda cosa da evitare nell’analisi
delle “vicende europee” è quella di attribuire la formazione dell’Ue alla
volontà di potenza di qualche tecnocrate-banchiere o alla sopraffazione
teutonica. La Germania è alla guida, è vero, dell’Ue, ma al processo sono
interessate tutte le borghesie europee o quantomeno tutte le frazioni decisive
delle borghesie europee. Alla base di questa “scelta” ci sono cause, prossime e
remote, che vanno oltre i confini europei. Le cause prossime rimandano
direttamente a quello che stanno facendo gli Usa e la Cina.
La tenaglia L’alleato statunitense, guidato dall’amministrazione Obama, ha
continuato la politica intrapresa dopo la crisi del 2008 per tamponare il
declino della super-potenza Usa e per prepararla ad affrontare la sfida mondiale
con la Cina. Pur con debolezze, passi falsi e in mezzo a divisioni talvolta
paralizzanti in seno allo stesso partito democratico, la politica di Obama ha
ottenuto alcuni risultati.
Alcuni di questi risultati hanno avuto l’effetto di mettere alle strette l’Ue,
come è accaduto, ad esempio, con il recupero della competitività delle industrie
impiantate negli Usa. È vero che tale recupero si è giovato di armi a doppio
taglio come la svalutazione del dollaro e la crescita del debito pubblico. Esso
è, tuttavia, basato anche su elementi strutturali.
Il più importante è il taglio dei salari e dei diritti dei lavoratori,
soprattutto della nuova generazione proletaria, imposto sull’onda della crisi
del 2008 nell’industria automobilistica (v. vicenda Chrysler-Fiat) e altrove.
Esso è stato affiancato dal taglio dei costi dell’energia, grazie allo sviluppo
di una nuova tecnica di estrazione del gas e del petrolio contenuti nelle rocce.
Questa tecnica,
che ha permesso di ampliare le riserve nazionali statunitensi e di ridurre
drasticamente la quota importata del petrolio consumato negli Usa (v. pag.12),
ha portato il prezzo dell’energia pagato dalle imprese negli Usa a un terzo di
quello europeo e a un quinto di quello cinese. La competitività della produzione
industriale negli Usa è risalita a tal punto che nell’ultimo anno alcune
multinazionali hanno reinsediato negli Usa stabilimenti destinati a produrre
merci per il mercato americano o euro-atlantico.
Nell’ultimo anno il treno capitalistico cinese ha diminuito la sua velocità e in
seguito a ciò la classe dirigente ha avviato una politica che porterà ad una
presenza della Cina sul mercato mondiale più insidiosa per la Ue. La dice lunga
l’accordo che nel giugno 2013 il consorzio HK Nicaragua Canal Development,
un’impresa di Hong Kong sostenuta dai fondi cinesi, ha stabilito con il
Nicaragua per aprire entro dieci anni un nuovo canale tra l’oceano Atlantico e
l’oceano Pacifico in alternativa a quello di Panama, controllato dagli Usa e
insufficiente a gestire il crescente traffico commerciale tra la sponda
orientale dell’America Latina (Venezuela, Brasile) e la Cina.
Altrettanto significativo è l’accordo siglato tra la Cina e l’Ucraina (questa
volta a due passi dall’Europa) per la concessione di una fertile area agricola
dell’estensione di Hong Kong, in un terreno di caccia che l’Europa pensava di
sottrarre all’influenza russa e di incorporare entro il suo blocco in modo
indolore.
In mezzo a questa tenaglia, l’Europa non ha scampo. Nel marzo 2013, nella
presentazione del suo libro Mettersi in gioco, De Benedetti ha affermato: “Il
continente europeo è un continente di grandi pigmei che devono organizzarsi se
non vogliono perire”(1). Attorno alla stessa tesi ruota il documento presentato
a Bruxelles nello stesso periodo dalle confindustrie dei paesi europei. Il
documento, sostenuto da una rete di 6000 grandi imprese europee e da centinaia
di migliaia di medie-imprese per un’occupazione complessiva di 23 milioni di
lavoratori, sollecita Bruxelles e i governi europei a spianare gli “attriti” che
ostacolano la formazione di un competitivo mercato continentale, soprattutto le
rigidità sul mercato del lavoro e l’arretratezza dei trasporti (v. vicende Tav e
Alitalia) e delle telecomunicazioni (v. vicenda Telecom) di alcune regioni. Si
chiede, in altre parole, un intervento statale coordinato per razionalizzare gli
apparati produttivi europei e integrarli in un’unica piattaforma continentale
centrata attorno al magnete mitteleuropeo.
Il fatto è che, arriviamo così alla causa remota del terremoto in corso, la
scala raggiunta dalla socializzazione del processo produttivo e
scambio è tale che questo processo non può essere
canalizzato da un contenitore statale nazionale, per quanto di primo piano, come
quello tedesco. Quest’ultimo va, invece, allargato e integrato con le macchine
statali degli altri membri Ue. Anche quello semi-continentale degli Usa è
insufficiente a svolgere il ruolo corrispondente in America
centro-settentrionale.Tant’è che Washington ha promosso da anni il Nafta e che
Obama, non solo in chiave tattica anti-cinese, sta tentando di legare il Nafta a
un blocco trans-pacifico comprensivo del Giappone, della Corea del Sud, del
Vietnam, dell’Australia e della Nuova Zelanda.
Agli occhi dei borghesi e dei capitalisti dei cinque continenti l’esigenza della formazione di super-blocchi statali si impone come legge coercitiva del mercato, per competere e non perire. Attraverso questa spasmodica concorrenza, ad imporsi sono, tuttavia, i riflessi istituzionali di un processo più profondo, più ampio: la socializzazione dell’attività lavorativa alla scala planetaria. Ne è un sintomo significativo quello che sta avvenendo nel campo dei trasporti, con l’apertura di nuove rotte tra gli oceani e con l’avvio del progetto ferroviario russo di congiungere l’estremo Oriente e l’Europa occidentale in una decina di giorni, la metà del tempo impiegato oggi dalle merci che passano per il canale di Suez (2).
L’unificazione borghese dell’Europa, ieri e oggi
Non è la prima volta che l’Europa borghese è percorsa da questo fremito unitarista. Avvenne già durante l’epoca napoleonica e poi durante la seconda guerra mondiale.
Nel primo caso l’esigenza era quella di unire le forze ancora deboli delle borghesie europee (in alcuni paesi appena in fasce) per distruggere i rapporti sociali pre-capitalistici e formare un mercato unitario delle merci avente il ruolo di levatrice dell’industria moderna. Il piano napoleonico si arenò di fronte al mostro contro-rivoluzionario bifronte basato sull’alleanza tra l’arretrata Russia zarista e l’avanzata Inghilterra liberale. A differenza di Mosca, Londra voleva lo sviluppo di rapporti sociali capitalistici sul continente europeo ma, nello stesso tempo, per conservare e consolidare il suo dominio sul mercato mondiale, non voleva che tale sviluppo fosse accompagnato dalla formazione di una potenza capitalistica rivale simile a quella che minacciava di diventare l’impero napoleonico. Ci vollero, è vero, altre eruzioni rivoluzionarie borghesi, quella del 1848 e poi quelle del risorgimento tedesco e italiano, affinché il continente europeo si mettesse sulla strada industrialista della Gran Bretagna, ma a germogliare furono i semi gettati dagli eserciti rivoluzionari napoleonici.
Di segno completamente diverso fu l’unificazione europea compiuta sotto la bandiera del nazismo. In questo caso, l’unificazione statuale fu il mezzo a cui il capitale europeo, già passato dall’infanzia alla senescenza, si affidò per conservare il suo ruolo di dominio sul globo e per renderlo assoluto, togliendo alla Gran Bretagna lo scettro di comando di un sistema capitalistico giunto alla putrescenza storica e impedendo che il "pallino" di Londra passasse oltre-atlantico a New York-Washington.
L’ordine nuovo europeo hitleriano non fu un’imposizione sulle borghesie europee. I vertici della borghesia francese, di quella italiana, di quelle balcaniche accolsero a braccia aperte l’offerta nazista, pur se essa riservava loro un ruolo secondario rispetto a quello assegnato ai capitalisti tedeschi. L’offerta conteneva una doppia promessa. Da un lato, quella di continuare e di ampliare il saccheggio del Sud del mondo. Dall’altro, quella di schiacciare il pericolo rosso interno sperimentato all’indomani della prima guerra mondiale, interrotta dai vertici capitalistici euro-atlantici proprio per il timore che l’ira del proletariato travolgesse il potere borghese prima che i briganti imperialisti avessero regolato i conti tra loro fino in fondo. Per questo timore, nel 1918, le potenze imperialistiche avevano sospeso le ostilità, per unirsi al di sopra dei loro interessi contrapposti e sgozzare la rivoluzione proletaria in Europa-Russia e quella anti-coloniale in Oriente (Libia, Iraq, India, Cina, ecc.). Il regolamento dei conti inter-imperialistico per il monopolio del pianeta riprese alla fine degli anni Trenta, a pericolo rosso scampato, e in vista di esso l’Europa continentale si affidò all’ordine nuovo di Hitler. Fu il secondo massacro mondiale del 1939-1945. Rinata dalla sue ceneri "grazie" ai prestiti e alla copertura militare degli Stati Uniti e tornata al suo rango imperialista, l’Europa si sta oggi trovando davanti a un tornante storico simile a quello di un secolo fa, entro un quadro che presenta una rilevante novità: un gruppo di paesi allora appartenenti al mondo coloniale e semi-coloniale sta sfidando lo stesso primato europeo, con effetti scardinanti sulle risorse necessarie a finanziare il compromesso sociale siglato in Europa nel corso del XX secolo. In questa situazione mondiale, l’esistenza di tanti centri borghesi europei, a Berlino, Parigi e Roma, mina la forza di ciascuno di essi, compreso di quello più forte. Se i pigmei europei non si organizzano, è tornata a ribattere più volte Merkel durante la campagna elettorale tedesca del 2013, il futuro è segnato: la colonizzazione dell’Europa colonizzatrice.
Oggi il progetto europeista è più forte che nel 1939. Lo è per la pressione di una base oggettiva più avanzata: si è formata una piattaforma produttiva continentale fortemente ramificata verso l’America settentrionale e l’Estremo oriente; si è formato un centro di coordinamento finanziario, la Bce, affiancato da alcune gigantesche banche mondiali (Bnp-Paribas, Deutsche Bank, Unicredit, ecc) che con i loro tentacoli controllano e indirizzano l’attività di imprese formalmente indipendenti sparse sul continente.
Il progetto europeista è oggi più forte anche perché trova consenso non solo tra i vertici borghesi europei ma in larghi settori della popolazione lavoratrice, compresa quella proletaria, che cerca di condizionarlo da sinistra, come segnalato dal consenso verso i programmi politici di Syriza in Grecia o della Spd in Germania. Certo, non mancano le resistenze nazionaliste e regionaliste all’europeismo di Draghi- Merkel-Letta, annidate soprattutto nelle gelosie e nelle reticenze di settori della borghesia francese (a cui si sta collegando Marina Le Pen) e nella meschinità del blocco sociale capitalistico e piccolo borghese italiano finora agganciato al Pdl e tuttavia in via di scomposizione(3).
L’Ue sta risultando così poco una tigre di carta che nell’aprile 2013 gli Usa hanno lanciato la proposta di un negoziato per la formazione di un unico mercato trans-atlantico.
L’area di libero scambio Usa-Ue
Anche in questo caso, a dettare la proposta sono interessi e calcoli immediati. C’è l’intento tattico di Obama di smorzare preventivamente le tentazioni euro-asiacentriche della Germania, coltivate nelle periodiche visite dei vertici tedeschi a Pechino e negli intensi rapporti tra Berlino e Mosca in campo energetico. C’è l’interesse economico delle imprese statunitensi ed europee a ottimizzare la dislocazione delle produzioni sulle due sponde dell’Atlantico, così da ridurre i prezzi delle merci e aumentare la quota della ricchezza prodotta ex-novo incamerata dai capitalisti come profitto e rendita. C’è, infine, l’obiettivo strategico comune a Washington e a Bruxelles di formare un blocco imperialista interessato a stoppare, prima che l’erosione del primato euro-atlantico sia andata troppo in là, la crescita "autonoma" dei paesi emergenti e a funzionalizzare a sé lo sviluppo industriale di cui i popoli del Sud del mondo sono stati protagonisti negli ultimi trent’anni.
Attraverso questi interessi e calcoli immediati, i borghesi delle due sponde dell’Atlantico danno, però, corso a una spinta storica più profonda: a quell’allargamento nella scala di socializzazione del processo produttivo che, compresso entro la prigione della proprietà capitalistica, costringe gli stati occidentali a trasferire la loro funzione di protettori dello sfruttamento del lavoro salariato mondiale a un mostruoso apparato istituzionale inter-continentale. Nella trattativa euro-atlantica apertasi nell’estate 2013, e anche attraverso di essa, è tornata a manifestarsi la funzione storica della borghesia (quella di destare le forze produttive sociali sopite nel grembo del lavoro della specie umana e di stringere paesi e continenti in un destino unitario) e la contraddizione che inesorabilmente l’accompagna: la fratturazione di queste stesse forze produttive entro super-blocchi statuali contrapposti, destinati a scannarsi per il dominio totalitario sul pianeta sulla pelle degli sfruttati dei cinque continenti.
Una contraddizione da cui non si può uscire che con la rivoluzione proletaria per il comunismo internazionalista.
Italia, Italia
Lo (squallido) scontro politico italiano si inserisce in questo quadro europeo. Pur costretto a ripetute concessioni verso i ceti borghesi berlusconiani per il peso ancora consistente esercitato da questi ultimi nella società prima ancora che nella sfera istituzionale, il governo Letta è tuttavia riuscito a dare continuità, come si era riproposto, alla politica di Monti. Lo ha fatto in politica estera, dove ha cercato di mettere a frutto il proprio tradizionale ruolo di ruffiano nei rapporti tra Washington e Berlino (come è avvenuto nella crisi siriana e nel caso dello spionaggio della Nsa) e di consolidare i propri traffici nella tradizionale area di influenza mediterranea (con la presenza in Libia, la missione Frontex, l’iniziativa in Libano e in Afghanistan). Lo ha fatto in politica interna, dove il governo destra-sinistra guidato da Letta, pur fondato su una maggioranza parlamentare precaria, ha raccolto risultati tutt’altro che trascurabili a favore della borghesia.
Letta ha consolidato le riforme economiche varate da Monti, a cui sono state aggiunte altre misure per liberalizzare il mercato del lavoro. Pur in ritardo nel varo delle riforme istituzionali, il governo Letta, sotto la regia del Quirinale, ha imposto de facto l’accentramento dei poteri semi-presidenzialista alla Napolitano.
Il governo Letta ha, poi, arato il terreno per un nuovo partito borghese a base popolare, covata nelle manovre incrociate in corso entro Scelta Civica, l’ala centrista del partito Democratico e quella istituzionalista del partito delle Libertà. La trama di questo partito borghese è ancora slabbrata, influenzata com’è dall’indebolimento della forza del grande
capitale italiano (v. le vicende Telecom e Alitalia) e dallo sfibramento delle sue ramificazioni nell’Italia centro-meridionale, ma probabilmente troverà un assist nell’uscita di scena di Berlusconi, nella scomposizione del blocco sociale berlusconiano, nel trasloco istituzionali da Berlusconi al nuovo centro in formazionae da parte dei padroni delle medie imprese internazionalizzate rappresentate da Squinzi (l’attuale presidente della Confindustria), nell’uscita di scena del larvato laburismo europeista di Bersani a vantaggio del liberalismo di Renzi. Se i tempi e i risultati effettivi della formazione di un partito borghese meno vincolato alle camarille italiane sono incerti, è invece sicuro un altro goal messo a segno dal governo Letta: egli ha favorito il consolidamento della passività politica del proletariato e l’indebolimento delle stesse immediate risposte di lotta all’attacco in corso, di cui sono un riflesso agente la passività della Cgil sul suo stesso terreno "riformista", la fumosità dei progetti in cantiere alla sinistra del partito democratico e la diffusione del consenso verso le formazioni di estrema destra non solo in strati piccolo-borghesi impoveriti dalla crisi economica in corso ma anche in settori proletari giovanili.
A quale unificazione puntare?
Ritorniamo cos' al punto di partenza. Come difendersi da questa offensiva? È una micidiale illusione aspettarsi di poterlo fare tornando alle vecchie monete nazionali europee, legandosi nei paesi mediterranei al progetto di un’Europa latina (Italia, Grecia, Spagna) contrapposta a quella carolingia (Germania, Paesi Bassi, ecc). Riflettiamo.
Questa "svolta" ridurrebbe forse la concorrenza tra proletari? Ridurrebbe il potere di ricatto del grande capitale e della Bce sui poteri locali, sulle direzioni aziendali e, attraverso di loro, sui proletari? Nient’affatto. Il ritorno alle vecchie monete può far venire l’acquolina in bocca ad alcuni strati capitalistici e parassiti borghesi, di cui sono degni rappresentanti Berlusconi e altri magliari della casa delle Libertà.
Può aiutarli a continuare a mietere profitti nei loro settori protetti al riparo dalla tempesta che impazza sul mercato internazionale. Ma un simile programma quali benefici porterebbe ai lavoratori? L’elogio della sostituzione dell' euro con due o tre monete europee o con tante monete locali può andare bene ai ceti borghesi intermedi che vorrebbero l’Europa grande potenza mondiale ma vorrebbero altresì evitare lo spettro che potenzialmente l’accompagna di un proletariato unito contro la proprietà borghese. Il ritornello che i problemi potrebbero risolversi con la creazione di denaro a volontà (dell’euro o, se la Bce non lo permette, di un’altra moneta) può convenire ai circoli finanziarii statunitensi, che non vedono positivamente un eccessivo rafforzamento dell’Ue e che con l’occhio a questo esito coltivano ottimi rapporti con Grillo-Casaleggio. Ma i lavoratori quale vantaggio trarrebbero da questo tipo di politiche anti-europeiste?
L’affermarsi di queste politiche, consegnerebbe i lavoratori nelle mani di pidocchi politici che, ne sanno qualcosa i lavoratori della "ex"-Jugoslavia, per compensare la loro relativa debolezza su un mercato mondiale dominato da giganti cercheranno di rifarsi con un supplemento di torchiatura sui "loro" lavoratori. Ci sarà, però, l’áncora di salvezza della svalutazione? Ma la svalutazione come mezzo per difendere i posti di lavoro e il salario metterà i lavoratori in concorrenza con i lavoratori degli altri paesi, rinsalderà la dipendenza degli interessi proletari dall’andamento delle aziende. Ed invece sono proprio queste le catene da combattere: il meccanismo infernale della concorrenza tra lavoratori di regioni e continenti diversi; la subordinazione dei loro interessi a quelli delle loro imprese, multinazionali o pidocchiose che siano.
Queste catene sono rinsaldate anche dalla politica europeista?
Certamente! Anche la politica di Draghi, Merkel, Letta si fonda su questo e alimenta la concorrenza tra i lavoratori, come emerge dall’esempio dell’industria automobilistica in Spagna e dagli investimenti industriali nella "ex"-Jugoslavia. Questo meccanismo può essere arginato solo se, nel rispondere con la lotta (e non con la farsa degli scioperi fantasma e pro-competitività come è accaduto il 13 novembre 2013) alle misure di austerità, ai licenziamenti, ai progetti Tav ambientalmente distruttivi, alla liberalizzazione del mercato del lavoro si punta a tessere le fila dell’unità internazionalista a scala europea e oltre, piuttosto che a rifugiarsi in trincee nazionali e regionali ormai travolte dallo stesso sviluppo storico capitalistico. E di fronte all’inizio delle trattative tra gli Usa e l’Ue per un’area di libero scambio transatlantica, di fronte all’accentramento delle forze dei borghesi delle due sponde dell’Atlantico, c’è da passare finalmente a costituire l’unità di lotta e organizzativa internazionale dei lavoratori, la vera, unica potenza che può difendere gli interessi proletari.
In questa battaglia non possiamo limitarci a toccare solo le questioni economiche immediate. Va denunciata la prospettiva globale a cui è collegata la politica europeista ed euro-atlantica. Tale prospettiva è delineata con chiarezza, dal punto di vista "riformista", da un esponente della "sinistra" del Pd, Fassina: egli sottolinea che la difesa, al ribasso, delle conquiste proletarie in Europa potrà essere garantita solo dalla formazione di una potenza imperialista europea e dalla costruzione di una contrattazione sindacale europea, giocando di sponda con le organizzazioni sindacali e politiche della sinistra europea, prima di tutto le tedesche Dgb e Spd.
Per noi comunisti rivoluzionari, sta qui, oltre che nella compressione dei salari e nella frantumazione delle fila dell’esercito proletario, il colpo politico che l’Europa borghese sta portando al proletariato d’Europa.
Sta nell’offerta ai lavoratori di un patto diabolico: unirsi con i propri sfruttatori e i loro rappresentanti istituzionali per difendere e rafforzare (con l’incremento della competitività economica e, quando e dove occorre, con la forza delle armi) il dominio dell’Europa sul Sud del mondo e così racimolare le risorse con cui mantenere, pur rivisto al ribasso e graduato secondo della nazione, il compromesso sociale europeo.
La denuncia del programma economico del governo italiano e della Ue, le iniziative di lotta contro Letta, la Ue e i colpi sferrati dal padronato vanno, quindi, legati alla denuncia di questo programma complessivo, che è, al fondo, anche il programma delle forze di estrema destra che pure inveiscono contro Bruxelles. Anche di quelle che promettono ai lavoratori europei la stessa illusoria àncora di salvezza non attraverso l’alleanza con gli Usa ma attraverso lo sganciamento della fortezza Europa da questa alleanza e una più libera manovra internazionale "anti-plutocratica" verso alcuni paesi arabi e asiatici.
Note
(1) Nella discussione successiva è intervenuto il democristiano tedesco Poettering a rincarare la dose e a rivendicare, per dare coerenza al programma, un esercito europeo e una politica estera europea.
(2) V. Il Sole 24 Ore del 30 agosto 2013
(3) A sganciarsi dal blocco berlusconiano sono soprattutto le imprese settentrionali legate alle esportazioni di macchine e prodotti tecnologicamente avanzati, interessate a seguire la marcia tedesca verso l’Est europeo, i Balcani e l’Estremo Oriente (v. ad esempio la missione organizzata dalle imprese meccaniche piemontesi in Cina nel mese di ottobre 2013).
Che fare n.79 dicembre 2013 - aprile 2014
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA