Che fare n.78 maggio - ottobre 2013
Contro le operazioni di polizia Ue-Nato nell’oceano Indiano
Dal 2008, in nome della lotta alla pirateria, l’Onu e la Ue hanno promosso alcune operazioni internazionali di polizia nel tratto di mare compreso tra il mar Rosso e l’oceano Indiano. Queste operazioni stanno provocando, come effetto “collaterale”, l’uccisione di pescatori locali, crivellati dalle mitragliatrici dei corpi di polizia quando vengono a trovarsi con le loro imbarcazioni sulla rotta delle navi militari o delle navi mercantili scortate da militari.
Di queste missioni militari, che vedono l’Italia impegnata direttamente, poco o nulla si è detto sino al 15 febbraio 2012, quando due marò del battaglione San Marco sono stati fermati dalle autorità dell’India con l’accusa di aver assassinato due pescatori indiani. Il fermo dei “nostri” marò ha scatenato una massiccia campagna propagandistica a loro difesa e contro “l’insolente sfida” che le autorità indiane hanno osato lanciare alla “civilissima” Italia.
Ma cosa è successo nel mare dell’India il 15 febbraio 2012?
Il peschereccio indiano St. Antony, con a bordo un equipaggio formato da 11 pescatori, è al largo della costa dell’India sud occidentale, nei pressi dello stato meridionale del Kerala.
Intorno alle ore 16.30 locali, da una nave che si trova nelle immediate vicinanze del peschereccio vengono sparate raffiche di proiettili che colpiscono a morte due membri dell’equipaggio, Ajesh Binki (25 anni) e Celestine Valentine (45 anni). Il peschereccio lancia l’allarme alle autorità indiane, denunciando di essere stato oggetto di un attacco da parte di una nave “nera e bianca”. Partono le ricerche della Marina Militare indiana per identificare tale nave. Dopo due ore la individuano nella petroliera Enrica Lexie, di proprietà della compagnia italiana di trasporto marittimo Fratelli d’Amato. Sulla nave si trovano 6 marò. Le autorità indiane costringono la petroliera italiana, che si era “allontanata” di circa 70 km dal luogo della sparatoria, a far ritorno presso il porto di Kochi, nel Kerala meridionale.
Il 19 febbraio 2012, dopo 4 giorni di indagini, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, due dei 6 marò imbarcati sulla petroliera italiana con il compito di proteggerla dagli attacchi dei “pirati”, vengono arrestati dalle autorità del Kerala con l’accusa di omicidio e trasferiti, anziché in un ordinario carcere indiano, presso un corpo di polizia.
Parte la campagna stampa
Una montagna di menzogne ha accompagnato il fermo dei due marò.
Stando alle informazioni che si leggono sui “nostri” giornali e che vengono comunicate dai tg, ci sarebbero prove “inconfutabili” sull’innocenza dei marò. Il 18 febbraio 2012 il Corriere della Sera scrive: “Molti elementi stanno chiarendo che gli uomini del reggimento San Marco non c’entrano con la morte dei due sventurati marinai indiani; gli inquirenti però continuano a ritenerli responsabili e hanno sequestrato i loro passaporti.
Una mossa illegale perché la petroliera italiana stava navigando in acque internazionali”. L’ex ministro degli esteri Terzi, in una lettera aperta pubblicata all’Eco di Bergamo del 17 ottobre 2012 scrive: “L’ingresso della nave Enrica Lexie in acque indiane è stato il risultato di un sotterfugio della polizia locale, che ha richiesto al comandante della nave di dirigersi nel porto di Kochi per contribuire al riconoscimento di alcuni sospetti pirati”.
Siamo al solito “italiani brava gente” alle prese con gli infidi asiatici, la vulgata ripetuta dai tempi “gloriosi” del colonialismo in Africa.
Ma da dove provengono le prove che la stampa italiana utilizza per dimostrare in modo “inconfutabile” l’innocenza dei due marò? Lo racconta sinteticamente Mattero Miavaldi nel suo documentato libro I due Marò (Edizioni Alegre, 2013).
Il direttore del Giornale, uno dei più attivi sostenitori dell’innocenza dei due marò e del complotto ordito dall’India, si avvale della collaborazione di Gian Micalessin e Fausto Biloslavo (pag. 70 del libro), membri- fondatori della Albatros (agenzia specializzata nella copertura giornalistica in zone di guerra) con alle spalle un’esperienza di militanza nel Fronte della Gioventù. È in particolare Biloslavo, vicino a Casapound, che si spende dalle pagine del Giornale per difendere i due marò. Miavaldi cita un altro personaggio attivo nella difesa dei due marò: Luigi Di Stefano, dirigente nazionale di Casapound, il quale ha redatto una perizia balistica che dimostrerebbe “scientificamente” che i due militari italiani non sono stati coinvolti nell’assassinio dei due pescatori (pag. 108 del libro). La perizia del dirigente di Casapound, di cui non è nota una competenza specifica in materia, è stata trasformata nel documento ufficiale degli innocentisti, e ripreso il 14 aprile 2012 da tutti i telegiornali. Di Stefano viene, infine, chiamato ad esporre la sua “analisi tecnica” all’“illustre” platea della Camera dei Deputati.
La borghesia italiana hanno quindi appaltato il compito di costruire le prove sull’innocenza dei due marò a militanti dell’estrema destra italiana. E sempre dall’estrema destra, Casapound in prima fila, sono state organizzate varie manifestazioni in sostegno dei due marò.
I mandanti dell’assassinio dei due pescatori indiani
Al di là di quello che sarà il destino dei due marò, per noi comunisti internazionalisti i responsabili dell’assassinio dei due pescatori indiani sono le operazioni di polizia internazionale svolte dall’Europa e dalla Nato nell’oceano Indiano, e i governi che le hanno organizzate a partire dal 2008.
Nel 2008 viene avviata l’operazione “Atlanta”. Essa supervisiona il trasporto di merci nell’oceano Indiano tra il golfo di Aden e il 65esimo meridiano Est, a metà strada tra la penisola arabica e l’India. Il centro del comando, con sede nel Regno Unito, dirige una flotta di sei fregate e vascelli europei coadiuvati da tre caccia ricognitori. Alle missioni partecipano 23 paesi membri dell’Ue a cui sono associati la Norvegia, l’Ucraina, la Croazia e il Montenegro. Per tale missione l’Italia ha messo a disposizione tre fregate.
Nel 2009 viene avviata la missione “Oceano sicuro”, che fa capo direttamente alla Nato. L’Italia partecipa anche a questa missione.
Nel 2011, con la legge n. 130/2011, il governo Berlusconi introduce la possibilità di utilizzare i cosiddetti “Nuclei militari di protezione” sulle navi mercantili o passeggeri battenti bandiera italiana. Tali nuclei sono chiamati a garantire la “sicurezza” dell’equipaggio, negli spazi marittimi internazionali a “rischio pirateria”, individuati tra il golfo di Aden e il 78esimo meridiano Est, che taglia a metà la penisola indiana. La legge prevede la possibilità di affidare la protezione marittima sia alla Marina Militare sia ai privati, con una prelazione per la Marina a cui è assegnato, per il momento, il monopolio del “servizio”. La Marina incassa per ogni militare “affittato” 500 euro al giorno. In compenso spende milioni (il bilancio è segreto), se si considerano anche le due missioni “Atlante” e “Oceano sicuro”.
Alle tre operazioni, la Marina italiana ha aggiunto una base logistica nello stato di Gibuti, in pieno oceano Indiano. Da poca resa operativa e mantenuta con la “modica” spesa di 500mila euro l’anno, la base ospita una guarnigione di 70 marò pronti all’imbarco.
I fini delle operazioni di polizia “anti-pirateria”
Le operazioni di polizia nell’oceano Indiano sono state giustificate con l’obiettivo di difendere le rotte mercantili occidentali dalla cosiddetta pirateria. Di cosa si tratta? Dalle poche e volutamente nebulose informazioni che trapelano qui in Occidente sembra che i gruppi che derubano o prendono in ostaggio in cambio di un riscatto i mercantili occidentali siano composti da pescatori e marinai dell’area ridotti in condizioni di disoccupazione e povertà dalle pluri-decennali politiche di saccheggio imperialista nel Corno d’Africa (1). Per le potenze capitalistiche è inammissibile che dei “poveracci del Terzo mondo”, per riprendere le espressioni usate dalla stampa italiana, si permettano di interrompere o rendere insicure le “nostre” rotte, le rotte con cui da mezzo millennio (da quando i portoghesi conquistarono i loro presidi sulle coste dell’India) l’Occidente scortica l’Asia, le rotte che gli permettono di buttare a mare liberamente, al largo della Somalia, i rifiuti nucleari e tossici che le imprese nostrane non vogliono smaltire rispettando le misure di sicurezza, le rotte che gli permettono di saccheggiare le risorse ittiche locali in barba alle flotte pescherecce africane.
Per scongiurare un possibile sentimento di simpatia tra la gente comune qui in Europa verso i “pirati”, i mezzi di informazione si premurano subito di precisare che questi ultimi sono manovrati da mafie locali o da criminali non bene specificati. Ora, che un paese, l’Italia, che è la patria di origine della mafia, che ha fatto della mafia una delle sue migliori merci di esportazione, che ancora oggi è al centro dei traffici mondiali di droga e che nel suo parlamento vanta personaggi ufficialmente riconosciuti collusi con le mafie, che un paese siffatto si preoccupi di sradicare le mafie nel Corno d’Africa, è davvero il colmo. Gatta ci cova.
In ogni caso, anche se i pescatori e i marinai fossero diretti da cricche borghesi locali, da tronconi delle borghesie nazionali che hanno tentato nei decenni scorsi di costituire uno sviluppo nazionale “autonomo” in Corno d’Africa anche contro la mano piratesca del colonialismo italiano e che, oggi più di ieri, sono incapaci di guidare un effettivo moto di riscatto dall’imperialismo, non per questo le operazioni di polizia muterebbero la loro funzione: quella di ribadire che quel mare è “nostro”. Che nessuno, borghese o lavoratore della regione che sia, si azzardi a contendercelo. Tanto più che il controllo militare di quell’area permette di tenere sotto osservazione le rotte con cui la Cina (il paese emergente che gli Usa e l’Occidente vogliono tornare a sottomettere) importa (dal Medioriente e dall’Africa orientale) il 70% (!!) del suo petrolio. In caso di conflitto, diretto o indiretto, con la Cina, quanto sarebbe utile, per noi Occidente, avere i mezzi per chiudere tale rubinetto e asfissiare l’economia cinese!
L’interesse dei lavoratori e quello del capitale nazionale
Se da un lato si può registrare positivamente la scarsa partecipazione alle iniziative messe in piedi dalla destra a difesa dei marò (non hanno mai superato le poche decine di adesioni), dall’altro rileviamo con preoccupazione l’indifferenza che esiste tra i lavoratori sull’intera vicenda. È grande la difficoltà a comprendere il vero fine a cui mira la propaganda, sciovinista e razzista, messa in piedi dal governo e dai padroni intorno alla vicenda.
Tale propaganda, nella quale le posizioni della destra e del governo di unità nazionale diretto da Monti sono appoggiate dai rappresentanti parlamentari del MoVimento Cinque Stelle, vuole riaffermare il “sacro diritto” da parte “nostra”, paese occidentale e “civile”, a presidiare mari e rotte a migliaia e migliaia di chilometri e a far valere anche con le armi i “nostri” interessi nei confronti dei paesi del Sud del mondo. Questo diritto corrisponde pienamente agli interessi dei capitalisti italiani, delle imprese italiane, del sistema Italia, dell’Europa e dell’Occidente. Non così accade per i lavoratori d’Italia, i quali, invece, hanno tutto da perdere dal rafforzamento della potenza italiana ed europea nei confronti dei popoli del Sud del mondo, a guardia di un ordine, quello imperialista Usa-Nato-Ue, che miliardi di persone, anche in Asia, non accettano più di subire passivamente. Anche opponendosi, come è successo in India, che si possano impunemente assassinare due suoi pescatori nei pressi delle proprie coste da parte dei militari occidentali.
L’interesse dei lavoratori d’Italia è, al contrario, quello di respingere questa campagna neocoloniale, di schierarsi dalla parte dei pescatori indiani assassinati, contro i marò e le spedizioni militari in cui operano, contro l’aggressione al Sud e all’Est del mondo che la Ue e la Nato stanno portando avanti.
(1) Si veda, ad esempio, l’articolo del Guardian del 24 maggio 2011 intitolato: “Somali pirate: «We’re not murderers... we just attack ships»”
Che fare n.78 maggio - ottobre 2013
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA