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Che fare n.78 maggio - ottobre  2013

Acque agitate nelle relazioni internazionali in Asia

La rivista italiana Limes, lo scontro Usa-Cina e la partita Asia-Pacifico

Alla fine del 2012 è uscito un numero della rivista Limes (edita dal gruppo editoriale L’Espresso) dedicato alle relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina. La rivista rileva la svolta verificatasi in tali relazioni dal 2006 e si chiede: si va verso la collisione? Ci siamo occupati della questione nel numero precedente del Che fare. È istruttivo dare un’occhiata alle analisi della rivista.

L’editoriale e gli articoli passano in rassegna i contenziosi economici, territoriali e militari che stanno fratturando la collaborazione più che ventennale tra gli Usa e la Cina. Alcuni articoli hanno il merito di mettere in evidenza che l’interdipendenza economica tra gli Usa e la Cina non è in contraddizione con l’incipiente scontro tra i due (ancora molto diseguali) colossi. È vero che l’interscambio commerciale tra la Cina e gli Usa è cresciuto fino a 500 miliardi di dollari; è vero che tale interscambio coinvolge spesso semi-lavorati, a testimonianza di un rilevante intreccio delle piattaforme produttive sulle due rive del Pacifico; è vero che la Cina è il primo detentore dei titoli pubblici Usa per la cifra di 1115 miliardi di dollari, l’8.7% del totale (1): ma è proprio in virtù di questa interdipendenza economica tra la Cina e gli Usa, e non malgrado essa, che i due stati stanno entrando in rotta di collisione su numerosi fronti. La rivista ne mette in luce alcuni:

1) nel suo articolo, R. A. Kapp, un ex-dirigente dell’Us-China Business Council, lamenta che le imprese Usa incontrano eccessivi lacci sul mercato cinese, da parte dello stato e, aggiungiamo noi, da parte del movimento rivendicativo dei lavoratori cinesi;

2) se continuasse la sostituzione (già in corso) del dollaro con lo yuan come moneta negli scambi commerciali e finanziari internazionali, la capacità di manovra finanziaria dello stato e delle imprese Usa sarebbe fortemente indebolita;

3) le alte sfere Usa non possono accettare che la Cina conquisti il controllo monopolistico del mar Cinese, dove passa il 60% del commercio mondiale e il 70% del petrolio per il Giappone, né che, senza colpo ferire, Pechino continui a tessere la sua tela verso il subcontinente indiano, l’Iran, l’Africa e l’America Latina.

Pivot to Asia

Limes illustra anche la politica che gli Usa stanno mettendo in atto in risposta a questo contrasto strategico. Tra i tasselli di questa politica vi è quello che intende impedire alla Cina di giungere alla conclusione di potersi permettere di ostruire l’accesso al mar Cinese senza essere distrutta completamente. Nell’articolo “Usa contro Cina, ordine di battaglia”, il generale italiano Fabio Mini (uno dei macellai che hanno diretto i bombardamenti all’uranio impoverito sulla “ex”-Jugoslavia) scrive: “Il problema di pianificazione del Pentagono è di non arrivare a questo punto. Ed è un problema di oggi, perché fra vent’anni sarà troppo tardi. Occorre eliminare ogni possibilità che la Cina possa perfino pensare di condurre con successo un attacco [contro le forze aeronavali Usa dislocate nell’area a garanzia dell’accesso al mar Cinese a sé stessi e agli alleati, n.] o di sopravvivere alla ritorsione. Le forze americane devono cominciare [avete già cominciato, generale!] a predisporre le misure di sopravvivenza e di conservazione della capacità di attacco. Devono impedire il controllo cinese del Pacifico, anche soltanto teorico. I comandanti americani devono poter disporre di basi sicure e di basi alternative dove in caso di guerra possano rischierare i propri aerei in hangar a prova di bombardamento su isole come Tinian e Belau. I bombardieri Stealth e i sommergibili devono poter lanciare l’attacco contro tutte le strutture e i radar che i cinesi stanno installando per tenere le forze statunitensi lontane dalle coste. La capacità di attacco americano deve essere sostenuta dalle forze degli alleati: fondamentali sono quelle sudcoreane, taiwanesi e giapponesi. [...] Il segretario alla Difesa Panetta, nell’incontro del giugno 2012, a Singapore con i ministri della Difesa asiatici (significativamente assente il cinese) ha dato indicazione di come il riequilibrio [verso l’Asia della politica Usa, n.] annunciato da Obama si rifletterà sullo schieramento militare globale. Entro il 2020 il 60% delle navi da guerra Usa, inclusi sei gruppi di portaerei, saranno schierati nel teatro Asia-Pacifico. [...]

Nel settembre lo stesso Panetta ha annunciato un nuovo accordo con il Giappone per lo spiegamento di un secondo sistema radar anti-missile rivolto contro la Corea del Nord e la Cina. L’accordo prevede la fornitura di altre batterie di Patriot e navi da battaglia equipaggiate con sistemi Aegis” (pp. 56-57). Anche il Muos, il sistema integrato di comunicazione di cui si vuole installare un centro in Sicilia, fa parte di questa corsa al riarmo degli Usa: ce ne parla l’articolo “Lo scontro nel Pacifico si gioca anche in Sicilia” (p. 105), il quale mette anche in evidenza la preoccupazione degli Usa e dell’Italia per il tentativo del gruppo cinese Hna di acquisire il controllo delle infrastrutture di Augusta, Palermo e Centuripe (Enna) come hub commerciale e turistico per l’Europa e il Nordafrica.

Per l’accensione della miccia manca ancora un po’, ma anche i piani militari vanno, a nostro avviso, conosciuti e denunciati, per quanto non siano questi piani la forza motrice della corsa verso la tragedia che si prepara.

Jugoslavizzre l’Asia

Dalla rivista emerge anche il fatto che gli Usa sanno di non poter fermare l’ascesa cinese direttamente, da soli, magari con un intervento militare che riporti la Cina all’età della pietra, come è successo con l’Iraq e con la Jugoslavia. Sanno che prima devono agire attraverso altri attori: gli altri stati e i popoli dell’Estremo Oriente.

Da alcuni articoli emerge l’articolazione di questa politica degli Usa, il loro tentativo di schierare in chiave anti-cinese non solo i propri alleati storici (l’Australia e il Giappone) ma anche l’India, il Vietnam, la Corea del Sud e la stessa Russia. La classe dirigente Usa sta cinicamente coltivando i contrasti e i dissapori storici tra la Cina e i suoi vicini, un po’ come fece la Gran Bretagna con l’India al momento dell’indipendenza. Lo stesso generale Mini ammette senza remore che la decisione delle Filippine, del Vietnam e del Giappone di rompere la tregua sulle isole del mar Cinese contese con la Cina è stata incoraggiata dagli Usa (pp. 57-58). In Giappone, in particolare, è in rapida crescita il nazionalismo imperialistico, come mostra la vittoria alle elezioni politiche del dicembre 2012 del partito conservatore di Shinzo Abe, di formazioni politiche apertamente nostalgiche dell’impero giapponese e la (provvisoria?) sconfitta dell’ala levantina della classe dirigente giapponese (convinta di tutelare meglio gli interessi delle imprese giapponesi smarcandosi dall’alleanza con gli Usa e da una politica estera decisamente anti-cinese). La politica dei conservatori e dei gruppi dell’estrema destra rivendica, con forme e tempi diversi, la colonizzazione dell’Estremo Oriente compiuta prima e durante la seconda guerra mondiale. Sui rapporti tra i paesi dell’Estremo Oriente, segnaliamo anche l’articolo “La partita della Siberia” (p. 257), sul ruolo che la Siberia si appresta a giocare nelle relazioni tra la Russia e la Cina e nell’intera partita asiatica. L’articolo racconta che il terzo mandato di Putin, iniziato nella primavera 2012, sta ponendo la sua priorità geopolitica nello sviluppo della Siberia orientale e dell’Estremo Oriente russo: “Allo slogan [Putin] fa seguire alcuni passi concreti. Viene istituito il ministero per lo Sviluppo dell’Estremo Oriente e la stampa russa anticipa il progetto per la costituzione di un’azienda statale che accorperà 16 regioni orientali della Federazione Russa (il 60% circa del territorio) che avrà ampi poteri decisionali e dovrà rendere conto del suo operato esclusivamente al capo del Cremlino. Una megastruttura che dovrà trainare lo sviluppo siberiano, aggirando, tra le altre, le leggi federali in materia di sfruttamento delle risorse naturali. Il suo nome: Repubblica dell’Estremo Oriente. La nuova entità potrà regolare una più snella imposizione fiscale e raccogliere investimenti stranieri. Sarà finanziata per un decennio dai profitti derivanti dalla gestione del Fondo di benessere nazionale. [...] Garantirà ai lavoratori stranieri che decideranno di stabilirsi nelle regioni orientali l’ottenimento della cittadinanza russa in tre invece che in cinque anni. Le imprese che investiranno in Siberia non saranno soggette alle leggi sulla bancarotta e a quelle straniere verrà facilitato il regime dei visti. La nuova azienda statale, che potrà anche assegnare licenze senza gara d’appalto, avrà sede a Vladivostok. La città siberiana, lontana da Mosca oltre 9000 chilometri, per il presidente Putin è «la porta russa verso l’Asia»” (pp. 258-259).

Lo sviluppo della regione dovrebbe essere trainato dalla costruzione di infrastrutture ferroviarie moderne per collegare l’Estremo Oriente con l’Europa occidentale senza passare per la rotta attraverso l’oceano Indiano.

Un’ala della classe dirigente russa, che ha trovato voce in Medvedev, teme l’invadenza economica cinese. (p. 261). Gli Usa hanno iniziato a speculare su questa paura e stanno trescando, insieme con il Giappone e la (per ora) controllata Corea del Sud, per offrire una sponda economica e tecnologica allo sviluppo della Siberia alternativa a quella cinese.

Se il Giappone e gli Usa riuscissero a stabilire un asse con la Russia, chiuderebbero la Cina in una morsa, interromperebbero il consolidamento del legame tra la piattaforma produttiva tedesca con quella cinese e accrescerebbe il fascino per le borghesie europee della proposta lanciata da Obama all’inizio del suo nuovo mandato di un gigantesco mercato unitario tra le due sponde dell’Atlantico.

La preparazione del fronte interno negli Usa

La politica di attizzamento dei contrasti inter-asiatici portata avanti dagli Usa e gli appigli reali che essa trova, sono un esempio della forza di cui l’imperialismo Usa è ancora capace.

Pur se in declino, gli Usa sono ancora un mostro contro-rivoluzionario, il centro del dominio totalitario del capitale sul pianeta. Ciò è confermato anche dal versante interno della politica di Obama. La rivista Limes mette in evidenza soprattutto l’aspetto energetico di questo versante: l’autosufficienza energetica raggiunta dagli Usa grazie alle tecniche di estrazione del petrolio e del gas messe a punto negli ultimi anni nel settore minerario.

L’autosufficienza energetica permetterà agli Usa di affrontare lo sviluppo di guerre di ampia portata in Medioriente e in Estremo Oriente senza che il proprio apparato produttivo e la propria vita sociale ne risentano. Ci permettiamo di aggiungere altri due elementi che vanno nello stesso senso. Primo: il ritorno entro i confini degli Usa o del Nafta degli investimenti produttivi delle multinazionali Usa (2). Secondo: la politica di Obama verso il proletariato Usa. Verso i lavoratori bianchi e afro-americani, con la decisione di aumentare il salario minimo e di agganciarlo all’inflazione e di garantire la scuola materna a tutti. E verso i lavoratori immigrati dall’America Latina e dall’Estremo Oriente, con la presentazione di una legge (bipartisan) che alleggerisce le condizioni richieste per la concessione del permesso di soggiorno a 11 milioni di lavoratori immigrati. Dietro quest’ultima decisione c’è il ruolo strategico svolto nell’economia Usa dai lavoratori immigrati e il percorso di organizzazione che questi proletari hanno messo in campo negli ultimi dieci anni. (3) E c’è l’intenzione della classe dirigente Usa di conquistare i “cuori” dei lavoratori immigrati per trasformarli in ascari per le guerre dell’Estremo Oriente.

Pur se in sordina, dal numero di Limes emerge anche il modo in cui la classe dirigente cinese e la popolazione lavoratrice cinese percepiscono la intromissione degli Usa negli affari dell’Estremo Oriente. Scrive il generale Mini: “La Cina si ritiene da anni sottoposta alla strategia statunitense di contenimento. Nonostante le provocazioni non ha mai risposto con la violenza che molti cinesi avrebbero voluto esercitare. Molti cinesi vedono gli Usa come un ostacolo al loro progresso.

La gente è portata a credere che tutti gli sforzi statunitensi di sicurezza in realtà intendano negare il loro diritto a una vita migliore e alla loro nazione il posto internazionale che le compete” (p. 58). Come dare torto a queste “sensazioni” dei cinesi? Come dar torto alla filastrocca che spopola sul web cinese riportata nel riquadro?

I silenzi di Limes

La rivista Limes tace, però, su alcuni aspetti cruciali dello scontro che si sta preparando in Asia.

Il primo è quello delle conseguenze di questo scontro sulla vita dei popoli e, in particolare, dei lavoratori. In alcuni articoli si afferma che la situazione attuale assomiglia a quella dell’inizio del novecento, allo scontro in quegli anni incipiente tra l’imperialismo anglo-americano e la potenza capitalistica in ascesa della Germania.

Ancora Mini: “La Cina si trova in una situazione simile a quella della Germania alla vigilia della prima guerra mondiale: esattamente un secolo fa Berlino era consapevole della propria potenza, determinata a far valere le proprie ragioni e i propri interessi.

Oggi alla Cina manca soltanto la miccia che può innescare la tragedia” (p.58). Bene: cosa riservò ai lavoratori e ai popoli il trentennio, 1914-1945, in cui si consumò lo scontro tra la Germania e l’imperialismo anglo-statunitense fino alla sconfitta del Terzo Reich e alla vittoria del mostro a stelle e strisce?

La rivista tace anche sulle cause di fondo di questo corso catastrofico. Nell’editoriale si fa riferimento alla “prevalenza delle pulsioni irrazionali sul calcolo costi-benefici: innescata la spirale, le migliori intenzioni di Obama e di Xi Jinping -o dei loro successori- potrebbero difficilmente spezzarla” (p. 18). Ma che coerenza nell’analisi degli strateghi di Limes!

Da un lato, si considera come naturale la competizione tra stati e imprese sul mercato mondiale, e dall’altro (irrazionalmente) si attribuisce all’irrazionalità se questi conflitti sfociano nello scontro planetario. Non c’è affatto contraddizione, signori, tra i due fenomeni.

Le relazioni egoistiche di mercato non possono rimanere eternamente confinate entro il tran tran dei periodi pacifici nei quali il capitale si limita a guerre locali e alla guerra quotidiana con gli operai nei posti di lavoro.

L’esito catastrofico è inscritto, pur con tempi meno rapidi di quel che darebbero a intendere le tensioni attorno alla Corea del Nord, nel funzionamento del capitale, come mette in luce la dottrina marxista, mille volte data per infranta eppur ogni giorno confermata dalla vita della società capitalistica.

L’esito è inscritto nel fatto che, negli ultimi trent’anni, il capitale è riuscito a superare la crisi generale in cui stava sprofondando negli anni ’70 al prezzo dello sviluppo del grado di socializzazione delle forze produttive a un tale livello che tali forze non sono più gestibili capitalisticamente entro la corazza degli stati nazionali (anche semi-continentali) formatisi nel corso dell’ottocento e del novecento, entro l’ordine retto dal dollaro e dalle flotte termonucleari Usa. Entro tale ordine il capitale non è in grado di strappare una massa di plusvalore sufficiente a mantenere un livello adeguato di redditività e la riproduzione allargata di se stesso. La riottosità al dominio delle potenze colonialiste occidentali della classe operaia che si è formata nell’ultimo trentennio in Asia, Africa e America Latina è un aspetto dell’acutezza di questo antagonismo tra il grado di socializzazione raggiunto dalle forze produttive e l’appropriazione privata al fine del profitto di tali forze. Arriviamo con ciò al terzo elemento su cui la rivista Limes si guarda bene dall’accendere i riflettori.

La rivista non parla del proletariato cinese e asiatico. Anche questo non ci sorprende: per i redattori di Limes esiste un solo soggetto della storia, lo stato e il capitale che esso rappresenta.

Non esistono le classi sociali. O se esistono, queste sono passive esecutrici dei dirigenti statali. Non è così.

L’oste proletario, senza il quale gli analisti del capitale à la Limes stanno facendo i loro conti, saprà presentare i suoi numeretti. Che intanto non siano solo i borghesi nostrani più lungimiranti ad occuparsi della partita asiatica. Che comincino ad occuparsene anche i militanti proletari intenzionati a darsi da fare per gli interessi (immediati e storici) del proletariato!

(1) I dati ufficiali reperibili sul sito del U.S. Government Accountability Office indicano in 14800 miliardi di dollari il debito pubblico Usa alla fine dell’anno fiscale 2011, quasi il 100% del pil Usa. Nel 2012, il 46% dei titoli di credito era nelle mani di investitori internazionali. La Cina deteneva titoli per l’8,7% del totale. I dati aggiornati al febbraio 2013 rilevano che la percentuale è salita al 9.9%. Ogni cittadino americano ha un debito di più di 4.000 dollari con la Cina ed ogni cittadino cinese ha un credito di quasi mille dollari con gli Stati Uniti, i quali, secondo alcune stime, devono pagare 107 milioni di dollari d’interessi al giorno per il loro debito alla Cina.

(2) Nel 2001 i salari messicani erano 4 volte più alti di quelli cinesi, quelli statunitensi erano 30 volte più alti di quelli cinesi; oggi i salari messicani sono più alti di quelli cinesi solo del 30% e quelli statunitensi circa otto volte più alti. A questi differenziali salariali vanno però accostati i costi dei trasporti e i costi dell’energia (in forte calo negli Usa e in rapida crescita in Cina, forte importatore di petrolio). In cinque l’energia costa cinque volte più che negli Usa. Al saldo diventa conveniente per le multinazionali Usa produrre negli Usa o in Messico. Lo scorso anno la General Electric, la Apple, la Intel, la Gm hanno aperto stabilimenti negli Usa. Il Sole24Ore del 29 marzo 2013 informava che recentemente alcuni gruppi hanno avviato la costruzione negli Usa di impianti metallurgici e petrolchimici.

(3) Questo percorso ha trovato un momento chiave nello sciopero generale organizzato il primo maggio del 2006, v. che fare n. 66 (maggio 2006) “Stati Uniti: lo splendido primo maggio degli immigrati”.

Che fare n.78 maggio - ottobre  2013

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