Che fare n.78 maggio - ottobre 2013
La lotta alla fabbrica A
Siamo nel 2004, la “fabbrica A” produce piccoli elettrodomestici.
Appartiene a un capitalista taiwanese. Conta novemila dipendenti. L’attività lavorativa è organizzata su due turni di 12 ore per sette giorni. Il salario pagato dall’azienda, sia quello di base che quello per gli straordinari, è inferiore a quello fissato dalla normativa sul lavoro del 1993. La paga base versata è, ad esempio, 54 dollari al mese anziché i 60 dollari al mese previsti per legge. Nell’aprile 2004 la direzione aziendale decide un giro di vite nel controllo della durata della pausa pranzo di mezz’ora. È la classica goccia che fa esplodere il malcontento dei lavoratori.
Compaiono nei reparti cartelli di denuncia e di invito allo sciopero. “Un gruppo di giovani operai maschi del reparto nel quale era iniziato lo sciopero attraversarono la fabbrica spegnendo o rompendo gli interruttori dell’elettricità generale e trovando il sostegno degli operai più anziani ed esperti. Quasi tutti gli operai della linea di produzione, sia uomini sia donne, smisero di lavorare e uscirono, e in migliaia si fermarono fuori dalla fabbrica per inscenare un sit-in. La polizia cittadina e la pubblica sicurezza giunsero sul posto, e a mezzogiorno la fabbrica chiese agli operai di nominare dei loro rappresentanti.
Non ci furono elezioni formali, ma dieci operai maschi, cinque dei quali erano veterani del reparto che aveva avviato lo sciopero, si dichiararono volontari. Nel pomeriggio si tenne il negoziato, con tutti gli operai riuniti fuori dalla sala dell’incontro in attesa dell’esito; tuttavia alla fine dell’incontro i dieci rappresentanti vennero portati fuori dalla fabbrica in un furgone e scomparvero.
La sera la rabbia di alcuni operai giunse al punto che essi irruppero nell’ufficio dell’amministrazione, rompendo i computer e portando il direttore generale taiwanese fuori dalla fabbrica e davanti all’entrata, dove erano riuniti migliaia di operai, alcuni dei quali, infuriati, cercarono di colpirlo, finché due guardie della sicurezza lo riportarono all’interno” (pp. 30-31). Più tardi il direttore tornò fuori, a discutere con i lavoratori: “Un operaio lo maledisse «Voi taiwanesi non ci trattate da esseri umani». Il taiwanese rispose: «Io vi tratto con equità». Gli operai gridarono: «Aumentaci i salari, rispetta la legge»” (p. 31).
Di fronte alla melina della direzione aziendale e all’assenza di notizie sui delegati scomparsi, i lavoratori organizzarono capillarmente un nuovo sciopero, con blocco dell’autostrada e manifestazione per raggiungere la sede del governo cittadino. Il corteo di 4000 operai era aperto da due striscioni: “Vogliamo il ritorno dei nostri dieci rappresentanti degli operai!”, “La fabbrica A viola la legge sul lavoro e non aumenta i salari!”. Al corteo cominciarono ad unirsi i lavoratori provenienti da altre fabbriche dello stesso distretto. A questo punto intervennero le forze di polizia: otto operai arrestati e trenta all’ospedale. Il giorno successivo si svolse una trattativa in presenza dei dirigenti del governo cittadino e della polizia. La direzione aziendale accettò di allungare la pausa per il pranzo da mezz’ora a un’ora e di rispettare le tariffe salariali. Tuttavia gli operai arrestati e i rappresentanti scomparsi continuarono a non tornare.
Che fare n.78 maggio - ottobre 2013
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA